In questi tempi di “arresti domiciliari”, per cercare di renderci la vita un po’ più allegra ci si inventa le cose più “strane”. Per esempio, ci è venuta voglia di leggere qualcosa di particolare. Presa di mira la biblioteca, scava che ti scava, siamo riusciti a recuperare un libro dall’aria un po’ vecchiotta: “Folklore fiumano” di Riccardo Gigante.
Dando una sfogliata al volume, siamo rimasti incantati… e a bocca aperta! Venditori ambulanti, saltimbanchi, medicina popolare, proverbi, canti, vivande…
È stato un vero e proprio viaggio nel passato, una fiaba vera, quella della città di San Vito, che tutti i fiumani e in modo speciale i giovani – già alle scuole elementari, come storia patria – dovrebbero conoscere. Anche per completare il mosaico di un’identità ancora per molti aspetti sconosciuta, quanto affascinante. Ammettiamolo, abbiamo divorato queste pagine già un po’ ingiallite da Cronos, e tra i tanti argomenti trattati, da femmina vanitosa, abbiamo scelto di raccontarvi la storia del costume popolare e dei monili delle donne fiumane che si riferiscono sicuramente al Settecento, se non addirittura a un’epoca precedente.
Nonostante Fiume non fosse politicamente soggetta a Venezia, subì l’influenza della Serenissima in tutte le manifestazioni della vita privata, sociale e culturale.
Il costume popolare
Veniamo a sapere che, più tenacemente attaccate alla tradizione che non agli uomini, le donne usarono il costume locale fino circa alla metà del secolo XIX e ancora negli ultimi decenni dell’Ottocento si poteva vederlo indosso a qualche vecchia popolana. Constava di un giubbetto nero con maniche strette e aderenti al braccio e di un’ampia gonna nera, sulla quale era legato un grembiule bianco. Al collo portavano un largo collare bianco, in capo il “ fazòl” che copriva la fronte e ricadeva ai lati e sulla schiena.
Racconta Gigante: “Io ricordo una vecchia patrizia che nelle grandi occasioni vestiva l’antico costume di pesante seta nera. II collare e il grembiule erano di pizzo di Fiandra, il “fazòl” di battista orlato di pizzo. Al collo portava il “lustrin” con la medaglia del Crocifisso di San Vito; alle orecchie i pesanti “mandoloni“.
Secondo le vecchie stampe e i ritratti il “fazòl” veniva annodato in foggia diversa, di sapore medioevale, sembrava un mazzocchio fiorentino. Il costume delle giovani non differiva da quello delle anziane, che per i colori teneri e diversi per giubbetto e gonna: verdino e gialliccio; celeste e violetto chiaro.
I gioielli delle donne fiumane
Nel passato il popolo fiumano ha dimostrato una certa indifferenza per i gioielli, di cui ha sempre fatto uso moderato; tuttavia le donne non vi rinunziavano del tutto e certi ornamenti erano tradizionali. Esse ornavano la chioma crine con “aghi” spilloni che finivano in una capocchia sferica semplice o filigranata; con “spadete”, o spadini piatti, impugnatura attorcigliata o foggiata a cuore (o a due cuori) – dono del fidanzato – o sostituita da un amorino; con “tremuli”, lunghe forcine, che avevano al sommo un filo fatto a fitta spirale su cui era saldato un fiore di filigrana, margherita o rosa, che ad ogni passo tremolava sui capelli. Il tutto era d’argento.
Alle orecchie le donne portavano le “bucole”, piccole mezze sfere lisce o in filigrana con qualche pietruzza al centro; le “verete” semplici cerchietti di sottile canna o “businelo”; le “navisèle” di canna rigonfia che andava assottigliandosi verso le estremità. Erano queste assai appariscenti, semplici o trilobate, spesso munite sulla parte inferiore di tre magliette alle quali si appendevano i “péroli “, ciondoli piriformi.
I mandoloni
Le donne più agiate amavano appesantirsi l’orecchio con i “mandoloni “ di filigrana disseminati di perle e “scaramazzi” — perle di forma irregolare —; con “fiochi”, nodi spiegati di filigrana ai quali si attaccavano, come pendenti, i mandoloni; con “ cloche”, di filigrana anch’esse, così chiamate perché ricordavano i lampadari veneziani detti “cioche”; con “bucole col pèrdo” che avevano al centro una perla più grossa circondata da due o tre cerchi concentrici di perline piccole, e per pendenti, “pernii” adorni di perle; con “smaltini” coi “graspi”, dischetti di filigrana rilevata con smalti bianchi e neri che avevano quali ciondoli grappoli formati da numerose perline. Però! Si trattavano bene!
