
In inglese c’è il concetto di “Fresh Eyes”, tradotto con “occhi nuovi”, per indicare l’inclusione in un progetto, di una persona ad esso estranea, che lo possa osservare da una prospettiva scevra da familiarità e da un punto di vista imparziale. Lo scopo è quello di guardare a una situazione, un processo o un problema con la freschezza di chi lo vede per la prima volta, in modo da captare dettagli o risvolti non più visibili da quelli che ne sono profondamente coinvolti. Questo perché le consuetudini, gli automatismi e le forme pensiero abituali smorzano lo sguardo fresco e portano a dare per scontati molti aspetti del nostro mondo. In primo luogo perché, quando subentra l’abitudine, non ci facciamo più domande sul perché le cose siano come sono.
Recentemente con gli studenti avanzati abbiamo parlato proprio di uno di quegli oggetti dell’arredo urbano, che diamo talmente per scontato che ormai risulta quasi invisibile: l’umile panchina che guarnisce i nostri giardini, piazze, lungomari, atri, aeroporti e stazioni. Quando noi vediamo oppure usiamo una panchina, di solito non ci chiediamo né perché esista, né perché stia là. C’è, è a nostra disposizione, serve a qualcosa e ciò è più che sufficiente per non avere bisogno di saperne di più. Eppure, nel corso della storia, ci sono voluti diversi passaggi sia per inventarla che per effettuare il passaggio da oggetto privato ad oggetto pubblico.
Dall’antichità ci pervengono i resti archeologici in alcune di panche in pietra nelle necropoli egizie, mentre nella Bibbia si racconta che la casta Susanna sia stata insidiata dai vecchioni mentre si asciugava su una panca dopo il bagno. Ma nonostante questo ci sono pochi riferimenti di panche nell’antica Grecia dove i filosofi preferivano insegnare camminando oppure sedendosi per terra ai bordi delle piazze.
Le prime panchine, simili alle nostre, appaiono nelle ville patrizie dell’antica Roma, dove nacque l’esigenza di avere un luogo dove sedersi all’ombra degli alberi in giardino per conversare con gli ospiti. Ma comunque il nuovo arredo rimane circoscritto al privato.
Nel Medioevo, con l’affermarsi del cristianesimo, cominciano i pellegrinaggi e, visto che i viaggiatori coprivano lunghe distanze a piedi, fu necessario di provvedere a creare delle “doppie sedie di pietra” dove poter sostare lungo gli itinerari. Con questo la panchina soddisfava un bisogno pratico delle persone ed è un motivo per cui esse venivano poste in prossimità di locande e taverne. Anzi, a volte era proprio la panchina a segnalare la presenza di un ostello.
Si potrebbe pensare che il cristianesimo ci abbia regalato anche la panca in chiesa, ma non è stato proprio così. Anche qui le prime panche erano poste all’esterno della chiesa per far riposare viandanti, pastori, contadini e donne che portavano l’acqua, mentre all’interno del luogo di culto si stava in piedi. Oggi siamo talmente abituati a pensare alle nostre chiese con i “banchi”, che si fa fatica ad immaginarle vuote. Inoltre le panche non sono frutto del cattolicesimo, quanto della Riforma protestante che, con i suoi lunghissimi sermoni, creò l’esigenza di offrire un posto a sedere ai fedeli, pena lo sfinimento.
È nella Toscana del Rinascimento, quando piazze e logge vengono trasformate in spazio pubblico di avvenimenti e manifestazioni, che la panca diventa arredo urbano integrato nei grandi palazzi per offrire al popolo la comodità di assistervi. A Firenze si possono ancora ammirare le panche di pietra incorporate lungo i perimetri delle facciate di Palazzo Medici, Palazzo Strozzi o sotto la Loggia dei Lanzi.
Solo con l’affermarsi della cultura borghese dell’Ottocento, la panchina acquisisce l’aspetto e il concetto che le diamo noi oggi. A facilitare questo fu il passaggio di molti giardini e parchi da privati a pubblici, evento che fece diventare le panchine luoghi d’incontro, arricchendo, di fatto, anche la loro funzione. Quindi non più solo oggetti utili per riprendere il fiato, ma arredi che aprono nuove possibilità di relazionarsi. Non era più necessario esser stanchi per sedersi su una panchina, ma si poteva farlo per relax, per riflettere, per godersi il paesaggio o semplicemente per oziare. Ci si poteva incontrare per parlare, per amoreggiare, per fare politica (gli anarchici usavano darsi appuntamento sulle panchine dei parchi), fino alla trasformazione della panca in casa per vagabondi e senzatetto.
Negli ultimi anni abbiamo visto ulteriori trasformazioni del concetto di panchina. Nel 2014 a Torino sono nate le prime Panchine Rosse, ideate per sensibilizzare il pubblico sul problema della violenza contro le donne. L’iniziativa si è ben presto diffusa in tutta Italia, sia trovando consensi che scatenando polemiche. Meno controversa invece è stata la rapida diffusione delle panchine letterarie fatte in pietra ricostruita e levigata, dalle forme arrotondate molto particolari di libro aperto. Spesso sono coloratissime, ma soprattutto riportano citazioni di importanti scrittori e poeti.
Se gli italiani amano rielaborare in nuova chiave tutta la panchina, quassù ci si limita a personalizzare o identificare la panchina con una targa, per cui passeggiando per i parchi si leggono i nomi dei benefattori che hanno patrocinato il giardino e gli arredi, oppure le targhe in memoria di persone più o meno note che ne facevano uso. Ma siccome i britannici e gli irlandesi sono gente che l’ironia ce l’ha nel sangue, a volte si vedono targhe bellissime, scritte in corsivo su ottone lucidissimo, con frasi lapidarie che fanno sorridere. Ecco la traduzione di alcune (tutte autentiche).
“In memoria di Roger Bucklesby, che detestava questo parco e tutti coloro che lo frequentano”, “Questa panchina è dedicata a tutti i mariti che hanno perso la voglia di vivere, mentre seguivano le loro mogli per i negozi di calzature di Chester”, “In memoria di Huw Davies, che amava sedersi qui e urlare ‘andate a cagare’ ai gabbiani”.
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