ECONOMIA E DINTORNI Dall’emigrazione alle politiche del lavoro e del pensiero moderno

Il più grande esodo migratorio della storia moderna è stato quello degli italiani. Le Comunità all'estero sono oggi una risorsa

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ECONOMIA E DINTORNI Dall’emigrazione alle politiche del lavoro e del pensiero moderno

L’emigrazione italiana nel mondo rappresenta uno degli aspetti caratteristici dell’intera storia del Belpaese. Molti altri Paesi hanno conosciuto (Spagna e Grecia ad esempio) e conoscono (Nord Africa e Far East) flussi migratori di grande portata, ma è difficile trovare fenomeni paragonabili a quello italiano per intensità, continuità temporale e distribuzione territoriale. Osservando con attenzione l’evoluzione del Paese, la storia complessiva dell’Italia in età contemporanea ha ereditato dal fenomeno migratorio i suoi più essenziali caratteri. Basta riflettere sulla figura dell’emigrante italiano per individuare come il fenomeno abbia interessato i più diversi ceti sociali e intellettuali, la più variegata provenienza territoriale e sociale, la diversificazione dei luoghi d’arrivo. La scelta migratoria ha avuto origine da varie motivazioni: scelte individuali, differenti contesti familiari, appagamento di ambizioni culturali e artistiche o obblighi di sopravvivenza per i protagonisti e le loro famiglie; ciò ha determinato le differenti ondate del fenomeno e i differenti flussi. Tutta la storia d’Italia degli ultimi 150 anni ha sensibilità e memoria per le fasi caratterizzanti l’emigrazione: l’arrivo dei “pionieri” nel nuovo luogo di vita; l’arco di vita delle prime generazioni; il consolidamento fuori d’Italia di quelle successive.

Dati statistici

Nei settant’anni successivi all’unificazione nazionale la politica del lavoro non solo non ha scoraggiato, ma ha perfino favorito l’emigrazione di forza lavoro palesemente in esubero. A partire dal 1861 fino ai primi anni Settanta l’Italia ha visto più di 24 milioni di partenze, praticamente un numero quasi equivalente all’ammontare della popolazione al momento dell’Unità d’Italia. L’esodo ha interessato di fatto tutte le regioni italiane: tra il 1876 e il 1900 il fenomeno si verificò prevalentemente nelle regioni settentrionali, di cui tre fornirono da sole il 47 per cento dell’intero contingente migratorio: il Veneto (17,9 p.c.), il Friuli Venezia Giulia (16,1 p.c.) e il Piemonte (12,5 p.c.); nei due decenni successivi, con oltre tre milioni di persone emigrate soltanto da Calabria, Campania e Sicilia, su un totale di quasi nove milioni da tutta Italia, il primato migratorio passò alle regioni meridionali. Gli Italiani sono stati sempre al primo posto tra le popolazioni migranti comunitarie (1.185.700 di cui 563.000 in Germania, 252.800 in Francia e 216.000 in Belgio) seguiti da portoghesi, spagnoli e greci; gli Italiani all’estero erano nel 1986 oltre 5 milioni, di cui il 43 per cento nelle Americhe e il 42,9 in Europa, il rimanente in Paesi comunque importanti per la storia dell’emigrazione, come l’Australia. Considerando i discendenti degli immigrati nei vari Paesi, l’entità delle collettività di origine italiana nel mondo ammonta oggi a decine di milioni di individui: al primo posto troviamo l’Argentina con 15 milioni di persone, seguita da Stati Uniti con 12 milioni, Brasile con 8 milioni, Canada e Germania con 1 milione ciascuno, e Australia con più di mezzo milione.

