Vittorio Storaro tra tecnologia, arte e filosofia

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Vittorio Storaro tra tecnologia, arte e filosofia

ZAGABRIA | Il tre volte premio Oscar per la fotografia Vittorio Storaro – per “Apocalypse Now”, “Reds” e “L’ultimo imperatore” – è in visita oggi e domani a Zagabria, ospite dell’Istituto Italiano di Cultura. Il noto artista, che non ama definirsi direttore della fotografia, ma piuttosto cinefotografo o, all’americana, “cinematographer”, sarà questa sera, ore 19.30, al cinema Europa per la proiezione de “Il Conformista” (1970) diretto da Bernardo Bertolucci, tratto dal romanzo di Aberto Moravia. Storaro introdurrà il film – uno dei suoi preferiti tra quelli realizzati nel corso della lunga collaborazione con Bertolucci – assieme al critico Boško Picula. Domani, mercoledì, alle ore 11, terrà, invece, una masterclass, in collaborazione con l’Accademia d’arte drammatica Scena F22 (Via dei Frankopani 22) dal titolo “La lingua del colore”. In occasione della sua visita a Zagabria lo abbiamo intervistato.

La rivelazione del colore

“Alla masterclass di Zagabria parlerò di quanto è fondamentale l’equilibrio tra la tecnologia e le arti e la filosofia, altrimenti si finisce di essere dei semplici esecutori – esordisce Vittorio Storaro –. Sono stato educato con il bianco e nero. All’epoca dei miei studi al Centro sperimentale, l’approccio al film era interamente monocromatico. Il colore era ignorato, si pensava che non consentisse di lavorare con le ombre. Ho scoperto il contrasto tra luce e ombra nel colore solo quando, casualmente, mi sono imbattuto nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, dove ho scoperto il dipinto di Caravaggio sulla vocazione di San Matteo. Fu per me una rivelazione. Capii di non sapere ancora nulla sulle possibilità dell’immagine. Ero molto a conoscenza delle tecnologie ma non delle arti. Il mio primo confronto con il colore avvenne con la pellicola ‘Delitto al circolo del tennis’ del 1969, con la regia di Franco Rossetti, produzione italo-jugoslava che realizzai proprio a Zagabria. Ma era un più un approccio di emozione che di conoscenza. Fu proprio in quell’occasione che ebbi modo di conoscere la pittura naïf jugoslava. In particolare la scuola ‘primitiva’ di Hlebine, caratterizzata da dipinti su vetro, con un’accentuata potenza cromatica. I colori sul vetro erano saturi, completamente diversi da quelli sulla tela. Erano opere che provocavano in me potenti emozioni. L’arte naïf è stata così la mia prima insegnante del colore e ho cercato di duplicarla al cinema. Il primo film a cui lavorai seguendo tale ricerca fu ‘Strategia del ragno’ del 1970, di Bernardo Bertolucci. Il mio amore e l’ammirazione per l’arte primitiva dell’ex Jugoslavia mi portò a curare la cinefotografia del cortometraggio ‘I grandi naïf jugoslavi’ (1973) con la regia di Luigi Bazzoni. Nel cortometraggio sono stati presentati quattro artisti primitivi della Croazia, Mijo Kovačić, Ivan Večenaj, Ivan Rabuzin e Ivan Lacković Croata. Il filmato è stato di grande aiuto per la mia creatività e pure in seguito mi è tornato utile per tanti altri progetti”.
Nella sua carriera ha ottenuto tre Premi Oscar per la Migliore fotografia con altrettanti registi diversi.
“Provengono dalla Scuola del cinema italiano, di registi che mi hanno trasmesso l’insegnamento che in ogni progetto occorre trovare una visione particolare. Mi sono trovato bene con tutti loro. A partire da Bernardo Bertolucci, con cui abbiamo realizzato pellicole come ‘Il conformista’, ‘L’ultimo tango a Parigi’ e ‘Novecento’. Fu proprio grazie alle pellicole di Bertolucci che Francis Ford Coppola m’invitò a curare la cinefotografia di ‘Apocalypse Now’. Penso che sia molto bello quando si è richiesti in questo modo, perché c’è l’opportunità di esportare e insegnare la propria conoscenza, creatività e lingua cinematografica in un mondo diverso con tutta la sua cultura”.

