Racconti fiumani tra fantasia e realtà. Un bar ai confini del tempo

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Racconti fiumani tra fantasia e realtà. Un bar ai confini del tempo
Foto: Ivor Hreljanović

Stava iniziando a piovigginare ed era ormai quasi sera. In quella via buia dove aveva
parcheggiato – ormai uno dei pochi posti in centro dove riuscire a trovare parcheggio – non c’era anima viva. Niente di cui meravigliarsi, visto il tempo da cani. Nel cortile dell’ex fonderia Matteo Skull, Vanja scorse lo scintillio di due occhi. Era sicuramente un gatto. O almeno lo sperava. Quanto degrado, ma quanto fascino tra quelle mura devastate dal tempo
e dall’incuria. Immaginava come doveva essere stata quella via un tempo quando in città fioriva l’industria. Fiume era stata per oltre un secolo un centro industriale di tutto rispetto. Avere un impero che garantisse un mercato per i propri prodotti e un’infrastruttura che permettesse di farli arrivare in tutto il mondo era un vantaggio che questa città aveva rispetto a molte altre. Inoltre, i fiumani erano lavoratori operosi e persone di grande ingegno. Ora questi tempi sembravano talmente lontani da sembrare non esserci mai stati. “Chi si ricorda ancora delle vecchie fonderie? Solo coloro che si dedicano allo studio della città
e ne sono ancora innamorati. Ma per gli altri, non c’è nemmeno una tabella a istruirli su cosa
hanno di fronte”, pensava. Immaginava come sarebbero stati i risultati di un’indagine fatta con dei questionari. Volse lo sguardo al suo amico Igor, che anche lui camminava con lo sguardo pensieroso. “Fermiamo i passanti e chiediamogli se sanno cos’è questo palazzo. Gli chiediamo se sanno cos’era”. “Ma chi vuoi fermare? Non ci viene nessuno qui. Solo chi come
noi non trova un altro posto dove parcheggiare o quelli che lavorano al vecchio macello”.
“Qualcuno passerà e ci sono ancora quelli che ci abitano. Queste una volta erano case di
tutto rispetto…”. “Sbrighiamoci, dai. Che tempo! Sembra che sia notte fonda e invece sono soltanto le sette”. Continuarono a camminare per un altro po’ e arrivarono alla macchina. Si fermarono e Vanja esitò a tirar fuori la chiave del veicolo. “Non so se ho voglia di tornare a
casa per poi uscire di nuovo per vedere quel film all’Art cinema. Che ne dici di fermarci a bere
qualcosa e andarci direttamente? Un amico mi ha parlato di un bar molto carino qui vicino. Dovrei aver capito dove si trova. Siamo vicini”. Igor accolse al volo quella proposta.
“Abbiamo un’oretta. E una birra fa sempre bene. Durante i digiuni era il cibo dei monaci. E magari smette anche di piovere. Quest’umidità mi sta entrando nelle ossa…”. Proseguirono per un altro centinaio di metri fino a quando scorsero una luce che rischiarava in modo soffuso una porta d’ingresso coperta da adesivi colorati. “Credo che ci siamo. Vediamo se
è aperto”, disse Vanja. Vennero quasi travolti dalla porta che si aprì all’improvviso lasciando
fuoriuscire una nuvola di fumo. Un uomo in divisa blu da lavoro e dalle guance rossastre lasciò il locale a tutta birra (un’espressione che in questo caso assumeva un doppio significato). Aveva gli occhi lucidi e un sorriso ebete, di chi è un po’ più che brillo. I due amici sorrisero ed entrarono. Vennero accolti in modo gentile, ma un po’ sospettoso da quello
che doveva essere il proprietario del locale. Era un uomo giovane, ma distinto. L’eleganza del suo abbigliamento stonava con la decadenza post industriale della via e l’aspetto del cliente
che aveva appena lasciato il suo bar. Si accomodarono al banco, dove c’erano altri due
uomini che chiacchieravano animatamente fino al momento in cui si accorsero di loro e si
zittirono di colpo. Quello girato di spalle si voltò e gli diede una buona occhiata, dalla testa ai
piedi. Si rigirò e continuarono a chiacchierare. Erano divertiti dall’atmosfera strana di quel
posto. Iniziarono a osservarne i dettagli. Appeso al muro c’era un calendario del 1968 della
squadra di calcio del Rijeka. Era aperto sul mese di maggio, anche se era novembre. Da
una radio degli anni cinquanta uscivano vecchie melodie. Lo stile del locale era retrò, ma
sembrava tutto nuovo di zecca. Rimasero affascinati dalla precisione con cui avevano
ricreato l’ambiente. “Sembra di essere in uno di quei film della serie Ai confini della
realtà. Non trovi?”, disse Vanja. Igor replicò guardandosi intorno: “Mi piace. Dai, ordiniamo una birra. Offro io”. Sorseggiavano con avidità la fresca bevanda. La bevevano
direttamente dalla bottiglia, con una goccia di condensa che bagnava l’etichetta. La musica
dei fiumani Vis Uragani, il primo gruppo rock della Jugoslavia, riempiva con dolci suoni di
chitarra l’ambiente. “Deborah* …” iniziò a cantare Vanja. “Quanto tempo è che non
sento questa canzone…”. Brindarono e accennarono a dei movimenti di swing. In quel
momento si aprì violentemente la porta d’ingresso e si girarono di scatto a osservare il volto
sconvolto dell’operario, ritornato nel locale. Mosse alcuni passi barcollanti e raggiunse il
