ECONOMIA E DINTORNI Il rischio macroeconomico della stagflazione

La disoccupazione è alta, i prezzi dei beni e dei servizi sono elevati e la produttività economica è molto lenta

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ECONOMIA E DINTORNI Il rischio macroeconomico della stagflazione

I prezzi delle materie prime stanno incrementandosi a vista d’occhio e se l’evento preoccupa per logica i mercati finanziari per la probabile crescita degli intenti speculativi ad alto rischio, da alcune settimane sta condizionando anche i consumi quotidiani, ripercuotendosi sull’economia reale. I prezzi sono pesantemente cresciuti per petrolio, gas naturale, legno, rame, acciaio e tutti i metalli industriali; ciò comporta l’immediato aumento dei costi per le famiglie, e non solo per la bolletta energetica: basti pensare ad esempio al trasporto pubblico, alla spesa alimentare e agli oneri condominiali.

 

Un mito che crolla

In queste ultime settimane è di fatto crollato un mito: coloro che guidano auto a metano hanno visto quasi raddoppiato il prezzo del pieno, percentualmente più pesante dell’aumento di benzina e diesel. Il GPL è diventato un bene di lusso, ormai antieconomico anche in considerazione del tradizionale costo aggiuntivo di manutenzione motore. Come d’abitudine, i rilevanti aumenti di prezzo comportano la conseguenza di maggior circolazione di denaro, creando pertanto inflazione, fenomeno che tenderà a salire ancora a lungo, secondo i più accreditati esperti europei e americani.

Lontani dalla ripresa

La cosa più grave è che l’economia mondiale è lontana da una vera e propria ripresa (salvo la solita Cina), pertanto si contestualizzano pericolosamente inflazione e stagnazione delle attività produttive e dei consumi, generando la cosiddetta stagflazione, un termine di recente accezione che nasce dalla crasi fra stagnazione e inflazione. Uno scenario, quindi, dove i prezzi tendono a crescere a ritmi sostenuti, senza stimolare le imprese a espandere la produzione né a promuovere investimenti in nuove iniziative. Per quanto sopra la conseguenza è che non solo si ha inflazione, ma anche insufficiente crescita economica, appunto stagnazione.

Il fenomeno incuriosisce anche i più avveduti osservatori, che si chiedono da anni come e perché si crea l’humus della stagflazione. Normalmente, i prezzi in crescita dovrebbero stimolare gli imprenditori a produrre di più, con particolare riguardo ai beni più richiesti dal mercato, mentre nella fattispecie si verificano calo di produzione e scarso interesse dei mercati a incrementare i consumi.

Le cause

Il mix inflazione e stagnazione si viene a creare quando nonostante i prezzi crescano, i profitti restano immutati, se non addirittura in calo; pertanto risulta poco conveniente mantenere livelli di produzione non remunerativi. Ciò accade per molteplici motivi, tra cui le strutture di costo dei vari settori industriali. Facciamo un esempio: le industrie cosiddette “energivore”, ovvero quelle che usando molto fonti fossili e rinnovabili utilizzano risorse di importazione, hanno visto in pochi mesi realizzarsi sul mercato internazionale un poderoso aumento dei prezzi delle materie prime, senza poter aumentare di pari passo i propri listini dei prodotti finiti, sia per ragioni di forte concorrenza che di impatto sul consumatore (che pur rimanendo fedele al suo fornitore preferito, tende a diminuire la quantità di acquisti, rendendo più durevole il prodotto di sua fiducia).

Quanto sopra esposto si associa spesso al tema del costo del lavoro, che nella dinamica salariale tende ad adeguarsi velocemente all’inflazione prima che l’impresa riesca a contabilizzare l’aumento dei prezzi nei propri listini.

