C’è voluto un intero secolo di vita per contenere tutte le esistenze di Bruno Petrali, una figura talmente poliedrica da sfuggire a qualsiasi possibile etichetta. Studente di legge a Milano negli anni della Liberazione, speaker radiofonico, attore e poi direttore (dal 1969 al 1982) del Dramma Italiano del Teatro di Fiume. E ancora, cantante di repertorio nella Jugoslavia post-bellica e telecronista di Tele Capodistria, l’emittente di confine che fece conoscere il “colore” agli spettatori del nord Italia ancora incatenati al bianco e nero della Rai. Impossibile incasellare queste esperienze in fasi ed epoche, tanto il suo carisma e le sue competenze erano capaci di compenetrarsi, di trarre continuamente linfa l’una dall’altra. Ne sorriderebbe, di questi maldestri tentativi di dare un nome alle sue innumerevoli attività e professioni; se ne farebbe beffe, in fondo, perché Petrali è stato davvero uno degli ultimi esempi di un Novecento popolare, di una cultura che germogliava non dal tecnicismo, ma dal saper dare un senso alle cose lasciando scorrere e fluire connessioni, ricordi, suggestioni, rigore storico. Nelle tante vite di Petrali ho avuto la fortuna e il privilegio di imbattermi in lunghe chiacchierate telefoniche o via Skype, o ancora in diversi incontri di persona presso la casa di riposo “Kantrida” al civico 6 di via Ðuro Catti a Fiume, a una manciata di minuti dall’omonimo stadio cittadino cui la sua attività professionale è stata fortemente legata.
Lo sport – il calcio in particolare, ma non solo – è stato uno dei suoi ambiti d’elezione; il gusto dell’aneddoto come strumento per raccontare e tramandare la “fiumanità” ne ha alimentato il mito, facendone punto di riferimento imprescindibile per chiunque volesse capirne di più, dare forma e ordine alla storia di Fiume e alla sua anima, a quel groviglio inestricabile di confini, lingue, identità, passioni, sogni. In uno dei primi incontri a distanza (era l’ottobre del 2015), prese carta e penna e iniziò ad annotare: 2 marzo 1947, NK Kvarner – Hajduk Spalato 1-1. Era la sua prima radiocronaca per Radio Fiume, la Fiumana aveva assunto il nome di Kvarner prima di diventare definitivamente NK Rijeka. Bruno abbozzò la formazione titolare scandendo nomi italiani, come Lucchesi e Belcastro, e altri slavi o slavizzati, come Raunich e Marčetić. Si aprì un mondo, l’archivio intimo e personale che portava un signore di oltre novant’anni a ricordare gli undici titolari di una partita di settant’anni prima. Il calcio fiumano è stato il suo pallino dominante; imbattibile nel ricostruire nomi, squadre, persino tabellini. In una delle nostre chiacchierate, rivendicò con orgoglio un primato che meriterebbe maggior attenzione: parlando degli anni Trenta, sottolineava come pochi altri luoghi al mondo fossero stati in grado di esprimere tanta qualità e tanti campioni in così pochi chilometri quadrati di terra. I fratelli Varglien, Zidarich, che giocavano nel Bruno Petrali e l’arte di saper dare un senso alle cose Livorno, Volk, Michalic, Loik che morì a Superga con il Grande Torino, Froglia, Osojnak (che era stato suo amico fraterno). E per ciascuno un aneddoto o una curiosità sul numero di gol, sullo stipendio, sulle case in cui abitavano, sui lavori che facevano per sbarcare il lunario oltre al calcio, su carriere che avrebbero potuto prendere traiettorie persino più preziose di quanto quei tempi difficili concedessero. I giocatori, ma anche le squadre e i campi di Fiume. Parlando di questo mondo all’apparenza piccolo, ma in realtà frastagliato e catalizzatore di conflitti e contraddizioni ben più ampie, la voce di Petrali si faceva sicura e i ricordi puntuali, solidi; difficile gli sfuggisse qualcosa di quel microcosmo che aveva visto la serie B della Fiumana come apice di un movimento sportivo ancora più vivace e degno di menzione. Snocciolava date e nomi di squadre dai nomi mitologici: Elettra, Leonida, Gloria, Olympia, Eneo, ASPM (Azienda Servizi Pubblici Municipalizzati); in alcune ci aveva militato, altre le aveva incrociate da avversario, perché da ragazzo Petrali era stato anche una discreta mezzala. Per lui, l’essenza del calcio a Fiume era il campionato “Sezione propaganda”, un torneo che portava i segni del fascismo e che nei suoi racconti sembrava davvero rappresentare il centro del mondo; un torneo in cui le squadre della città si sfidavano al Campo Cellini, che era stato ribattezzato “Campo di Casa Balilla”, e di cui lui ha custodito la memoria. Nei suoi racconti, mi colpì il ricordo di un certo Prete, un ragazzo del 1927 che giocava nell’Eneo e che viveva nel rione di Centocelle (Valscurigne); finì ammazzato durante un bombardamento tedesco del maggio ‘45, a guerra praticamente conclusa. Aveva 18 anni e, assicurava, era il più forte di tutti, avrebbe avuto una grande carriera nel solco dei campioni fiumani più vecchi di lui. Non è facile oggi trovare notizie su quel ragazzo, se non appellandosi ancora una volta ai racconti di Petrali.
Con l’esperienza di telecronista per Tele Capodistria, Petrali ha raggiunto una certa notorietà anche al di fuori della città, oltre i confini di un mondo ancora diviso dalla cortina; lui, Tavčar e Vidrih erano le voci di punta dello sport, Vidmar, Damiani, Odogaso, le seconde leve. Una squadra che ha fatto conoscere in Europa il calcio e il basket jugoslavi, ma anche il pugilato, il nuoto, la pallanuoto, il pattinaggio artistico. Tele Capodistria ha cambiato la percezione del racconto dello sport in televisione anche per il pubblico italiano e lui ne è stato uno degli artefici con una purezza, una semplicità e un disincanto davvero senza eguali. Custode dell’italianità latente di una città a lungo contesa, lamentava il progressivo abbandono di questa cultura. “Siamo come i pellerossa d’America”, ripeteva. A 97 anni, la notte di Natale, anche uno degli ultimi pellerossa ci ha salutato
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