bancone, dove si sedette a uno degli sgabelli. “Da bere per tutti”, disse con la voce spezzata e roca. “Non potete immaginare cosa mi è successo. Sono quasi morto. Da bere per tutti, ho detto! A me subito una grappa e dammi anche una birra. Ragazzi, quel che volete. Offro io”.
La grappa si era quasi materializzata davanti a lui, talmente era stato veloce il barista. La buttò giù tutta d’un fiato.
“Dammene un’altra!”. Dopo la seconda, si calmò e si mise a ridere come un pazzo. Poi spostò lo sgabello e si mise a ballare. Era talmente agile da sembrare un giovanotto. “Se ti
prendo, Deborah, ti faccio vedere io cosa sa fare un uomo che ha visto la morte in faccia”.
Si sedette al suo sgabello, tornato magicamente al suo posto, e si trovò davanti a una birra fresca e sgocciolante. “Viva la vita!”. Il gestore del locale non batté ciglio. I ragazzi erano sconcertati. “Viva!”. Buttarono giù un sorso velocemente e poi gli si rivolsero all’unisono:
“Ma cosa ti è successo?”. “Ero rientrato nella fabbrica da poco e sono andato a controllare i livelli di sicurezza delle varie valvole e turbine e poi d’un tratto non ho visto più niente. È saltato tutto. BUUM! Ma io non so come mi sono trovato fuori, salvo. Non è incredibile?”,
e buttò giù con un sorso quel che restava della sua birra. “Dammene un’altra! Sapete
ragazzi che tra pochi giorni vado in pensione? Ma chi se ne frega, ci vado prima. Ci vado subito! Ho dedicato tutta la vita a questa fabbrica e ora voglio godermi ciò che mi rimane della vita”. Continuavano a guardarlo, senza muovere un muscolo. Aveva la faccia ricoperta da uno strato di fuliggine che non c’era quando l’avevano visto uscire da lì un’oretta prima. Si erano quasi scordati del film e la pioggia era stata soppiantata da una strana nebbiolina, inusuale per quella zona. C’era qualcosa che non gli tornava, ma non capivano cosa.
“Hai chiamato i soccorsi? Vuoi che chiamiamo un medico”, i ragazzi si stavano agitando.
Il gestore li tranquillizzò e gli disse: “Tranquilli. Fa sempre così”. Poi tornò a guardare verso i bicchieri che continuava a sciacquare e lucidare e al suo silenzio quasi totale. Se non avesse detto quelle parole, lo avrebbero preso per muto. Fa sempre così. Queste parole continuavano a risuonare nelle orecchie dei due ragazzi che osservavano la situazione sbigottiti. Non fecero in tempo a rifiutare che si erano trovati davanti un altro bicchierino di grappa, offerto questa volta dall’oste. Ormai ubriachi, si erano scordati del film e avevano passato la serata al bar. Dopo aver offerto un giro di birra anche loro, gli sembrava di
essere lì da sempre. La familiarità di quel luogo li faceva sentire come a casa. Forse era merito anche dei fumi dell’alcol la cui concentrazione nelle loro vene era aumentata
notevolmente, soprattutto dopo altri due giri di grappa offerti dall’oste, che rimaneva in silenzio a osservare i suoi ospiti servendoli con mille attenzioni. Non si poteva
dire con precisione se c’era più nebbia dentro o fuori dal locale, dato che le disposizioni contro
il fumo non venivano rispettate minimamente. La situazione di familiarità era però unita a una
strana tensione, accomunabile a un senso di disarmonia. “È ora di andare”, disse Vanja
all’amico. Uscirono dal bar e attraversarono la fitta nebbia che si diradò completamente a
pochi dalla macchina. Nessuno dei due era in grado di guidare e decisero di andare a casa a
piedi. Trovarono strano che la nebbia fosse così localizzata, ma si convinsero che era causata dalla particolare posizione del bar lungo il fiume Eneo, dove esso iniziava a scavare il proprio canyon. I pendii qui scendevano scoscesi e per raggiungere qualsiasi parte della città, si doveva prima uscire dalla gola. Come scorciatoia c’era solo una ripidissima scalinata che
portava a Cosala. La spiegazione che si diedero gli sembrava più che plausibile. C’era, però, sempre qualcosa che non gli tornava. “Sai che penso di averlo giù visto quell’operaio?”, disse Igor. “Ma non so dove!”. “Anch’io ho avuto la stessa sensazione. Hai creduto alla sua storia? Secondo me è impazzito a furia di lavorare di notte tra i macchinari. Ti immagini? Olio,
rumore, polvere… Io già se non dormo…”. Continuarono a camminare in silenzio. Abitavano entrambi sul colle di Tersatto e decisero di prendere la lunga scalinata che iniziava lì vicino, nei pressi dell’orologio sul ponte sull’Eneo. Gli oltre cinquecento gradini, che dal 1531 portavano al Santuario mariano, li avrebbero aiutati a smaltire la sbornia. Erano decisi a ricontarli dato che ogni volta veniva fuori un numero diverso (ma quella è un’altra storia). Attraversarono la
strada, che a quell’ora era deserta, passando sotto il ponte della ferrovia. Vanja si girò e impallidì. “Quel volto! Ma è lui! Guarda!”. Indicò all’amico il murale da cui il faccione dell’operaio li osservava. Si avvicinarono per osservarlo meglio e da questa distanza ravvicinata fu
possibile leggere: RIP 26 maggio 1968. Seguiva una dedica a tutti gli operai morti nelle industrie fiumane. Era la stessa data segnata indicata in rosso nel calendario appeso al muro del bar.

* “Deborah” è una canzone del VIS
Uragani, uscita nel 1968 per Jugoton

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