Lo skill shortage

In termini macro, al momento non si vedono all’orizzonte molte tensioni sui salari, in quanto la disoccupazione è ancora molto più elevata di quanto non fosse nel periodo pre-Covid. Non possiamo però non sottolineare che in qualche comparto ha inizio il fenomeno dello “shortage” di lavoratori qualificati, in media nei Paesi occidentali e non solo. Quindi, non sembra esserci un adeguato serbatoio di manodopera specializzata che possa scongiurare un rilevante aumento del costo del lavoro. A tale proposito, i più autorevoli osservatori economici delle organizzazioni imprenditoriali europee segnalano come si sta caratterizzando l’offerta di lavoro: da un lato si richiedono figure operative sempre più altamente qualificate, dall’altro vi è disponibilità di bassi livelli di competenze e specializzazione. I candidati risultano mediamente impreparati e poco duttili a percorsi di formazione intensiva; una causa remota e tuttora irrisolta resta lo scollamento strutturale tra la scuola e il mondo del lavoro o per la mancanza degli stessi. In particolare in Italia la situazione è allarmante: un Paese che punta a riprendersi dal Covid e la cui economia accenna a ripartire presenta il paradosso di tassi altissimi di disoccupazione – soprattutto giovanile – e il mondo delle attività produttive che propone costantemente numerose offerte di lavoro. In estrema sintesi la situazione di skill shortage presenta giovani che ricevono formazione superflua e scarso orientamento alla dinamica occupazionale (si dovrebbe studiare e approfondire ciò che serve al mondo produttivo) e aziende offerenti posti di lavoro che restano sostanzialmente scoperti per mancanza di figure idonee e capaci.

La dinamica dei tassi

Altro tema cogente è quello al costo del capitale. Attualmente i tassi nominali applicati dal sistema bancario europeo sono ancora molto bassi, per precisa scelta della BCE, che non può stroncare la ripresa in atto già ai primi segnali, nonostante l’inflazione sia in crescita; ciò comporta il fenomeno di tassi reali negativi. Ma tutte le piazze finanziarie si attendono prima o poi un riallineamento al rialzo dei tassi. In questo scenario si evidenzierebbero varie conseguenze: molti investimenti oggi effettuati diventerebbero meno interessanti e più difficilmente intrapresi con un costo del capitale aumentato (se si deve remunerare di più il capitale di terzi, è giusto che si preveda coerente remunerazione del capitale dei propri azionisti); per molte imprese gli attuali livelli di indebitamento sarebbero difficilmente sostenibili; con interessi più alti, il peso dei debiti pubblici porterebbe molti governi a inasprire il prelievo fiscale o, per limitare il prelievo, a ridurre incentivi e agevolazioni di Stato.

Gli effetti sugli investimenti

Riassumendo, la stagflazione è un fenomeno macroeconomico in cui la disoccupazione è alta, i prezzi dei beni e dei servizi sono elevati e la produttività economica è molto lenta. In tali scenari, le politiche di investimenti sia locali che internazionali diventano schizofreniche. Durante un periodo di depressione da stagflazione, gli investimenti rallentano e se la crisi continua a minacciare l’economia, i portafogli degli investitori potrebbero svalutarsi sensibilmente; in tali casi si preferisce disinvestire i titoli industriali e incrementare la presenza di certificati di deposito o di obbligazioni emesse dai governi, sottraendo risorse all’economia reale. E laddove non esista alcuna certezza circa la durata del fenomeno, anche gli investitori più orientati al rischio preferiscono mettere in portafoglio i cosiddetti beni rifugio, se non addirittura options il cui profitto è garantito dai fattori recessivi, e possiamo immaginare le conseguenze: pochi guadagnano sulle disgrazie di tanti…

Evitare gli «strappi sociali»

La teoria economica classica, affermando semplicemente che le perdite economiche e le plusvalenze economiche sono cicliche e l’economia si risolve naturalmente, non ci aiuta nell’interpretare e nell’affrontare la stagflazione, che richiede atteggiamenti coraggiosamente aggressivi. La teoria economica keynesiana ci insegna invece che concertando le politiche fiscali e monetarie tra i governi, le Banche Centrali e le imprese, i consumatori possono cambiare le proprie attitudini per adattarsi senza “strappi sociali” alle condizioni economiche. Di fronte ad una logica politica di riduzione dei costi da parte delle aziende, per regolare e razionalizzare la domanda di beni e servizi devono entrare in scena i governi e le banche centrali, sostenendo gli investimenti che le imprese, stremate, non possono programmare se non dopo aver ricostituito adeguati mezzi propri.

A maggior ragione tale scenario sconfessa la teoria della sovrapposizione dei fornitori per far scendere i prezzi dei beni e dei servizi; la “lotta fra poveri” ha come conseguenze: l’erosione della ricchezza, la riduzione dei salari e l’aumento della tensione sociale. Comprendere le dinamiche caratteristiche dei cicli economici di depressione è fondamentale per promuovere investimenti di qualità nell’economia reale, contribuendo ad accelerare i presupposti della ripresa.

A buona economia, buona società.

*senior partner jurisconsulta – cultura d’impresa

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