
Se c’è una cosa che chi insegna italiano alle persone di quest’angolo d’Europa deve imparare, è sormontare la loro congenita riluttanza a parlare. Un po’ per fattori culturali, un po’ per il loro temperamento riservato e modesto, ma per quanto riguarda l’attività orale, il nostro lavoro è simile a quello del dentista: a volte bisogna estrarre ogni frase.
Con il tempo e l’esperienza gli insegnanti si creano una rosa di temi che facilitano questo lavoro, argomenti di cui gli studenti discutono più volentieri. Tra questi c’è la descrizione della zona in cui si vive. Questo rispecchia la realtà di questa gente, che ha un rapporto molto più stretto con la compravendita di case, di quanto lo possiamo avere noi. Innanzitutto sono persone che traslocano spesso; vanno via da casa prima e abitano in alloggi condivisi, dopodiché si accoppiano, comprano la prima abitazione e salgono sulla “housing ladder”, cioè sul primo gradino del mercato immobiliare. Gli altri gradini li scalano con l’arrivo della prole, quando è necessario fare un “upsize”, cioè, trovare una casa più grande e, dopo che i figli sono andati via da casa, con il “downsize” ovvero ritornare ad un alloggio più contenuto e pratico per gli anni d’oro della pensione. Durante tutti questi passaggi il mercato immobiliare viene sempre tenuto d’occhio, perché il prezzo delle case dipende tradizionalmente da tre fattori “location, location, location!” che sembra una parola d’ordine, ma qui è un luogo comune. Ed è anche la ragione per cui modestissime e minuscole abitazioni in zone prestigiose costano come ville di dieci stanze in aree meno rinomate.
Quindi parlare dei vantaggi e svantaggi del proprio quartiere, delle ragioni per cui lo si è scelto, dei motivi per cui si abita in una determinata città e di dove si vorrebbe vivere idealmente, offre lo spunto di fare mente locale (è il caso di dirlo) su come ci si trovi nel nostro ambiente di vita e delle circostanze che ci hanno portato lì.
Se in Italia le preferenze abitative si giocano sulla dicotomia città – provincia, in Irlanda siamo ancora a città – campagna, con persone anche giovani che preferiscono la quiete di posti piccoli e poco serviti, rispetto alla comodità caotica della città. Come, ad esempio, un padre di famiglia del livello intermedio che difendeva con grande energia la sua decisione di far crescere i figli in un paesino con “una scuola, una chiesa e un minimarket” (e un pub ovviamente, anche se non lo ha messo nel compito), pur dovendo per questo fare due ore di pendolare al giorno e pur sapendo che per i figli adolescenti la scuola sarebbe a un discreto tragitto in autobus da casa. La sorpresa finale di questo studente è stato che alla domanda di quale fosse per lui la città più bella del mondo ha risposto “Tokio, per la sua miscela mozzafiato di architettura ultramoderna e giardini e templi tradizionali”. Tutto mi sarei aspettata fuorché questo, il che dimostra come le persone siano molto più complesse e sorprendenti di quello che sembra a livello superficiale, tanto che verrebbe voglia di scavare ulteriormente per vedere cosa c’è sotto le apparenti contraddizioni.
Molto simile al padre di famiglia, la scelta di una studentessa di traslocare in un paesino (senza neanche un pub questa volta), una volta raggiunta la pensione. Nel suo caso la città più bella del mondo era Città del Capo in Sudafrica, per la sua posizione spettacolare tra l’oceano e le montagne, per la natura – soprattutto i pinguini, ma anche per la varietà di ristoranti e attrazioni. Da notare che queste ultime sono proprio le cose a cui ha detto addio andandosene dalla città.
Toccante l’esperienza di un’altra studentessa che considera Venezia la città più bella. Poi si scopre che la sorella ha sposato un veneto di Castelfranco e che, quando va da loro, la gita a Venezia è vissuta come una fiaba che si rinnova di continuo. Invece lo studente universitario nato e vissuto in “una brutta città industriale inglese” ha portato l’esempio di Firenze come luogo ideale in cui far rinascere lo spirito.
Molto intrigante, infine, la descrizione, da parte di uno studente maturo, di una città di medie dimensioni, con poco traffico ma in compenso con cinema, teatri, ristoranti, gallerie e musei e ospedali ben attrezzati; un luogo dove il clima è mite, la gente è così cordiale che si saluta sorridendo quando si incrocia. Prima ancora che io riuscissi a fare domande, ha concluso dicendo “ecco questa è la mia città ideale, che come tale, non esiste”. Devo ringraziare questo studente perché mi ha portato a fare ulteriori riflessioni su cosa ci aspettiamo dai luoghi in cui viviamo, come ci sentiamo in essi e quanto ci piacciano veramente.
In questi lunghi anni in cui manco da Trieste, l’ho vista rinascere e fiorire. Da angolo d’Italia dimenticato, rassegnato e avvolta da un’atmosfera di ristagno economico e culturale è diventata un luogo molto desiderabile. È da almeno una decina d’anni che appare nella parte alta della classifica delle città con la migliore qualità della vita in Italia. Le scelte effettuate negli ultimi vent’anni, l’hanno portata ad essere – a detta del Sole 24 Ore – “una città a misura d’uomo, sicura, economicamente sostenibile. Piccola, ma cosmopolita, informale ed elegante e che ha tutto quello che serve”.
Anche in Istria sono state fatte delle scelte che hanno portato a trasformazioni soprattutto alla porta d’entrata delle nostre cittadine, che nella maggior parte dei casi, è ingombra di giganteschi scatoloni grigi, tutti uguali e fatti in serie. Un esempio per tutti è la povera Capodistria, soffocata da rotonde, doppie corsie e centri commerciali. Ma il trend si sta diffondendo anche altrove, con il benvenuto dei papaveri d’acciaio sulla mega rotonda di Pola o le periferie delle cittadine costiere invase dagli ipermercati e da agglomerati di stazioni di servizio. Economicamente le scelte avranno anche i loro benefici, ma esteticamente molto meno.
Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.
L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.