Un intrattenitore che vuole emozionare e far sognare il pubblico

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Un intrattenitore che vuole emozionare e far sognare il pubblico

FIUME | Esuberante, eclettico, acuto, estremamente acculturato. Stiamo parlando di Daniel Espen, bresciano, trentacinque anni; compositore, pianista, scenografo e regista, la cui composizione “Eterno ritorno” abbiamo avuto modo di apprezzare il mese scorso durante il concerto sinfonico del TNC “Ivan de Zajc”. Un brano che rivela una chiara impronta personale. Espen è laureato in pianoforte al Conservatorio di Brescia, in composizione, sotto la guida di Maestro Luca Tessadrelli con il massimo dei voti presso il Conservatorio “Arrigo Boito” di Parma, in Scenografia e Regia con il massimo dei voti e Lode presso l’accademia “L.A.B.A” (Libera Accademia di Belle Arti) a Brescia. Una versatilità non comune che ci ha permesso un colloquio stimolante, il quale è spaziato nei vari campi e stagioni dell’arte: da Mozart all’avanguardia, dal cinema, all’opera lirica e alla pittura.

L’abbiamo incontrato a Fiume in procinto di partire, assieme al violoncellista Petar Kovačić, per una tournèe in Cina, dove terranno concerto in sei città, il primo dei quali a Pechino.

La ciclicità della vita

“Ho cominciato come pianista, però di tutta la creazione musicale la composizione è quella che mi prende di più, nella quale do il meglio di me e che mi ha portato più premi e riconoscimenti. ‘Eterno ritorno’ è un titolo che si riferisce chiaramente a Nietzsche, anche se non mi ricollego direttamente al filosofo tedesco. Queste mie pagine riflettono tanti pensieri che si sono accavallati in me negli anni e riguardano la ciclicità della vita. Ognugno di noi ha momenti in cui riflette sulla vita, sulla nostra presenza sul pianeta Terra. Essendo mio padre astrofisico, sin da bambino mi ha fatto scoprire il mondo delle galassie che si formano, che si ricreano, il Sistema solare, il movimento dei pianeti. Ha scritto un libro intitolato ‘L’interscambio e il diluvio universale’ in cui spiegava la presenza dell’acqua sulla Luna, già nel 1995. Secondo lui in tempi remotissimi Marte e la Terra, nel loro movimento intorno al Sole si sarebbero avvicinati, e a causa della maggiore attrazione gravitazionale, la Terra avrebbe risucchiato i liquidi da Marte, e anche la Luna ne sarebbe stata partecipe. Diciamo che tutte queste suggestioni cosmiche alla fine si proiettano anche nella vita, nel modo di pensare, e che nel concreto si sono travasate in questo mio lavoro”.

Tra le sue composizioni qual è quella nella quale si è espresso meglio, che ritiene sia di maggiore spessore in tutti i sensi?

“Il brano che considero il mio capolavoro in assoluto è scritto per coro ‘a cappella’. S’intitola ‘E cielo, e terra, e mare invocano’, su testo di Padre David Maria Turoldo, noto poeta e sacerdote italiano, al quale è stato dedicato un concorso internazionale di musica sacra, che vinsi nel 2013 con il citato brano. Penso di non aver scritto niente di più valido. Di questa mia composizione non cambierei nemmeno una nota.
Un altro lavoro al quale tengo molto è lo ‘Stabat Mater’ che ho scritto per coro e orchestra. Ad ispirarmi queste pagine è stato il testo di Jacopone da Todi. Con questo brano ho ottenuto il secondo posto in un concorso internazionale in Corea. Quello che mi ha fatto più piacere è che la commissione era composta da compositori d’avanguardia, i quali di solito hanno forti pregiudizi riguardo la musica che proprio d’avanguardia non è; come nel mio caso. Il mio linguaggio musicale guarda alla tradizione, che però nella mia rilettura, viene ‘proiettata’, spero, nel futuro. Il fatto che a questo brano sia stato assegnato il secondo premio da parte di compositori d’avanguardia, è stato per me una doppia vittoria. Evidentemente hanno riconosciuto un valore nella mia musica anche se attinge al passato”.

Una dialettica da approfondire

Come guarda ai compositori d’’avanguardia’?

