Un film come specchio e ferita, catarsi e comunità

Al Centro Gervais di Abbazia ha avuto luogo una tavola rotonda sul docu-film «Fiume o morte!» di Igor Bezinović

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Un film come specchio e ferita, catarsi e comunità
Ivan Šarar, Igor Bezinović, Lovro Mirth, Nika Petković, Noemi Dessardo e Ana Jurišić. Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

Nell’ambito dello Slowmotion festival, negli spazi abbaziani del Centro Gervais, ha avuto luogo un’interessante tavola rotonda relativa il docu-film “Fiume o morte” di Igor Bezinović, seguita dalla sua proiezione, opera che ha saputo imporsi come uno dei più rilevanti atti culturali recenti della scena fiumana. Una pellicola stratificata, corale e profondamente identitaria, che ha suscitato risonanze ben oltre i confini cittadini, muovendosi tra la Storia e il presente, tra il personale e il collettivo. Moderata da Ivan Šarar, la conversazione, alla quale hanno partecipato lo stesso regista, Noemi Dessardo, Lovro Mirth, Nika Petković e Ana Jurišić, si è presto trasformata in un confronto intimo e politico sulla genesi del film, sulle sue molteplici anime e sulle ripercussioni che ha avuto, non solo sul pubblico, ma sugli stessi autori e interpreti coinvolti.

La genesi lunga 14 anni
Bezinović ha raccontato come l’idea del film abbia germinato ben quattordici anni fa, da un’intervista registrata con un anziano cittadino di Fiume che da bambino aveva intravisto D’Annunzio sfilare per il Corso. Un ricordo inciso nella memoria, riscoperto a distanza, e diventato scintilla. “Ci sono state fasi in cui credevo di stare facendo un disastro – ha confidato il regista – e altre in cui sentivo che stavo toccando qualcosa di vero. Ma non avrei mai immaginato una ricezione così calorosa, soprattutto a Fiume. Il mio più grande timore era che non fosse percepito come un film fiumano”. Il progetto ha coinvolto decine di collaboratori lungo gli anni: storici, tecnici del suono, ricercatori, cittadini. Una rete ampia e diffusa, a cui la pellicola restituisce centralità anche nei titoli di coda, lunghi sette minuti.
Ivan Šarar ha aperto una riflessione personale, dichiarando che la stessa ha colmato in lui una ferita: “Avevo vissuto come incompiuta l’esperienza di Fiume Capitale europea della Cultura. Questo film ha dato voce e corpo a quella storia mancata, raccontando la città con una grazia che sa includere e riconciliare”. E proprio su questa capacità di riconciliazione si è soffermata anche Noemi Dessardo, una delle narratrici della pellicola: “’Fiume o morte!’ ci permette di riscoprire la nostra storia familiare. Per molti, come per me, è stato un viaggio doloroso, a volte silenziato dalle generazioni precedenti. Il film non impone una narrazione, ma crea uno spazio sicuro in cui ciascuno può scoprire e raccontare”. Lovro Mirth, anch’egli collaboratore e voce fiumana, ha descritto l’opera come un dono alla città: “È come se finalmente avessimo una narrazione che ci rappresenta senza semplificazioni, una storia costruita non dall’alto, ma con i cittadini. È una restituzione preziosa”.

Le immagini che mancavano
Una delle rivelazioni più affascinanti dell’incontro è venuta da Nika Petković, responsabile della ricerca d’archivio: “Sapevamo che D’Annunzio aveva creato un apparato cinematografico per documentare la sua impresa a Fiume. Il nostro compito era trovare quei materiali e anche scoprire qualcosa che finora non era mai stato mostrato”. Un momento-chiave del processo è stato il ritrovamento, nell’Archivio di Torino, di pellicole in nitrato mai digitalizzate. “Grazie alla curiosità e alla testardaggine di Igor – ha raccontato – abbiamo ottenuto la restaurazione e digitalizzazione di quelle immagini, rivelando scorci e prospettive inedite del periodo dannunziano a Fiume”.
Durante la tavola rotonda, è emersa con forza la natura “inclusiva” della regia di Bezinović. Un approccio lontano dall’autoritarismo di certa cinematografia autoriale. Come ha riportato Ana Jurišić, fonica del film: “La cosa più bella era l’attesa. Si trattava di cogliere il momento giusto. Ogni reazione spontanea poteva diventare significativa”. Bezinović ha spiegato che l’inclusione non era solo una scelta estetica, ma anche una necessità politica ed etica. “Ho voluto che il film fosse costruito insieme ai cittadini, e con i miei collaboratori. Il mio ruolo era sì di regista, ma anche di ascoltatore. La città non poteva essere raccontata senza la sua voce”. Un elemento universale della pellicola, secondo il regista, è il conflitto archetipico tra il collettivo e il carismatico individuo – incarnato da D’Annunzio – che arriva in città e pensa di sapere meglio dei cittadini stessi come dovrebbe essere trasformata. “Un meccanismo ricorrente nella storia, e profondamente attuale – ha sottolineato Bezinović –, ma il nostro film non cerca la verità assoluta. È una delle possibili versioni. E chiunque voglia raccontarne un’altra, dovrà metterci dentro dieci anni di vita, come abbiamo fatto noi”.

Catarsi dopo la visione
Uno degli aspetti più sorprendenti dell’opera, ha affermato ancora il regista, è che la vera catarsi non avviene durante la visione, ma dopo. “Molta gente mi ha scritto che ha sentito il bisogno di rivedere il film, di parlarne con gli amici, di analizzarlo. È un’esperienza che continua anche a proiezione finita”. Alla domanda se il team avesse intuito, prima della premiere, il suo potenziale, le risposte sono state diverse ma accomunate dalla certezza che la potenza del materiale fosse evidente. Come ha rilevato Noemi: “Alla prima non si sentiva il film per le ovazioni. Era come un concerto rock. Ma poi, nel silenzio, ciascuno ha potuto portarselo dentro”.

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