Un allestimento tetro per una regia scarna

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Un allestimento tetro per una regia scarna

Abbiamo assistito al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino a un “Barbiere” che ci lascia con non poche perplessità. Accanto a elementi buoni infatti l’allestimento di Damiano Michieletto, in veste di regista e scenografo, non sembra appartenere propriamente al clima rossiniano. Il regista immagina un viaggio in treno da Siviglia a Firenze da dove inizia a svilupparsi la vicenda che conosciamo. Per tutte le circa tre ore di spettacolo ci troviamo di fronte a uno sfondo nero in cui sono disposti pochi oggetti praticabili, soprattutto delle sedie, dei cuscini e uno scaleo. I personaggi vestono i costumi di Carla Teti, che donano loro dei tratti cartoon, tra i quali emergono particolarmente all’occhio un Figaro rappresentato come un buffo menestrello, poi un Don Bartolo con un costume e un trucco dalla tinta bianca; interessante anche Don Basilio, mostrato come fosse una lucertola, con un costume e trucco verdi lucenti e con la coda lunga – gli attori si mostrano anche con impermeabili colorati e con ombrelli alla mano, che durante la pièce assumono per giunta la valenza di spade. La dimensione pare un po’ quella della commedia dell’arte, visto che in tal caso si gioca fortemente con gli stereotipi e i cliché dei personaggi.

Il rosso, il giallo e il bianco

Gli oggetti utilizzati sulla scena, come del resto i citati costumi, hanno colori attentamente studiati (rosse le sedie, gialli i cuscini, bianchi i grandi palloncini che i protagonisti lanciano in aria alla fine del secondo e del terzo atto): l’intenzione è dunque quella di dare luogo a una scenografia cromatica, dove colori e geometrie si fanno fondamentali. Il detto espediente non è però completamente riuscito, un po’ perché gli elementi in scena peccano di mancanza di originalità, visto che sedie e scalei sul palcoscenico li vediamo da decenni, si ravvisa inoltre uno scarso e dimenticato uso del disegno luci, quasi non pervenuto, che per un intento del genere sarebbe dovuto essere maggiormente impiegato. Quello spazio nero dietro e sopra i personaggi risulta pesante per tutta la durata della messa in scena e solo in taluni casi viene scongiurato con degli stratagemmi, come quando vengono chiamati in scena degli artisti di strada a disegnare con bombolette spray su un telo la barberia di Figaro, mentre lo stesso “factotum” ne racconta le fattezze, o come quando in occasione dell’aria “La calunnia” di Don Basilio vengono sventolati in aria dei “serpentoni”. Troppo poco comunque e quella voragine resta, dando luogo a un “Barbiere di Siviglia” un po’ troppo oscuro e tetro.

In scena cantanti dinamici

La vicenda è quella che vede come protagonista la triade di personaggi composta da Figaro, il Conte d’Almaviva, alias Lindoro, e Rosina. Il conte è innamorato della giovane e attraverso l’aiuto di Figaro e dei suoi comici accorgimenti, che lo costringono a travestirsi da soldato come da sacerdote, riuscirà infine a sposarla, togliendola dalle grinfie del dottore don Bartolo, che vorrebbe prenderla in sposa senza la sua volontà.Per quanto concerne i cantanti, la prova sicuramente migliore è proprio quella del baritono Don Bartolo Omar Montanari, che con la sua voce sovrasta la prova degli altri cantanti. Il suo è un timbro caldo, pungente e espressivo, come lo sono del resto le sue gestualità, che si adattano alla sfera buffa e istrionica voluta dall’opera. La sua dizione è superba e il pregio si fa palese nel momento in cui si trova alle prese coi ravvicinati e celeri grovigli di parole, che lo costringono alla rapidità, senza che questa gli lasci perdere spontaneità. Buona la prova di Figaro, il baritono Bruno Taddia, che si riprende dopo un’entrata che ci aspettavamo più felice. Vorremmo sempre che “Largo al factotum” sia cantata perfettamente, ma purtroppo non è affatto semplice, essendo un’aria piena di sfumature e peraltro la primissima di Figaro nella rappresentazione e che quindi mette a dura prova l’entrata del cantante. In questo caso si ravvisa un forte dislivello tra piano e forte e una modulazione poco equilibrata, ma poi il cantante si riprende e durante il resto dell’opera dà luogo a una distinta prestazione, anche sotto il profilo teatrale. Bisogna elogiare Taddia nei duetti, dove si trova sempre a suo agio, affiancato dal tenore Francesco Marsiglia nei panni del Conte d’Almaviva, che ci porta un personaggio credibile e che svolge bene il suo ruolo di fedele innamorato, entrando in armonia con l’atmosfera comica rossiniana. Ci è piaciuta meno Rosina, il mezzosoprano Sofia Koberidze, la cui voce non sempre è ben modulata ed equilibrata e che nel tono basso fa fatica a mantenere la limpidezza vocale. Sicuramente in questo senso ci saremmo attesi una “Cento trappole” migliore, dove la cantante non trova intensità, forse anche disturbata dalla richiesta scenica, che la obbliga a concentrarsi a camminare sopra dei cuscini. Ottimo e convincente invece il basso Don Basilio Gabriele Sagona nella travolgente aria “La calunnia”, dove il cantante mostra il suo saldo vigore timbrico. Esemplare anche la Berta Carmen Buendìa, visto che nell’unica aria a disposizione ci presenta il suo spessore timbrico, contraddistinto da un registro vasto e variegato, nonché la sua abilità attoriale buffa e ironica.

La mancata vivacità

Il Maestro concertatore e direttore Michele Gamba è a suo agio alla guida dell’Orchestra del Maggio, dando luce a un’ottima prova, giocando ottimamente tra piano e forte, rispettando la fluidità e la limpidezza rossiniane, interpretando bene quel famoso “crescendo” intrinseco dei brani del compositore pesarese, che nel “Barbiere” si fa evidente, visto che l’opera parte quasi in sordina per arrivare alla baraonda finale. Bene anche il coro diretto da Lorenzo Fratini, anche se nel melodramma ha un ruolo marginale ed è rappresentato dal gruppo di poliziotti che vengono chiamati in causa durante l’azione.
Per concludere, “Il Barbiere di Siviglia” di Damiano Michieletto è piaciuto per metà. Il regista è bravo a mantenere i ritmi serrati e il giusto tempo comico per tutta la durata della pièce, mentre dà luogo a una scenografia che non ci ha entusiasmato, che sembra rimandare a qualche scena della danza contemporanea, che mal si sposa con un’opera rossiniana, visto che lo scarno non fa proprio parte della poetica di Rossini, così amante dei mille colori e di quella solare limpidezza che non può essere trasformata perennemente in tetra oscurità.

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