ECONOMIA E DINTORNI L’attualità del pensiero di Keynes

La presente contingenza economica e la crisi del 1929

0
ECONOMIA E DINTORNI L’attualità del pensiero di Keynes

La grande crisi che colpì l’America e gli altri Paesi occidentali nel periodo compreso tra il 1929 e il 1932 smentiva le teorie della scuola classica e in particolare la teoria di Say (equilibrio economico permanente tra domanda globale di beni e servizi e la relativa offerta), che riteneva solo transitori i fenomeni di scostamento dalla piena occupazione del lavoro e degli altri fattori produttivi; erano da considerarsi mere fasi di passaggio temporaneo nella solidità dell’equilibrio del sistema economico.
Fu in questo contesto che si sviluppò la teoria dell’economista inglese John Maynard Keynes, vissuto tra il 1883 e il 1946, autore dell’opera “Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta”. Il Prof. Keynes affermò che la condizione tipica del sistema economico non è l’equilibrio, ma la sottoccupazione: le risorse disponibili e la domanda sono inferiori rispetto all’offerta. In sintesi, al crescere del reddito i consumi crescono in maniera meno che proporzionale.
Quindi, per poter mantenere un determinato volume di occupazione è necessario che si effettuino investimenti sufficienti ad assorbire la differenza tra la produzione totale e i consumi. Per questo Keynes riteneva necessario l’intervento dello Stato che, attraverso la spesa pubblica, può determinare un aumento del livello di occupazione e, di conseguenza, un aumento dei redditi delle famiglie e, quindi, dei consumi.
Va da sé che le imprese, di fronte all’aumento della domanda, aumentano la produzione creando così nuovi posti di lavoro innescando un meccanismo di ripresa economico-finanziaria e di percezione di maggiore ottimismo, prevenendo fenomeni di tensione sociale e affermando la dignità della persona.

Deficit spending

L’aumento della spesa pubblica, essendo dispendiosa, poteva portare lo Stato verso un disavanzo del bilancio, detto deficit spending, termine con il quale s’intende proprio l’aumento del deficit pubblico dovuto a una crescita della spesa pubblica che ha come finalità quella di portare all’aumento della domanda. Il termine deficit spending è un termine inglese che deriva dal latino deficere, cioè mancare, venire meno e dal verbo inglese to spend, cioè spendere.
Secondo Keynes, nei momenti di sottoccupazione, è utile aumentare la spesa pubblica anche a costo di incorrere in un deficit spending, perché tale aumento porterebbe nel prosieguo ad una situazione di avanzo. In termini semplici, una situazione di disavanzo pubblico significa che lo Stato ha più spese di quelle che sono le sue entrate. Quindi, per coprire le maggiori spese, deve far ricorso a prestiti che dovrà poi restituire con il pagamento degli interessi, prestiti che sono rappresentati da titoli del debito pubblico collocati presso le banche. Poiché lo Stato si indebita e deve restituire anche gli interessi, un ricorso continuo al deficit spending può portare a un aumento del debito pubblico. Pertanto le misure di deficit spending vanno utilizzate per brevi periodi e in modo massiccio: lo shock deve essere immediatamente efficace.

New Deal

Le teorie keynesiane furono alla base del famoso New Deal, ovvero un piano di interventi pubblici finanziati dallo Stato adottato negli Stati Uniti d’America durante la Presidenza di Franklin Delano Roosevelt, che permise agli USA di uscire dalla crisi.
Il piano prevedeva l’inizio di una serie di lavori pubblici, sussidi economici ai disoccupati, oltre che salari minimi per coloro che avevano un posto di lavoro e forme di assicurazione sulla vecchiaia. New Deal letteralmente significa “nuovo corso” o “nuovo patto”, con cui si sintetizza l’insieme delle riforme elaborate da Roosevelt. Il suo predecessore, Herbert Hoover, Presidente degli Stati Uniti al momento dello scoppio della crisi, era sostanzialmente un liberista, come lo definiremmo oggi, pertanto poco propenso a un intervento dello Stato diretto a limitare i danni. Alle elezioni del novembre 1932 Roosevelt, candidato del Partito Democratico, ottenne uno strepitoso successo vincendo contro Hoover con il 59 p.c. dei voti, alimentando le speranze di una tutela del lavoro e, conseguentemente, di una ripresa. Divenuto presidente il 4 marzo 1933, in quelli che sono conosciuti come i “cento giorni” attuò riforme nel solco del pensiero keynesiano: si decise la svalutazione del dollaro; si potenziò l’influenza della Federal Reserve, attribuendole il compito di impedire il fallimento delle banche minori; furono immediatamente stanziati 3,3 miliardi di dollari (dell’epoca, equivalenti a circa 65 miliardi di dollari odierni) per la costruzione di opere pubbliche, per favorire l’occupazione; le industrie furono incentivate ad accordarsi sui prezzi per non abbassarli troppo, evitando il fallimento di quelle meno competitive; aumentarono i diritti dei lavoratori.

Creare occupazione

Roosevelt, dunque, agì sui mezzi che lo Stato ha a disposizione per permettere ai cittadini di vivere dignitosamente e di accedere alla salute, all’istruzione, ai sussidi; in una parola operò sul Welfare State. Furono messe in pratica le teorie di John Maynard Keynes, secondo cui lo Stato coinvolge e motiva i ceti più ricchi nei progetti di rilancio, i ceti più ricchi accettano una maggiore tassazione nel nuovo spirito di collaborazione e le risorse vengono utilizzate per creare occupazione, cioè posti di lavoro, ovvero stipendi, che producono consumi, nuovo lavoro e nuova ricchezza: la concertazione circolare.
L’attualità del pensiero è fin troppo evidente. Oggi la repentina, devastante perdita di valore (le cui origini risalgono a ben prima del coronavirus) impone interventi pubblici snelli, liberi dai vincoli di una burocrazia che è diventata non più solo invasiva, ma condizionante nei confronti di ogni politica industriale.
Quanto più snella è la macchina legislativa, tanto più rapida è la ripresa economica, e pertanto il recupero di dignità dell’esercizio del lavoro. Nel pensiero di Keynes non veniva però trattata (perché allora non preoccupante) una variabile oggi pesantissima: l’atteggiamento anti impresa del sistema bancario, principalmente italiano. Da alcuni anni l’impresa ha un nemico in più, un sistema bancario sempre più avviluppato nelle demenziali procedure di Basilea, che hanno contribuito in modo esiziale alla perdita di opportunità e di ipotesi di profitto, gettando i buoni progetti nelle braccia di altri Paesi, la cui cultura è certamente più orientata ad analizzare le idee che non gli immobilizzi. Per uscire rapidamente da questa crisi sarebbe opportuno seguire la lezione del grande Maestro dal punto di vista accademico e del grande Presidente dal punto di vista politico, ma abbiamo l’impressione che gli attuali detentori del potere siano un po’ meno capaci e molto più arroganti.
Ultima considerazione che vorrei condividere con i lettore, senza annoiarli: recentemente un epigono della scuola economica “classica”, monetarista convinto, ha tenuto a sottolineare che Keynes non è stato poi così determinante, non essendogli stato mai attribuito il premio Nobel.
Ho dovuto fargli notare che il Prof. Keynes è morto nel 1946, mentre il premio Nobel per l’Economia, ufficialmente premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel, viene assegnato dal 1969, in seguito all’istituzione da parte della Sveriges Riksbank di uno speciale fondo di dotazione per il conferimento del premio stesso. Ad majora!

Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.

L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.

No posts to display