ECONOMIA E DINTORNI Transizione energetica: il ruolo del nucleare e dell’idrogeno

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ECONOMIA E DINTORNI Transizione energetica: il ruolo del nucleare e dell’idrogeno

Statisticamente, l’argomento più “cliccato” degli ultimi anni in Europa è il Recovery Plan, di cui pochi conoscono in dettaglio le caratteristiche, ma che ha stimolato riflessioni (e fantasie) anche nei cittadini meno acculturati in materia. La recente performance del programma JET (Joint European Torus) di Oxford ha riportato di grande attualità il tema della produzione sicura di energia attraverso la fusione nucleare; ottenuto dopo 24 anni il lusinghiero risultato di raddoppiare l’energia prodotta in un determinato lasso di tempo, le ricerche porteranno grande beneficio al progetto ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor), maggior entità mondiale in materia, costituita da un consorzio a guida francese nel quale l’Italia ha un ruolo fondamentale quale partner industriale e tecnologico. La sensibilità italiana è peraltro dimostrata dall’istituzione del Ministero “per la transizione energetica”, novità di spessore internazionale che l’Italia ha fatto propria con l’insediamento del Governo Draghi ormai un anno fa. L’istituzione del Ministero e la scelta del Prof. Roberto Cingolani alla sua titolarità, dovrebbero rappresentare una risposta agli scenari catastrofici prospettati dalla comunità scientifica in materia di degrado ambientale e climatico mondiale.

 

Una visione onirica e colorata

Nella percezione più poetica dell’opinione pubblica si immaginano scenari onirici di fiori colorati appena mossi dal minieolico, cascatelle con a valle invisibili micro turbine finalizzate a trasformare in energia pulita il flusso idrico e forse ombrellini parasole con microcelle fotovoltaiche collegate in wi-fi al televisore di casa. Ma i bei sogni si scontrano con la crescente domanda mondiale di energia: la popolazione continua ad aumentare nei Paesi poveri e richiede in misura crescente risorse per produrre cibo e beni di prima necessità; pertanto il Pianeta del futuro si deve necessariamente confrontare con il Pianeta del presente e le attuali esigenze di sopravvivenza di larga parte dell’umanità impongono di studiare come distribuire con ragionevole equità generi non sufficienti per tutti. Secondo i dati dell’autorevole Agenzia Intercontinentale Asianwes, oggi nel mondo quasi sei milioni di bambini sotto i cinque anni soffrono la fame, il 50 per cento in più rispetto al 2019, e 2.2 milioni muoiono ogni anno a causa della malnutrizione, 1 ogni 15 secondi. Ecco spiegato in estrema sintesi perché la carbonizzazione del pianeta non si arresta e non si limita neanche la domanda di prodotti petroliferi, che anzi continua a condizionare l’attuale incremento dell’inflazione internazionale. Una cosa è certa: il teorizzato processo di decarbonizzazione, che ha come target il taglio delle emissioni di gas al 55 p.c. per il 2030 e al 100 p.c. per il 2050, allo stato attuale è pura utopia.

Foto: REUTERS/Regis Duvignau

La fusione nucleare

Il ministro Cingolani ha recentemente espresso un concetto non contemplato da oltre vent’anni: la fusione nucleare va classificata come “la rinnovabile delle rinnovabili” essendo ormai ampiamente affrontata e circoscritta la questione della radioattività, il cui decadimento avviene ormai in tempi molto brevi. Il sogno illusorio di avere energia illimitata e a basso prezzo si realizzerà difficilmente, e comunque non prima di ulteriori cinquant’anni. La fusione nucleare potrà a breve riprodurre l’energia che si verifica nel Sole e nelle altre stelle per generare calore, luce ed energia. Il principio di base è ottenere energia unendo due elementi leggeri. L’unione si realizza avvicinandoli a una distanza di un millesimo di miliardesimo di millimetro (1 metro alla -15). Questa condizione limita la possibilità della fusione a elementi leggerissimi come il deuterio e il trizio, tramite i quali si ottiene l’elio e i neutroni, le particelle nucleari in cui è presente l’80 p.c. dell’energia da fusione.

