
Recentemente ho menzionato i miei studenti anzianotti, quelli di livello avanzato che continuano a iscriversi da molti anni (con alcuni abbiamo superato l’anniversario d’argento) e di come questi corsi siano caratterizzati dalla continuità di presenza e innovazione di argomenti. Al polo opposto ci sono le classi composte in gran parte da giovani che vedo spesso solo per la durata di un livello (dieci settimane) e che prevedono un programma d’insegnamento prestabilito che si ripete di volta in volta. Sono corsi aperti principalmente agli studenti e dipendenti dell’Università per cui il panorama demografico è sbarazzino e cangiante: laureandi, dottorandi, ricercatori, impiegati, (rari i pensionati), che colgono la possibilità di fare un corso di lingua straniera in aggiunta al loro percorso di studio o di lavoro.
Questi corsi non portano crediti, tanto che una volta venivano offerti gratis (va precisato che gli insegnanti vengono pagati), ma proprio per questo motivo gli studenti si iscrivevano in massa e poi non si facevano vedere oppure frequentavano un paio di lezioni e sparivano. Adesso che viene loro richiesto un contributo tutto sommato modesto, la prendono più seriamente e una buona parte porta a termine le dieci settimane di lezione (anche se c’è sempre una percentuale di persone che molla).
Va da sé che in questa situazione di mordi e fuggi non si riesce ad instaurare un percorso didattico a lungo termine e non si ha l’opportunità di accompagnare gli studenti attraverso le varie fasi dell’apprendimento della lingua, per cui arrivati alla decima settimana ci si saluta con allegria e ci si augura ogni bene.
Però, questi corsi mi permettono di osservare le ondate di presenze di studenti stranieri all’Università, osservazioni che in passato mi hanno fornito spunti di riflessione anche per questi bozzetti. Quando in classe c’era una forte presenza di studenti cinesi e malesi, abbiamo ragionato della multiculturalità, mentre l’arrivo di un buon numero di sudamericani l’anno scorso ha spronato il tema dei passaporti.
Quest’anno la presenza straniera è più esigua e si indirizza verso l’est europeo (Repubblica Ceca e Russia) con una spruzzata di Medio oriente. Però la sfornata di ottobre mi ha riservato una grande sorpresa in versione due piccioni con una fava. Nel registro di uno dei corsi per principianti (quello del lunedì mentre l’altro è al giovedì), vedo una Monika il cui cognome finisce in – “ić” che suona veramente familiare. E infatti al secondo incontro, durante l’esercizio “Di dove sei” risponde “sono di Zagabria”. Al momento non dico niente, ma lezione conclusa, mentre sta uscendo, con fare noncurante le chiedo in croato cosa l’avesse portata a Belfast. Lo stupore nei suoi occhi mi ha riscattata per la scena subdolamente architettata e abbiamo finito per fare due chiacchiere. Quello che non mi aspettavo era che nella lezione parallela del giovedì una Tina dall’insospettabile cognome se ne uscisse con un “Mi chiamo Tina e sono di Zara”. A fine lezione parte la replica della scena di tre giorni prima e mi gusto un’altra dose di stupore, che però era nulla in confronto al bagliore di pura gioia che ha avuto quando l’ho informata dell’esistenza della conterranea. Mi ha quasi supplicato di dare il suo email a Monika e di pregarla di mettersi in contatto perché “mi manca tanto la nostra lingua e avrei piacere parlarla un po’”. Per farla breve, ho fatto il mio dovere di intermediario, le ragazze hanno comunicato, si sono incontrate e vissero tutti felici e contenti. Ma a me è rimasto il quesito del perché sia ancora tanto importante parlare la propria lingua quando si vive all’estero.
È chiaro che adesso la situazione è diversa di quella dei tempi dell’emigrazione, quando veramente si lasciavano il proprio paese e la propria lingua con uno strappo radicale, per cui nella nuova nazione si faceva “isola” con i propri compatrioti. Ma oggi? Dall’Europa non si emigra più, ci si sposta soltanto e non sempre per pura necessità. All’estero non è neanche che ci manchi “la nostra parola” perché con un telefonino e le app giuste si conversa anche in video con la gente di casa in qualsiasi momento. Allora perché tanta frenesia all’idea di incontrare qualcuno che parla come noi? Perché con una persona davanti, senza mediazioni di schermi, la parola è più viva, risuona spontanea ed echeggia direttamente nell’anima, ecco perché.
Questo lo dico con cognizione di causa avendolo provato anch’io. Personalmente non ho mai sofferto del complesso del “paisà”, non sono mai andata alla ricerca di altri italiani a Belfast, non ne ho neanche mai sentito la mancanza, per cui pensavo di essermi più che adattata alla nuova vita. Convinzione che è stata messa in discussione dalla conoscenza della triestina Paola, che è stata mia collega per un paio d’anni e con la quale con cui si parlava in dialetto con gusto. Quando ci si incontrava io mi tuffavo nella nostra parlata come un assetato in un fresco lago alpino. Che soddisfazione a macinare i nostri “xe” e “me piaxi”. C’era qualcosa di visceralmente benefico che non sapevo neanche mi mancasse.
Emerge dunque che la lingua madre è molto più di un semplice mezzo di comunicazione. È anche una parte di noi o, meglio, siamo noi in quella cifra che ci radica in una famiglia, in un’infanzia, in una cultura. Lo psicanalista francese Jacques Lacan lo ha riassunto con una frase quasi lapidaria: “Il linguaggio, prima di significare qualcosa, significa per qualcuno”. Non a caso anche l’UNESCO ha riconosciuto la centralità identitaria della lingua materna proponendo di dedicarle una giornata, proposta accolta dall’Onu, cosicché dal 2000, il 21 febbraio è diventato la Giornata internazionale della Lingua madre. Ma ancora prima, lo aveva capito bene Nelson Mandela quando disse che “Se parli con un uomo in una lingua a lui comprensibile, arriverai alla sua testa. Se gli parli nella sua lingua, arriverai al suo cuore”.
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