“Penso che qualsiasi linguaggio possa andar bene; però, non sopporto più, e qui sono duro, ‘i talebani’. Pierre Boulez scrive che un compositore d’oggi non s’interessa alla serialità, non è da prendere in considerazione. Bene, io conosco la serialità; ma se questo modo di scrivere non mi attrae, devo essere liberissimo di scrivere come mi pare. ‘Loro’ sono i talebani, sono una setta, una cricca che non riconosce la libertà creativa. Se certi compositori vogliono scrivere dodecafonico, strutturalista, integrale, in scrittura proporzionale, sono liberissimi di farlo. Ma io voglio essere libero di scrivere come ‘sento’. ‘Loro’ (i ‘baroni’, nda) questo non lo accettano. Anzi, mettono i bastoni tra le ruote, anche nei concorsi. O si scrive come vogliono loro, o sei un compositore da buttare nel cassonetto.
Io conosco Schoenberg, Webern, Berg. Il primo si è dimostrato un compositore prodigioso in ‘Verklärte Nacht’. È giusto che abbia voluto sperimentare e fare le sue scelte. Ammiro molto anche Berg. Reputo la serialità un linguaggio assolutamente interessante, specie in teatro. Ma quando hai ascoltato un’ora di concerto in cui non c’e’ la dialettica tra lo stato di tensione (dissonanza) e lo stato di quiete, la consonanza, ad un certo punto uno non ce la fa più. Prendiamo il ‘Wozzeck’ di Berg: io non capisco mai quand’è che Wozzeck uccide Mary. Sembra che la debba ammazzare ad ogni istante. Tanta è la continuità della tensione dissonante. Schoenberg sosteneva l’emancipazione della dissonanza. La critica che faccio a questa tesi è che la dissonanza non è servile rispetto alla consonanza. La prima è uno stato di tensione che s’appoggia alla consonanza, che è uno stato di riposo. Sono due funzioni differenti, complementari, e secondo me, è una dialettica affascinante ancora da approfondire”.

Correnti avanguardistiche sono presenti anche nell’arte e nella pittura.

“Secondo me il peggiore difetto del Novecento è che ha voluto fare la rivoluzione culturale. La rivoluzione è stata quantomeno presunzione, in quanto ha voluto cancellare il passato ed ha imposto a tutti i costi l’innovazione. La novità costretta, forzata non è sincera. Uno diventa innovativo non perché lo ha deciso, ma perché ha iniziato a ‘sentire’ diversamente. Questo vale pure per Beethoven, per Stravinski e altri.
Non dobbiamo dimenticare che il compositore è innanzitutto intrattenitore. Se noi compositori annoiamo il pubblico, abbiamo già fallito. Il pubblico è fondamentale. La vita è già dura, e se uno quando viene a teatro deve sorbirsi tutte queste elucubrazioni … beh. Io invece voglio essere intrattenitore e regalare un momento di sogno, delle emozioni a chi mi ascolta”.

Ma passiamo al teatro. Sono almeno vent’anni che a Teatro ci affliggono con delle regie, e con tutto un lato visivo – alludo alla lirica e alla danza – in cui dominano le tenebre, il nero, un minimalismo esasperato deprimenti e noiosi. Oltre a ciò c’è la storia delle “attualizzazioni” a tutti i costi, che di per sé producono incoerenze e assurdità. Qual è la sua opinione in merito?

“Con la nascita del cinema gli autori teatrali hanno scelto di rinunciare al ‘descrittivismo’, onde evitare di diventare una specie di ‘copia’ cinematografica. Per cui si sono concentrati sul contatto diretto tra attore e pubblico. Il regista polacco Grotowski diceva che la differenza tra cinema e teatro di prosa stava appunto in questo contatto diretto tra attore e pubblico. A questo scopo Grotowski fece la scelta registica di togliere tutto quello che era ‘orpello’: scenografie, sfarzo, musica, ottenendo così un apparato scenico ridotto all’osso che faceva risaltare l’attore il quale si confrontava con il pubblico. Una scelta che per il tempo era stata assolutamente affascinante. Il problema è che tale approccio è diventato ‘scuola’, a cui si rifanno molti registi d’opera. Riguardo alle ‘attualizzazioni’; se si vuole fare “Don Giovanni”, non possiamo dimenticare che abbiamo la musica galante di Mozart, assolutamente neoclassica. Non voglio dire che non si debbano fare delle riletture in chiave moderna – per es. Figaro nel ‘900 –, ma allora devi essere coerente fino in fondo e riscrivere la musica. In forma disco. Sarà una provocazione totale, però è coerente. Cioé, Don Giovanni in jeans, con la musica galante non va. Piuttosto commissionino opere nuove, che si scrive pochissimo”.

Che ne pensa delle tele tagliate di Lucio Fontana?

“Era il periodo della provocazione. E va benissimo. Cioè, taglio la tela, vado aldilà della superficie. Concettualmente parlando è affascinante. Ma l’ha fatto Fontana e basta. Basta con le imitazioni, con il plagio. Peraltro Fontana, specie in gioventù, è stato uno scultore eccezionale”.

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