
L’altra sera, presso il Salone delle Feste di Palazzo Modello, è andato in scena “No Win for Dance”, debutto coreografico e autoriale dell’artista fiumano Toni Flego. Ispirata alla trilogia filmica “Tre colori” di Krzysztof Kieslowski, l’opera non si limita a dialogare con il grande regista polacco, ma trasforma quei colori in una partitura emotiva, spirituale e politica. Il rosso, il bianco e il blu scelti da Flego richiamano, più sottilmente, anche la bandiera francese, simbolo dell’Europa dei valori fondanti – libertà, uguaglianza, fraternità. In un tempo in cui questi ideali appaiono sempre più retorici che reali, la danza di Flego diventa richiamo, o meglio sfida, rivolta all’Unione europea stessa: quella di sostenere davvero chi crea, chi danza, chi lotta nell’ombra per esistere, senza essere cooptato dai circuiti ufficiali. Il titolo “No Win for Dance” è allora anche un grido continentale, un “non vinco” che si traduce in “non mi arrendo”.
Il rosso – carne, fuoco, sistema
Il viaggio si apre nel rosso: luce tagliente, neon obliqui che disegnano fiamme sul pavimento, un corpo che si contorce in un ritmo nervoso, spasmodico, urgente. Flego danza per non morire. Il suo corpo, concentrato su sé stesso, è attraversato da una tempesta di rabbia, dolore e sofferenza. In un vortice che lo isola dal mondo circostante, chiede verità. I suoi movimenti, compulsivi, sensuali ma privi di seduzione, raccontano una danza che è sintomo, non ornamento. Una danza di sopravvivenza. In questa cornice, il rosso è il fuoco della passione, sì, ma anche della rabbia, della marginalità, del dolore sistemico. È l’inferno interiore e collettivo. La luce pulsante e il movimento incessante evocano un bruciore che consuma, una fiamma che arde nel profondo. In scena si compie un sacrificio pagano, dove il danzatore – un’anima in pena costretta a rivivere il proprio tormento – incarna l’artista indipendente, ignorato e consumato da un sistema che chiede forma senza sostanza, visibilità senza sostegno. Le sue parole, a metà tra lirismo e urgenza, trasformano il gesto in linguaggio: “Brucia con quel danzatore. Brucia e non fermarti mai”.
Il bianco – sogno, sospensione, soglia
Poi, d’un tratto, il fuoco si spegne. La scena si vela di nebbia lattiginosa, la musica si fa raccoglimento, sussurro, e il tempo rallenta. È l’ingresso del bianco, della pace apparente, della tregua interiore, della sospensione paradisiaca, del sogno fragile. In un angolo della scena si svela un cigno-origami, candido, illuminato da due minuscole luci sotto le ali. Fragile e preziosa come cristallo, la creatura viene accompagnata verso il centro della sala dal danzatore, con gesti delicati, quasi sacri. Le sue mani ne seguono la silhouette come se pregassero, tracciando arabeschi invisibili. È un momento di verità rarefatta, in cui il cigno diventa simbolo dell’anima umana, della bellezza che non può essere posseduta, solo accolta. È infanzia, desiderio, tenerezza. È la leggerezza che si conquista dopo aver conosciuto il peso. Ed è anche un appello a trattare l’arte con rispetto, non con consumo. Quando l’artista infine incorona sé stesso con l’origami, celebra la propria fragilità e rivendica la speranza come atto politico. Non è un trionfo, ma un affidamento, il coraggio di scegliersi, di credere ancora nel volo. Seguono parole limpide e intense, che esprimono il desiderio di una società più umana, in cui la danza, e per estensione l’arte e la vita, possano fiorire libere da vincoli e invisibilità.
