INSEGNANDO S’IMPARA Quest’anno ho deciso di…

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INSEGNANDO S’IMPARA Quest’anno ho deciso di…
Foto Shutterstock

Al mio primo Capodanno in Irlanda ho scoperto l’esistenza di quella che in inglese si chiama la “New Year’s Resolution”, ovvero una promessa di automiglioramento per l’anno a venire, che si fa a se stessi. Il fatto stesso che in italiano non abbiamo una locuzione per descrivere questo concetto, indica, secondo me, che esso non appartiene alla nostra cultura. Di solito la frase si traduce come “buon proposito per l’anno nuovo”, ma considero la traduzione insoddisfacente in quanto un proposito è molto più vago di una resolution. Quest’ultima è una vera promessa, cioè si decide di prendersi un impegno esprimendo la determinazione a mantenerlo.

Né durante i miei anni istriani, né durante quelli triestini, ricordo di aver mai espresso un proposito per l’anno nuovo. Vaghi desideri, magari, tipo la pace nel mondo o trovare l’amore; ma una decisione concreta, no.

Quassù invece, la prassi è così consolidata, che rasenta lo stereotipo, per cui la notte di Capodanno si declama la propria decisione, dopodiché si passa la prima settimana a chiedersi reciprocamente “Qual è la tua resolution per quest’anno?”. Nel giro di giorni o settimane la suddetta resolution viene infranta, solo che adesso si fanno battute su quanto poco sia durata. Tutto questo fa parte di una consuetudine conosciuta, assimilata e radicata, che tutti riconoscono immediatamente. È un po’ come quando noi menzioniamo Pierino: basta il nome per evocare un personaggio con determinate caratteristiche, immediatamente riconoscibile e identificabile.

L’idea di associare l’inizio dell’anno e promesse solenni va molto indietro nei tempi. Per il loro capodanno detto Akītu (che allora cadeva in marzo), gli antichi babilonesi organizzavano complesse celebrazioni che si protraevano per 12 giorni, durante uno dei quali al re venivano tolti tutti i simboli regali e prima che gli venissero restituiti, doveva promettere di servire gli dei e il suo popolo. Sembra anche che i sudditi a loro volta giurassero fedeltà al re e promettendo anche di saldare i propri debiti.

Una situazione simile si verificò anche nell’antica Roma negli anni seguenti al passaggio dal calendario agrario, a quello giuliano che sancì gennaio come primo mese dell’anno. Anche in questo caso, oltre ai sacrifici al dio Giano gli ufficiali governativi facevano giuramento di lealtà nei confronti degli imperatori.

Nel medioevo era normale che i cavalieri giurassero di rimanere leali al loro re o signore, ma dalle fonti originali non è certo se questa prassi si tenesse il primo dell’anno. Charles Dickens però ritenne che il giuramento cavalleresco fosse di fatto una sorta di resolution che impegnava solennemente i cavalieri per i dodici mesi a seguire. Precisione storica a parte, lo scritto di Dickens è interessante perché denota che a quei tempi la resolution era una tradizione riconosciuta.

Finora abbiamo visto come due dei tre fattori della resolution (la promessa e Capodanno) vengano in essere. Manca il terzo, cioè il fatto che l’impegno sia con se stessi e non con terzi. Quando è avvenuto questo slittamento? Il più antico documento (ovviamente in lingua inglese) è un’annotazione nel diario di una nobildonna scozzese, Anne Halkett, che il due gennaio 1671, in una pagina intitolata “Resolutions” stilò varie promesse a sé stessa tra cui “Non causerò mai più offesa ad alcuno”. Nel gennaio 1802 Thomas Walker fece fare alla resolution un salto di qualità elevandola a satira quando, nella rivista dublinese the Hibernian Magazine, scrisse che “La solenne promessa dei nostri governanti è quella di non avere in vista altri obiettivi eccetto che il bene del paese”.

Con questo il quadro è completo, ma manca il titolo: il momento in cui la pratica viene battezzata, e sarà da lì in poi riconosciuta come “New Year’s Resolution”. L’esatto momento ovviamente sfugge, sarà stato un processo graduale come tutte le evoluzioni linguistiche. Fatto sta che durante il XVIII secolo la pratica non solo si è assodata, ma è anche emigrata, in quanto il primo gennaio del 1813 in un giornale di Boston appare un articolo dal titolo “The Friday Lecture,” (La lezione del venerdì) in cui “New Year’s Resolution” compare in tutta la sua interezza. Da allora la pratica e il suo nome sono diventati un luogo comune della lingua inglese.

Allora, quali sono ‘ste benedette resolutions? Le solite che abbiamo in testa tutti noi, ma che non verbalizziamo ufficialmente. Secondo una ricerca combinata (Harris Interactive Poll & Nielsen Research), le principali sono: smettere di fumare, dimagrire, smettere di bere o bere meno, curare l’alimentazione, dedicare più tempo alla famiglia e agli amici, fare più esercizio fisico, gestire meglio lo stress, leggere di più, imparare qualcosa di nuovo, smettere di procrastinare. Comparando questa lista con una redatta nel 1947 (Gallup Poll) si nota che cambia molto poco. Quelle riguardo la salute, i vizi e la famiglia sono praticamente identiche. Allora c’era più enfasi sull’aspetto religioso (andare in chiesa, fare del bene) e su quello finanziario (risparmiare o guadagnare di più), mentre oggi entra in gioco maggiormente l’aspetto del benessere psico-fisico.

Infine le statistiche dicono che la percentuale di persone che portano a termine le proprie promesse fluttua tra l’8 e il 31 p.c., mentre la stragrande maggioranza si arena al terzo mese. C’è da chiedersi come mai non riusciamo a tener fede ai nostri nobili obiettivi. Forse perché soffriamo della sindrome di Pinocchio cioè, partiamo con le migliori intenzioni ma lasciamo che il mondo con le sue attrazioni si frapponga tra noi e le nostra volontà. Ci lasciamo facilmente distrarre dalle compagnie, dalle nostre debolezze, dai balocchi tecnologici e dal luccichio di tutti gli specchietti che ci circondano.

In ogni caso, qualsiasi sia la vostra situazione personale vi lascio con gli auguri di un anonimo “Possano tutti i vostri problemi durare quanto i vostri propositi per il nuovo anno”.

 

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