L’insufficienza della politica del lavoro

Con obiettività dobbiamo riconoscere che né la Destra storica, né la Sinistra, né l’Italia giolittiana, né il regime fascista affrontarono con la dovuta intensità il problema dell’endemica carenza di lavoro in Italia, privando il Paese di efficaci piani di sviluppo sia nel settore primario che secondario. L’emigrazione rimase quindi l’unica possibilità di tenere sotto controllo un fenomeno socialmente esplosivo, stante la storica arretratezza dell’Italia nella programmazione economica. I primi emigranti furono braccianti liguri, veneti, piemontesi, toscani e meridionali provenienti dalle zone costiere, costretti a emigrare per via della crisi economica che colpì a fine ‘800 il settore agricolo e zootecnico. È importante sottolineare che non si trattava di emigrazione definitiva: appena poteva, l’emigrato rientrava e cercava di avviare una propria piccola attività artigiana o agricola nella propria città di origine. Si pensi che alcune grandi compagnie di navigazione europee aprirono agenzie nel sud Italia, organizzando gruppi di emigranti che venivano letteralmente stivati nei piroscafi diretti in America Settentrionale, ove c’era richiesta di tecnici e operai, e in America Latina, ove era facile essere impiegati come contadini. L’emigrazione settentrionale fu invece orientata, almeno inizialmente, verso Francia, Belgio, Svizzera e Germania.
Dal 1900 al 1915 l’emigrazione italiana interessò circa 600mila espatriati all’anno, soprattutto negli Stati Uniti, in Argentina e in Brasile; aveva inizio pertanto l’emigrazione di massa, per cui intere famiglie lasciavano l’Italia per non ritornare più, favorite dal bisogno di manodopera nelle Americhe in piena espansione economica.

Leggi orientate a controllare

La Prima guerra mondiale frenò fortemente il fenomeno migratorio in quanto le risorse umane e le attività produttive erano in larga misura concentrate nello sforzo militare. Dopo il conflitto il Paese era ancor più stremato e il movimento migratorio riprese con maggior consistenza del periodo precedente, inducendo i Paesi-meta a promulgare leggi orientate a controllare, e in alcuni casi a limitare, i flussi di entrata. Nel 1917 gli Stati Uniti vararono norme che favorivano l’emigrazione britannica e nord europea a scapito di quella mediterranea e nel periodo tra il 1921 e il 1924 nuove disposizioni che fissavano le quote di emigrazione per ogni singolo Paese. Teniamo a precisare che con la crisi del 1929 l’emigrazione verso gli Stati Uniti si fermò quasi completamente. Negli anni Venti anche Argentina e Brasile vararono leggi sull’emigrazione, non consentendo ingressi indiscriminati. In sintesi non si accettavano più analfabeti, erano richiesti lavoratori qualificati e mediamente istruiti; i due Paesi preferivano l’emigrazione urbana rivolta all’industria, scoraggiando in sostanza quella contadina.
In Italia il fascismo promosse una politica antimigratoria, ma il fenomeno continuò a manifestarsi in quasi 200mila espatri all’anno. La propaganda di regime non permetteva che si parlasse di emigrazione dovuta a necessità di combattere la povertà, enfatizzando retoricamente la “manifestazione della sovrabbondante energia di un popolo giovane ed entusiasta”. Intere famiglie decidevano invece di lasciarsi alle spalle i forti disagi del Paese di origine e di dare inizio a una vita nuova. Ritratto usuale era la giovane coppia che vendeva tutti i propri – modesti – beni e portava i figli piccoli e i genitori anziani verso una nuova speranza. Era il passaggio dalla paura del presente, alimentata dall’invadenza dello stato totalitario, alla ricerca di un posto dove ci sarebbe stato più lavoro e più felicità per tutti.

Il Nuovo Mondo e il Nord Europa

Milioni di emigranti italiani misero in gioco sé stessi e le loro famiglie, senza pretendere il conseguimento di grandi fortune, ma con lo scopo di trovare un lavoro dignitoso, una decorosa casa per i propri cari e un’istruzione adeguata per i propri figli. Inconsapevoli eroi, dovendo affrontare dopo il lungo viaggio in nave le minuziose analisi fisiche e psicologiche a cui gli immigrati dovevano essere sottoporsi una volta sbarcati, e dal cui esito dipendeva il diritto a rimanere nel Nuovo Mondo o l’obbligo a tornare nel Vecchio. Consigliatissima a tale proposito la visita all’Ellis Island Immigration Museum di New York. La libera circolazione dei lavoratori tra i vari Paesi (quella con la Germania è stata ad esempio sancita nel 1961) ha permesso di perseguire l’integrazione sociale e culturale degli italiani emigranti pur con le tante difficoltà dovute alle lingue e alla antropologica diffidenza verso il “diverso”. Quest’ultimo aspetto ha assunto particolare rilevanza quando i locals hanno compreso che gli italiani non percepivano più l’esperienza come temporanea, non intendevano tornare in patria dopo aver guadagnato un soddisfacente quantitativo di denaro, ma avevano dato inizio a percorsi imprenditoriali e professionali stabili, riorganizzando le loro vite secondo i nuovi Paesi, ma senza dimenticare le proprie tradizioni di origine.