L’esperienza di «Apocalypse Now»

“In definitiva ‘Apocalypse Now’ è stata un’esperienza lunga, complessa e altrettanto bella – continua Storaro –. Quando ho ottenuto il mio primo Premio Oscar grazie a questo film, nel 1980, la scena cinematografica internazionale iniziò a guardarmi in modo diverso, il che mi ha cambiato la vita. Successivamente Warren Beatty mi ha voluto per ‘Reds’, dove ho portato il linguaggio cinematografico di Bertolucci e di Coppola, cosa che poi a soli due anni di distanza, mi ha portato a ottenere il mio secondo Oscar. Allo stesso modo ho conosciuto la visione cinematografica e il modo di lavorare di Warren Beatty. Queste esperienze internazionali sono state fondamentali, hanno formato la mia visione cinematografica. Qualche anno dopo vengo chiamato in Italia da Bertolucci per realizzare ‘L’ultimo imperatore’. Ci rechiamo in Cina, portiamo a termine le riprese e agli Academy Awards del 1988 la pellicola ottiene 11 nomination, tra cui quella per la Miglior fotografia. In quel momento, per la prima volta ho avuto paura. Mi sono detto: ‘Ho salito il palcoscenico degli Oscar assieme a Coppola e a Warren Beatty, ho portato loro la mia conoscenza del cinema italiano. Adesso che sono tornato col cinema di Bertolucci, da cui tutto è partito, sarebbe una tragedia per me non ottenere il Premio: significherebbe non completare un dialogo attorno all’arte cinematografica da cui ero partito anni fa’. Alla fine vinsi la statuetta per la terza volta. Ero felice perché si chiudeva un cerchio”.
È vero che in “Apocalypse Now” le sue inquadrature erano appositamente studiate per mascherare il notevole aumento di peso di Marlon Brando?
“Alcune cose hanno una base di realtà, altre no. Quando Marlon Brando arrivò sul set di ‘Apocalypse Now’, le riprese erano a circa due terzi. Il personaggio di Brando, il colonnello Kurtz, nella prima parte non veniva presentato agli spettatori, se non attraverso una sua fotografia fatta di profilo, in bianco e nero e la voce distorta alla radio. Brando, ovvero Kurtz, entrava nella parte finale del racconto”.

I problemi con Marlon Brando

“Se ne ‘L’ultimo tango a Parigi’ aveva avuto la possibilità di costruire giorno per giorno assieme a Bertolucci, il suo personaggio perché era presente durante l’intera lavorazione al film, in ‘Apocalypse Now’, arrivando alla fine della narrazione, la sua grande preoccupazione era di sembrare banale. E aveva ragione, perché il suo personaggio era talmente astratto che doveva diventare un simbolo, il simbolo dell’orrore e del male. Assieme a Coppola cercava come fare entrare in scena quel personaggio che fino ad allora era stato solamente citato. Ne discussero per due giorni senza trovare, sul piano verbale, un accordo. Al terzo giorno ebbi un’idea: la provai prima con Martin Sheen e la controfigura di Brando, che ci serviva per girare le scene da lontano; preparai la prima inquadratura, proprio come ce l’eravamo spiegata Coppola e io un anno prima. Ovvero di non mostrare completamente il colonello Kurtz, ma di farlo intravedere un pezzetto per volta, come se fosse un puzzle, per mostrare infine il viso dell’orrore della guerra. Nonostante Coppola fosse rammaricato dei giorni passati a discutere con Brando, con mia insistenza riuscì a farlo venire sul set e a mostrargli la prova. Eravamo in uno spazio buio, dove pian piano organizzai uno stretto raggio di luce, in cui Brando si poteva mostrare come in un mosaico, pezzo per pezzo. A Coppola l’idea piacque, mi pregò però di spiegarla io stesso, nonostante il mio semplice inglese, a Brando, con cui dai tempi de ‘L’ultimo tango a Parigi’, avevo una certa confidenza: la scena gli piacque. Si sedette, guardò la luce e mi disse: ‘C’è solo un problema, quando io mi alzo, non sono certo di arrivare a questo piccolo raggio di luce, come faccio?’. E io: ‘Non ti preoccupare, ci sono io con una bandiera nera e quando tu ti alzi oscuro tutto tranne un striscia del tuo capo, dopodiché tu puoi provare a vedere con la coda dell’occhio dov’è la luce ed entrare e uscire a seconda di quello che vuoi mostrare’. Gli avevo dato uno spazio in cui muoversi e lui mi aveva ascoltato. Si è mosso completamente da solo, entrando e uscendo dalla luce. Un genio”.

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