IL COMMENTO Quei gesti che contano

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IL COMMENTO Quei gesti che contano

Il processo di riconciliazione tra i popoli, ma anche all’interno delle stesse nazioni, per lenire le profonde ferite del passato, arrecate dalle guerre e dai totalitarismi, è tutt’altro che concluso. Ma passi avanti importanti, anche molto coraggiosi, sono stati fatti finora e l’impressione è che le opinioni pubbliche dei singoli Paesi inizino a prendere consapevolezza della complessità del lascito del ventesimo secolo e del fatto che vadano rigettate le visioni manichee del secondo dopoguerra nelle quali le ideologie erano spesso al servizio dei vari nazionalismi che si fronteggiavano.
Sono passati dieci anni dallo storico Concerto dell’Amicizia del 13 luglio 2010 a Trieste alla presenza dei tre Presidenti. Appuntamenti a tre non li abbiamo più avuti, ma in compenso proprio quest’anno, nel decennale di quel vertice ormai passato giustamente alla storia, abbiamo potuto assistere ad altri gesti simbolici che fino a qualche tempo fa sembravano forse, se non impossibili, almeno lontanissimi nel tempo. Come non ricordare quella mano nella mano fra i Presidenti Borut Pahor e Sergio Mattarella a Basovizza per un omaggio a due luoghi simbolo, esempio per lunghi decenni di una memoria profondamente divisa. Il passo compiuto da Pahor, la visita alla Foiba, non è stato di certo scontato, anche se stemperato dalla restituzione alla Comunità Nazionale Slovena del Narodni dom. Nemmeno in Slovenia tutti la pensano allo stesso modo: le divisioni ideologiche della Seconda guerra mondiale pesano ancora enormemente, nonostante l’impegno profuso dal grosso del centrosinistra e del centrodestra per cicatrizzare le ferite. E quando a mettersi di mezzo è anche la componente dei rapporti interetnici tutto diventa più difficile e non tutti riescono a digerire certi passi. Eppure Pahor – assieme a Mattarella – quel gesto l’ha fatto, destinato a essere scritto a caratteri cubitali nella storia forse ancor di più del Concerto di Riccardo Muti.
Più semplice per molti versi è stata la visita di domenica del premier Andrej Plenković, leader del centrodestra, all’ex penitenziario del regime comunista jugoslavo sull’Isola Calva. Goli otok rappresentò una frattura anche all’interno della sinistra, non riuscì, a offuscare la stella di Tito rafforzata dal fatto di essere uscito vincitore dal braccio di ferro con Stalin. Eppure quella visita è importante a modo suo perché rappresenta pure un segno ufficiale della presa di consapevolezza che i regimi autoritari e totalitari sono tali, anche quando sono di segno ideologico opposto. E che le loro vittime hanno diritto a non essere dimenticate. Certo la targa governativa sull’Isola Calva c’era già, ma stavolta l’impressione è che il segnale dato sia stato più forte.
L’auspicio ovviamente è che il processo di riconciliazione con il passato vada avanti. Fra Trieste e Goli otok c’è di mezzo l’Istria e nei dintorni ci sono pure altri luoghi simbolo importanti. In mezzo ci sono altre vittime che chiedono pietà e attendono cristiana sepoltura, altri sepolcri che andrebbero contrassegnati. Si tratta di vittime di violenze alle quali non si possono dare a priori connotati nazionali che siano disgiunti da quelli ideologici. Qualcosa è già stato fatto e non è poco: ricordiamo Castua, ricordiamo Ossero. La strada è stata spianata. Andrà percorsa ancora? Questa è la sfida che attende i politici che sono davvero statisti veri negli anni a venire.

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