Formazione bilingue

Gli italiani si sono presto adeguati ai sistemi educativi dei Paesi ospitanti, dando importanza alla formazione bilingue, incentivando l’insegnamento della lingua italiana nelle scuole locali. Grande importanza assunsero pertanto gli emigranti italiani più istruiti, che contribuirono a migliorare le prestazioni scolastiche dei bambini al fine di aumentare la loro integrazione in una società diversa da quella di origine.

Il rapporto con la Madrepatria

Il rapporto tra la Comunità e la Madrepatria resta sempre emotivamente vivo tra gli Italiani, che pur parlando sempre meno italiano e sempre più inglese, portoghese o spagnolo e pur impegnandosi nelle attività politiche e sociali delle nuove terre di adozione, continuano a creare manifestazioni di attaccamento alla Patria di origine, ancorché talora commisto con il rammarico di sentirsi da essa trascurati, se non addirittura ignorati. Il caso dell’atteggiamento della Comunità italiana durante la Prima guerra mondiale è a questo proposito significativo: vengono organizzati i Comitati Pro Patria e contemporaneamente si riscontra un elevato tasso di renitenza alla chiamata alle armi. Un altro esempio del contraddittorio rapporto tra Comunità e madrepatria si registra anche negli anni della Seconda guerra mondiale.
Le varie crisi economiche susseguitesi negli ultimi cento anni, pur comportando per molti italiani pesanti erosioni di posizione sociale sino a quel momento conquistate e consolidate con grande fatica, pur non accentuando l’insofferenza verso la Patria di adozione, hanno sollecitato la ricerca delle lontane origini. Soprattutto i giovani, che in molti casi rappresentano oggi la terza e la quarta generazione, sono desiderosi di capire e conoscere il Paese di provenienza della loro famiglia e, quando possono, viaggiano per visitarlo, spesso alla ricerca di parenti dei quali hanno perso le tracce.

Corsi e iniziative dedicate

Diviene focale il tema istruzione superiore e soprattutto universitaria: nelle Università americane, canadesi, brasiliane l’immigrazione europea è considerata un tema degno di analisi attorno a cui si attivano una molteplicità di corsi, seminari e iniziative tese all’esplorazione di archivi pubblici e privati. I ricercatori più impegnati ed entusiasti sono proprio i discendenti dei primi immigrati del secolo scorso.
Chi scrive ha visitato recentemente il “Centro de estudios migratorios latinoamericanos” di Buenos Aires: il lavoro di molti studiosi, l’appoggio della collettività italiana e un finanziamento del Ministero degli Esteri italiano ha reso possibile, nella seconda metà degli anni Ottanta, la raccolta di molto materiale prezioso che rischiava di andare perduto. Giornate di studio organizzate annualmente fanno progressivamente il punto sia della raccolta e razionalizzazione del materiale, sia della ricerca storica che comincia ad avviarsi. Vengono per altro condotti studi che contestualizzano l’immigrazione italiana nei vari Paesi. Il dibattito storiografico internazionale in tema di storia dell’emigrazione affronta con sempre maggiore interesse il problema dell’identità culturale, dell’integrazione proattiva e dell’evoluzione sociale grazie al ruolo delle donne. Verifichiamo costantemente che gli studi sull’immigrazione italiana in Argentina, Brasile e Stati Uniti analizzano la storia del movimento operaio e delle dinamiche del mercato del lavoro esplorando intere città o quartieri di città italianizzati, con particolare riguardo alla struttura familiare in ogni sua componente (spesso matriarcale).