Le nozioni tecniche

Senza annoiare il lettore con troppe nozioni iper tecniche, sintetizziamo che nel processo di fusione si produce materiale radioattivo insieme con materiali attivati dai neutroni, prodotti di corrosione, trizio e sue miscele. Dopo circa 100 anni dalla dismissione, i materiali risultano rigenerati e riutilizzabili. Nella reazione di fusione la gran parte degli elementi che si fondono è convertita in energia, talché un grammo di deuterio genera 100 mila KWh, equivalenti a quanto sviluppato da 70 litri di benzina, o da 2,5 tonnellate di carbone, con vantaggi economici immediatamente percepibili, oltre alla drastica riduzione di stoccaggio delle scorie e di particelle inquinanti in falda, nelle acque e nell’atmosfera. La reazione di fusione avviene a 80 milioni di gradi Celsius, temperatura alla quale la materia assume lo stato di plasma, indicato dagli scienziati come quarto stato della materia (oltre il liquido, il solido e il gassoso), situazione in cui i componenti elementari della materia sono separati. Per dare un’idea più chiara dello stato, il plasma è presente in natura soprattutto nei fulmini e nelle aurore boreali, ma è diffusissimo nell’Universo, dove rappresenta praticamente tutta la materia conosciuta.

Gli investimenti di Parigi

Come riferito in premessa, la Francia in questi anni ha proseguito nella ricerca evolutiva delle esperienze nucleari, investendo 14 miliardi di dollari nel richiamato reattore sperimentale ITER, che a una temperatura di 116 milioni di gradi permette di ottenere una potenza termica di 500 mila kW, contro i 50 necessari al suo funzionamento per 10 minuti. Parigi vuole così dimostrare che è assolutamente possibile produrre energia da fusione e aprendo la strada alla progettazione d’impianti commerciali prevede il conseguimento di un proprio volume d’affari nel contesto mondiale – atteggiamento chiaramente profit oriented, ottenendo benefici per l’ambiente, per la produzione di energia “pulita” e per i propri partner nell’iniziativa.

Rimanendo al piano strettamente scientifico, si stima che un milione di Kw richiedono 100 kg di deuterio e 3 tonnellate di litio. Una centrale a carbone, a parità di potenza, consuma in un anno quasi 2 milioni di tonnellate di combustibile; il raffronto è financo ingeneroso, tanto per l’impatto ambientale quanto per quello economico.

Foto: REUTERS/Stefano Rellandini

Idrogeno e fuel cell

Come tutti i componenti, anche l’idrogeno presenta vantaggi e svantaggi, ma nel contesto della transizione energetica riveste un ruolo di primaria importanza. D’altra parte il Recovery Plan ha previsto nelle proprie linee guida i seguenti punti fermi: frenare il cambiamento climatico, evitando le emissioni di gas serra o migliorandone l’assorbimento; adattarsi all’impatto del cambiamento climatico, prevenendo gli effetti negativi attuali e futuri; proteggere le acque e le risorse marine; ridurre l’inquinamento; salvaguardare la natura e le biodiversità; in sostanza, promuovere l’economia circolare, riducendo i rifiuti e aumentando il riciclo.

In questo senso la differenza può arrivare anche grazie alle fuel cell. L’idrogeno è un elemento che abbonda in natura, seppur non nella sua forma primaria. Infatti, al fine di ottenerlo è necessario mettere in atto processi quali l’elettrolisi, la conosciutissima scissione delle molecole di acqua (H2O), separando l’ossigeno appunto dall’idrogeno. Questo non è il solo metodo tramite il quale si può ottenere l’idrogeno, ma è ancora oggi uno dei più utilizzati. Ciò posto, il lettore ha il sacrosanto diritto di chiedersi a cosa servono le fuel cell, qual è il meccanismo che ne determina il funzionamento e quali sono gli eventuali limiti nell’impiego dell’idrogeno come fonte di energia. Le fuel cell altro non sono che le famose pile a combustione, speciali dispositivi elettrochimici che permettono di ottenere energia elettrica partendo da determinati elementi chimici, specialmente idrogeno e ossigeno. Non parliamo di qualcosa propriamente recente: la prima pila a combustione è stata creata nel 1839 dal chimico inglese William Grove.

