I quattro anni che Firenze passò sotto l’influenza di Savonarola non furono una passeggiata. Dopo lo splendore, lo sfarzo e il gioioso permissivismo della vita sotto i Medici, i fiorentini si ritrovarono a vivere in una città dove vigeva un regime penitenziale, punitivo e opprimente. Furono vietati i profumi, i gioielli, gli abiti troppo ornati; proibita la musica, il divertimento, il gioco d’azzardo, chiuse le osterie, banditi molti libri e l’arte profana. Il fervore purificatore del profeta Girolamo culminò nel famoso falò delle vanità del 7 febbraio 1497 al centro di Piazza della Signoria dove con specchi, cosmetici, vestiti di lusso, arpe, e tanti altri strumenti musicali, dadi, profumi, livree, parrucche, carte da gioco, libri immorali, dipinti, dovevano simbolicamente bruciare il peccato, il vizio, la depravazione, il lusso, la vanità e il demonio. L’ondata riformatrice era travolgente ed inarrestabile. Da vari documenti, scritti autobiografici e dalle “Vite” di Giorgio Vasari, risulta che l’influenza di Savonarola su Botticelli e Michelangelo fu radicale, determinante e molto più profonda dell’influenza che in precedenza aveva avuto il Magnifico. Era ovvio che le predicazioni del frate toccavano tasti reconditi dell’anima degli artisti, andando a colpire l’essenza stessa del loro essere: il ruolo dell’arte nel loro rapporto con Dio. Tutto si può dire di Savonarola, ma non che fosse uno sprovveduto in fatto di arte in quanto in gioventù aveva dimostrato uno spontaneo interesse per il disegno e aveva sempre dato una grande importanza al compito che l’arte aveva nella sua attività di predica. Secondo lui la bellezza perfetta risiedeva in Dio, e l’arte stessa avrebbe dovuto aspirare ad altezze sublimi per diventare strumento di evoluzione dello spirito umano. Al contrario l’arte pagana era immorale, nociva e deleteria perciò andava distrutta. Gli artisti dovevano farsi guidare dal divino per lavorare con mano onesta, su soggetti sacri, mantenendo la più alta qualità della loro maestria. Proprio perché “le figure delle chiese sono li libri” di coloro che non sanno leggere, delle donne e dei fanciulli “si vorria provvedere a esse anche meglio che li pagani”. Il messaggio era chiaro e riverberò cristallino nelle anime dei due artisti, che però reagirono ognuno a suo modo.
Per Botticelli le predicazioni di Savonarola ebbero un effetto devastante e provocarono un rigetto dei suoi antichi ideali pagani, come se la nuova rivelazione provocasse un senso di colpa che andava purificato. Perciò quel 7 febbraio in uno stato d’animo di terrificante esaltazione, Sandro corse nella sua bottega, fece razzia delle sue opere per gettarle personalmente nel rogo. Finirono così bruciati molti dei suoi disegni e schizzi preparatori di sue opere precedenti. Dopodiché si avviò verso un tramonto piuttosto amaro della sua esistenza. Sarà stato per la sua età, aveva 52 anni, o forse per la morte del “santo frate” l’anno seguente, ma la sua fase di misticismo coincise con il suo declino artistico. Dipinse ancora, ma non con il successo giovanile. Finì povero e invalido a trascinarsi per le strade di Firenze come ci dice il Vasari “condottosi vecchio e disutile, e caminando con due mazze, perché non si reggeva ritto, si morì essendo infermo e decrepito”, nel 1510.
Invece in Michelangelo le parole di Savonarola piantarono un seme che fu fonte di ispirazione fino alla sua morte, avvenuta moltissimi anni dopo nel 1574. Michelangelo non ebbe difficoltà ad introiettare il messaggio che l’essenza stessa dell’arte era quella di ispirare sentimenti devoti nello spettatore, e la familiarità con le Sacre Scritture era dunque essenziale per produrre un’arte che mirava al sovrumano. Non ci sono prove certe che Michelangelo fosse presente di persona al falò del 1497, in quanto aveva lasciato Firenze tre anni prima per approdare alla grande “fabbrica” di Roma. Però sappiamo che aveva ricevuto la commissione per la Pietà e in quell’anno era in zona, a Carrara a scegliersi i marmi, quindi non era estraneo alle vicissitudini della sua città. Quello che sappiamo comunque è che il suo talento, le sue convinzioni, gli insegnamenti del Magnifico e il messaggio di Savonarola confluirono tutti nella creazione di un prodigio di marmo, in quella Pietà terminata a soli 24 anni, ma che era già un capolavoro (tra l’altro, l’unico sul quale avesse posto la sua firma) che trascendeva la verità storica per raggiungere le vette di una verità suprema ed eterna. Ma non basta. Sembra quasi che nel tema della Madonna col Cristo morto Michelangelo avesse trovato la massima espressione del libero, eterno e fluido scambio d’intimi sentimenti amorosi tra Dio e l’anima individuale e questo diventerà un leitmotiv che lo accompagnerà durante tutta la sua lunghissima e poliedrica carriera di artista, offrendo consolazione soprattutto nei momenti di maggior sconforto. Così negli anni 1547-55, amareggiato tra le altre cose anche per la morte della sua grande amica Vittoria Colonna scolpirà la Pietà, detta Bandini, dove alla madre e al Cristo aggiungerà anche la figura di Nicodemo alla quale darà le proprie mature sembianze. Infine, nell’inventario degli oggetti del suo studio a morte avvenuta ci sarà l’ultima Pietà, la Rondanini alla quale avrebbe lavorato fino a pochi giorni prima di morire quasi 89enne.
In conclusione, prima che Michelangelo partisse per Roma e che Botticelli si avviasse verso il suo doloroso declino, finiva un frammento di Rinascimento fiorentino che era nato con l’armonia di un quadrilatero, diventando ben presto un pungente triangolo, per finire in due rette che continuarono in direzioni opposte.
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