Le patrizie, e le cittadine benestanti che le imitavano, si cingevano il collo col “cordòn” veneziano, catena d’oro, noto anche col nome di ”Manin“, o col “lustrìn” fatto di tante maglie formate ognuna da due dischetti (lustrini) incastrati e saldati perpendicolarmente uno nell’altro. I “ cordoni “ raggiungevano fino a tre metri di lunghezza e si avvolgevano al collo in numerosi giri, lasciando pendere un largo festone sul petto; i “lustrini”, più pesanti, erano meno lunghi e formavano al massimo due giri intorno al collo, pendendo la rimanenza sul seno. “Colana a la grega” era chiamato un monile formato come una corda da tre “cavi” attorcigliati, ognuno dei quali constava a sua volta di numerosi e sottili fili.
A queste collane, che erano esclusivamente d’oro, si appendevano croci di varia foggia, stelloni di filigrana, medaglie con l’effigie della Madonna o di qualche Santo, zecchini veneti inclusi in cerchi di filigrana, “svanzighe” e “talari co la Madona” – pezzi d’argento da 20 carantani o talIeri di conio ungherese, dorati a fuoco, che avevano sul rovescio l’immagine della Madonna Patrona Hungariae.
Le patrizie usavano come pendaglio una grande medaglia d’oro, con sul diritto il miracoloso Crocifisso di San Vito e sul rovescio la Madonna di Tersatto.
I monili delle popolane
Le popolane amavano assai i vezzi di coralli, ai quali appendevano amuleti contro il malocchio, cuoricini e crocifissi o crocette semplici d’argento. Le più povere s’accontentavano di sottili collanine fatte con capelli intrecciati. A queste modeste collane si appendevano anche minuscoli reliquiari, crocette, cuoricini e medaglioni apribili, entro i quali si custodivano piccoli frammenti di reliquie. I ciondoli che pendevano sul petto rendevano quasi superflui i “pontapeti” spille – che erano di filigrana d’oro, adorni di perle o pietre preziose, oppure di canna d’oro foggiata a nodo di Savoia, ravvivati di gemme o vetri colorati.
Gli anelli
Oltre alla “vera”, le donne più abbienti portavano qualche altro anello. I più usitati erano cerchietti piatti, alti circa 6 millimetri, cinti in alto e in basso da un cordone di filigrana e adorni di uno scudetto su cui si soleva incidere un’iniziale; altri erano detti “milio” (miglio), “semèti” o “semenze” e avevano la parte in vista disseminata di minuscole palline circondate da filigrana. Molto in uso erano anche le “bisse”, serpentelli con tre o quattro spire con un piccolo rubino o smeraldo incastonato sulla testa. “Zargòn” (zirconio) era chiamato un anello che nel senso del cerchio reggeva un “zargòn”, pietra che costituiva il diamante, fiancheggiato da due schegge di rubino o smeraldo. Altro tipo di anello tradizionale era il “bòvolo” (chiocciola) che aveva al centro un “balàss” (baiaselo o spinello) circondato da piccole perle disposte in cerchi concentrici.
Le donne anziane rinunziavano a tutti i gioielli e si limitavano a infilare accanto alla vera un anello con su un piccolo crocifisso.
Gli uomini non usavano che la “vera” e alla catena dell’orologio, d’argento o di treccia di capelli, attaccavano una vecchia moneta veneta o una “svanziga” ungherese con la Madonna.
Moretti e rosari
Tipicamente fiumani erano i “moretti”, in origine un orecchino che aveva l’aspetto di una testa di moro coperta di turbante. Dapprima furono gli uomini a portare il moretto a un solo orecchio, poi passò alle donne.
Intorno al 1870 Agostino Gigante sviluppò quest’attività dell’artigianato fiumano applicando la testa di moro a spille da uomo e da donna, ad anelli, bottoni da polsini, collane, ciondoli e altro, dando lavoro a una trentina di artigiani ed esportando i prodotti in tutte le regioni di tradizione veneta della Monarchia austroungarica, quali l’Istria, il Goriziano, il Trentino e la Dalmazia.
Restando nel campo dell’oreficeria, ricorderemo pure i rosari d’argento, composti di tante palline lisce, sfaccettate o filigranate, che avevano al posto dei paternostri i simboli della passione: la colonna, il flagello, la corona di spine, il sacchetto dei trenta denari, la lucerna, l’orecchio di Marco, la spada di San Pietro, i chiodi, la spugna, la scala, la croce, la pezzuola della Veronica e simili.
”Folklore fiumano” da ristampare
Davanti a tutta questa sovrabbondanza di informazioni dettagliate di vezzi e monili di vario tipo, ci si chiede se non sarebbe il caso di recuperare almeno una di queste antiche gioie fiumane, come ad esempio i ricchi “mandoloni”, facendone un brand, com’è stato il caso con i moretti. Sempre che oggigiorno a Fiume ci siano degli abili artigiani orafi in grado di creare queste preziosità e non dei semplici commercianti in gioielli, privi spesso delle elementari conoscenze circa le gemme nobili e i preziosi in genere.
Allo scopo di diffondere e popolarizzare gli usi, costumi, caratteri, cultura popolare e quant’altro della Fiume antica, sarebbe più che necessario – a nostro modo di vedere – realizzare intanto una ristampa del libro di Gigante, con traduzione in croato, corredata di tante immagini inerenti i temi trattati.
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