Emissioni di CO2 pari a 0

A differenza delle batterie che vengono comunemente utilizzate nel nostro quotidiano, le fuel cell non accumulano energia, ma necessitano di alimentazione continua. Le fuel cell convertono energia finché ci sono sufficienti reagenti chimici. Basti pensare che le auto a idrogeno possiedono un serbatoio in cui l’idrogeno è contenuto a una pressione tra i 1.000 e i 2.100 bar, mantenendolo in forma liquida a una temperatura compresa tra i -251 e -253 C°. L’ossigeno viene invece preso dall’aria. Come le pile comuni, anche le fuel cell hanno i normali elettrodi, positivo e negativo. All’elettrodo positivo si verifica la riduzione dell’ossigeno, al negativo avviene l’ossidazione dell’idrogeno. Tale reazione chimica genera produzione di calore ed energia; l’acqua residua è scarto. Il fenomeno avviene in totale assenza di carbonio, pertanto non si produce alcuna emissione di CO2. Allo stato attuale esistono vari tipi di fuel cell, che si differenziano per la sostanza che compone le celle, come l’idrossido di potassio, l’acido fosforico, materiale ceramico o membrana polimerica.

Foto: REUTERS//Jorge Adorno

Vantaggi e svantaggi

Come ogni metodologia, anche le fuel cell presentano vantaggi e svantaggi. Il primo vantaggio è rappresentato dalle scarse emissioni di sostanze nocive. Come visto in precedenza, il solo materiale di scarto nei motori a idrogeno è l’acqua, per cui la tecnologia concorre a ridurre significativamente le emissioni di CO2; inoltre, durante il processo di elettrolisi si possono impiegare fonti energetiche rinnovabili (solare, eolico, idroelettrico etc.). Se al contrario si producesse elettricità utilizzando combustibili fossili, come il famigerato carbone, le emissioni di CO2 resterebbero alte, provocando alti costi in termini di estrazione e d’impatto ambientale; né possiamo sottacere che anche le singole celle sono ancora realizzate con materiali derivanti da fonti energetiche fossili. In ogni caso, grazie alla ricerca scientifica, il costo delle fuel cell è diminuito notevolmente negli ultimi anni; tra il 2010 e il 2020 il prezzo è sceso del 50 p.c., portando a una notevole riduzione del prezzo dell’idrogeno, che oggi non supera i 10 dollari al kg. Per quanto riguarda infine il settore automotive, rispetto alle auto elettriche un’auto a idrogeno necessita di tempi di ricarica molto più brevi (circa 5 minuti) e ha maggiore autonomia. Certamente i propulsori a idrogeno non presentano solo vantaggi: in primis, come abbiamo detto l’idrogeno deve essere mantenuto in forma liquida mediante pressioni molto alte; in secundis, se non conservato in maniera adeguata l’idrogeno può essere facilmente Infiammabile; ciononostante l’idrogeno pulito è l’elemento chiave verso la transizione energetica in Europa.

Il percorso è dettato da esigenze immediate e del prossimo futuro, secondo senso etico; ma anche dalla più evidente razionalità: la tecnologia “idrogeno pulito”, attraverso l’elettrolisi, può contribuire in misura ragguardevole a raggiungere l’obiettivo di un sostenibile e soddisfacente generare energia, accelerare la decarbonizzazione dell’industria e migliorare il nostro quotidiano ritmo di vita.

Ricadute nell’economia reale

Come ricordato in premessa, nell’ambito del Green Deal europeo è stato adottato l’ambizioso obiettivo di emissioni zero entro il 2050. Affrontare con urgenza il cambiamento climatico e il degrado ambientale impone di ridurre al più presto le emissioni di gas serra nell’UE. Il tema non può prescindere da interventi in ambito scissione nucleare e idrogeno; definire una tabella di marcia per l’implementazione su larga scala di queste tecnologie comporta per altro crescita economica e creazione di nuovi posti di lavoro. Progettazione, pianificazione dei finanziamenti, realizzazione di impianti comportano piani di formazione di nuove figure professionali fin dalle scuole medie, per poi proseguire con corsi universitari ad hoc, coerenti ed uniformi nei vari Paesi dell’Unione europea. Una saggia politica in tal senso avrebbe poi come diretta conseguenza l’aumento della sensibilità e l’attrazione di risorse da altri Paesi, che attingerebbero dall’Europa i formatori da impiegare nelle loro università e nelle grandi imprese di settore. Creare partenariati per l’energia pulita permette di accelerare le scoperte tecnologiche. Lavorando con le parti interessate internazionali, le partnership rafforzeranno la competitività e aiuteranno la generazione del valore, stimolando l’ingresso sul mercato delle aziende con soluzioni innovative. Il cittadino europeo non dimentichi che nessun’altra parte di mondo ha così tanti brevetti o pubblicazioni come l’Europa sul tema energia pulita e sostenibilità ambientale.

*senior partner juris consulta – cultura d’impresa

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