L’imprenditorialità all’estero

Nei Paesi americani e in Australia la stragrande maggioranza degli italiani si inserisce fin dall’inizio della sua presenza migratoria nel settore dei servizi. La Comunità italiana si caratterizza per essere costituita essenzialmente da lavoratori autonomi: venditori ambulanti, artigiani e commercianti, particolarmente numerosi nel settore alimentare e in quello dei generi di utilità domestica. Alcuni di essi si trasformeranno nel corso del Novecento in piccoli e medi imprenditori industriali, diversi dei quali diventeranno grandi, soprattutto nel secondo dopoguerra nei settori dell’industria meccanica, alimentare e dell’abbigliamento. I settori di alcolici e bevande, alimentare, tessile e confezioni, della lavorazione del cuoio e delle pelli, dei materiali di costruzione, dei prodotti chimici sono quelli in cui si registra una presenza più consistente di industriali italiani che, fra l’altro, si fanno notare per dinamicità e spirito d’iniziativa. La formazione di capitali all’interno del Paese di residenza, il carattere familiare delle imprese, le catene migratorie e l’elevato tasso di inserimento sociale definiscono la presenza italiana nell’industria americana. Le Autorità americane prendono positivamente atto dell’integrazione da parte della Comunità italiana: a differenza di altri europei (irlandesi o spagnoli, ad esempio), non si avverte la priorità di fondare istituzioni all’interno della collettività né di svolgere un ruolo invasivo negli organismi rappresentativi a livello nazionale. La presenza di italiani o di loro discendenti nella struttura sociale americana non è proporzionale al volume delle loro attività industriali; in sostanza, gli Italiani costituiscono di fatto una lobby etnica più economico-produttiva che politico-istituzionale.
Gli Italiani per lunghi periodi non hanno goduto di immagine positiva, troppo spesso additati nello stereotipo che li vedeva esagerati nei comportamenti, eccessivamente disinvolti, istrionici, opportunisti. Per smentire tali pregiudizi, gli italiani hanno introdotto nel tempo una prassi politica con il potere positivamente italiana, brillante ed efficace. Nei rapporti delle Polizie ai vari uffici dei Ministeri interessati leggiamo infatti commenti ammirati da parte dei vari funzionari per la singolarità della collettività italiana che, nonostante le inevitabili discordie interne e le difficoltà del primo dopoguerra, “dimostra una laboriosità, una parsimonia e una mobilità sociale cha la rendono un caso unico in tutta l’America”; la Comunità italiana veniva sostanzialmente indicata come una “colonia modello”.

Talento e capacità organizzative

Come abbiamo visto, l’Italia può essere definita il Paese che non ha permesso ai progenitori delle attuali generazioni di emigrati di prosperare in Patria; ciononostante resta comunque profondamente amato da loro. La fiducia internazionale nel sistema Italia è fortemente ridimensionata rispetto a pochi anni fa e il gap è difficilmente recuperabile: probabilmente solo gli Italiani all’estero possono oggi aiutare gli italiani in Patria. In estrema sintesi, uomini di successo, cittadini del mondo ma sentimentalmente legati all’Italia, persone che hanno ampiamente dimostrato di essere dotati di talento e capacità organizzative non comuni, hanno la possibilità di mettere a disposizione della loro terra di origine la loro esperienza e la loro competenza, al fine di contribuire con idee e risorse al rilancio dell’economia e della società italiana, riconfermando il primato intellettuale del Pensiero Mediterraneo.

Il Pensiero Mediterraneo

Il Bacino del Mediterraneo mantiene intatto il proprio valore e il proprio significato nella cultura e nella società occidentale, avendo fin dall’antichità avuto un ruolo cruciale nel determinare tutta la vicenda dell’Occidente. Le terre non sono mai state completamente separate, non vi sono le smisurate distanze oceaniche: ciò ha permesso i rapporti tra i popoli, il sapere non si è mai fermato e il potere non si è fissato nell’immobilità, se non per periodi (storicamente) brevi. La modernità del messaggio portato nel mondo dall’emigrazione italiana è perciò la sintesi fra “pensieri isolati”: Heidegger, teorico dell’accentramento terrestre in polemica con la società mercantile, e Nietzsche, che esalta il mare solo come infinita apertura, partenza come esodo senza ritorno e senza rimpianto. La sintesi, la soluzione semplice e complessa nello stesso tempo, racchiude il moto doppio dell’andare e tornare, tra terra e mare. Il dibattito storico, sociale ed economico vuole oggi superare categorie e concetti per troppo tempo cristallizzati in modo ideologico, perseguendo l’omogeneità tra voglia di conoscenza globale e permanere del sentimento di origine.
Dedico con umiltà questo breve scritto a quanti, visibilmente o silenziosamente, hanno destinato energie e risorse, e in tanti casi anche la vita, per affermare la diffusione del Pensiero Mediterraneo come principio di democrazia e, pertanto, di libertà e, pertanto, di civiltà.

*senior partner di jure consulting
– cultura d’impresa

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