Il duello tra opposti
La sospensione onirica del bianco viene interrotta da un’apparizione straniante, tradotta in un grande cerchio di luce, sospeso tra suggestioni di cabaret, riflettori hollywoodiani e magie da palcoscenico d’altri tempi. Toni, ora senza la corona del cigno, estrae dalla tasca due fazzoletti – uno bianco, uno nero – e comincia a farli danzare. È un duello simbolico tra luce e ombra, tra pace e turbamento, tra innocenza e memoria. I foulard si contendono il vuoto come due forze primordiali in cerca di equilibrio. Nessuna prevale, si alternano, si superano, si sovrappongono. È l’immagine plastica dell’anima umana, abitata da conflitti, slanci, contraddizioni. Flego diventa demiurgo di un equilibrio precario, un equilibrista sul filo delle emozioni.
Il blu – catarsi, respiro, bellezza
Il blu invade infine la scena come un’onda silenziosa. Le luci si fanno liquide, quasi marine, e il corpo del danzatore si scioglie. È la liberazione. Qui non c’è più lotta, ma apertura. I movimenti si fanno ampi, leggeri, poetici. Toni, ora scalzo ma sempre avvolto nel suo abito retrò, si abbandona a una danza piena, intensa, armoniosa. Svaniscono le ombre di rabbia e disagio che avevano caratterizzato le fasi precedenti. Il corpo diventa veicolo di bellezza pura. La danza si fa atto terapeutico, celebrazione dell’armonia conquistata. Il blu, in Kieslowski, è libertà. Qui, è la libertà che arriva dopo il dolore, la grazia che nasce dal corpo attraversato dalle ferite. È catarsi, rinascita, possibilità di essere finalmente sé stessi, senza più catene.
Il verde – infanzia, futuro, gioco
E poi, inatteso, arriva il verde, colore che non appartiene alla trilogia originaria, ma che qui si inserisce come postludio necessario. Toni prende un contenitore di acqua saponata e soffia bolle, evocando la celebre “Mille bolle blu” di Mina. Soffia, e il tempo si rovescia nell’infanzia. Il pubblico trova accanto alla propria sedia un flaconcino, e partecipa. Bolle ovunque, sorrisi e sguardi rivolti al domani. È un gesto semplice, quasi infantile, ma colmo di grazia. Il verde è l’Italia, terra d’accoglienza. Ma è anche un invito a recuperare quella parte di sé che ancora crede nella meraviglia. Il rosso, il bianco, il blu e il verde diventano così la personale bandiera di Toni Flego e dei suoi collaboratori (Mara Prpić – luci, Afrodita Lekaj – identità visiva, Nina Jelić – produzione), un vessillo di speranza, bellezza e disobbedienza. Un’ opera che non chiede di essere solo guardata, ma vissuta. Una danza che ci interroga – siete pronti a danzare anche voi? Dentro. Fino in fondo.
Il coraggio di denudarsi
A fine spettacolo, le parole di Žak Valenta, mentore, coreografo e guida storica di Toni, gettano luce sul processo creativo. “No Win for Dance” nasce da una prima bozza presentata a Varsavia, nel contesto del progetto europeo “Dancing Together Again”, sviluppato da Trafik con partner internazionali. Il lavoro, pur promettente, chiedeva maturazione. La scelta è stata di trasformare quel seme in un assolo compiuto. Questa evoluzione ha comportato un’inversione di ruoli, e se in passato Flego era interprete, ora è autore. Valenta, figura prossima ai quarant’anni di carriera, ha assunto il ruolo di drammaturgo, offrendo lo “sguardo esterno” di chi conosce intimamente il linguaggio dell’altro. Per lui, il solo non è solo una forma scenica, ma una forma etica, che richiede onestà radicale, il coraggio di spogliarsi, senza finzioni. “Il lavoro di Toni – racconta – si nutre di immagini in movimento, affondando le radici nel cinema, in particolare in Kieslowski. Ma ciò che lo rende potente è il modo in cui questa nuova generazione riesce a filtrare quella poetica con occhi contemporanei, preservandone intatta la carica simbolica”. “No Win for Dance” è allora anche un gesto di memoria intergenerazionale, un passaggio di testimone tra chi ha tracciato i primi sentieri e chi ora li ridefinisce, con nuovi sguardi ma uguale desiderio di verità.
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