Tra Roma e Fiume per salvarsi dalle deportazioni nazifasciste

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Tra Roma e Fiume per salvarsi dalle deportazioni nazifasciste

La famiglia ebrea dei Polgar divisa tra Fiume e Roma, tra Auschwitz e la salvezza. Una storia tragica e commovente di una famiglia fiumana che ha vissuto in prima persona le leggi razziali fasciste, la persecuzione, la deportazione, la prigionia, la morte nei campi di sterminio nazisti. A raccontarci la storia della famiglia, è Lea Polgar, ebrea fiumana che si salvò dalla deportazione anche grazie all’aiuto dello scultore Aurelio Mistruzzi che a Roma la nascose nella sua abitazione. All‘epoca delle persecuzioni nazifasciste, Lea era una piccola bambina che nonostante tutto rammenta ancora oggi bene l’odio, l’orrore e l’indifferenza delle persone verso la componente ebraica. Noi l’abbiamo incontrata proprio in occasione della Giornata della Memoria istituita per commemorare le vittime dell’Olocausto, che ricorre domani, 27 gennaio, per farci raccontare la storia della sua famiglia quale stimolo a riflettere sulle barbarie avvenute, affinché mai più accadano.

“Sono nata a Fiume nel 1933, quale maggiore di tre figli. Mio padre, Francesco Polgar, era avvocato mentre mia madre, Eva Grünwald, diplomata in pianoforte, faceva la casalinga – esordisce Lea Polgar –. Anche mio padre Francesco Polgar era nato a Fiume nel 1900: morì a Roma nel 1985 ed è stato anche legionario fiumano, come i suoi fratelli Andrea ed Emerico detto Imre. Conservo ancora il tesserino di papà con Tra Roma e Fiume per salvarsi GIORNO DELLA MEMORIA Lea Polgar racconta la storia della sua famiglia la firma di D’Annunzio. Tutti loro credevano moltissimo nell’Italia. Eravamo una famiglia che adorava profondamente la cultura, la storia e la lingua italiane. A Fiume avevamo una bellissima vita di famiglia, agiata e tranquilla. Una delle nonne aveva uno splendido villino sul lungomare di Volosca, dove passavamo tutti insieme dei bellissimi momenti. Ancora oggi, a 86 anni d’età mi ricordo come da piccola giocavo assieme ad altri miei coetanei nel parco davanti al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Fiume. Era un’esistenza bella e soprattutto spensierata, che venne purtroppo infranta nel 1938 con la promulgazione delle Leggi razziali. A causa dei provvedimenti legislativi e amministrativi fascisti, mio padre non poté più esercitare l’avvocatura e di conseguenza la fonte di guadagno della | I piccoli Polgar con il loro papà a Roma nell’autunno del 1943 | Lea assieme al papà, Francesco Polgar, a Roma | Eva Grünwald nel l1944 a Roma | Eva Grünwald assieme a suo marito Francesco famiglia venne a mancare. Era soltanto il primo passo di una lunga sofferenza che ci tolse tutto, l’identità e la dignità di esseri umani”. “A casa nostra vennero dei militari con delle divise nere che intimarono alla famiglia di abbandonare l’abitazione che si trovava in via Iparco Bacich, entro una settimana, perché a questa era interessato un’ufficiale fascista che la desiderava per sé. Mia madre non aspettò neanche un minuto, perché era pienamente consapevole del potere del terrore e della violenza che quelle persone possedevano. Chiamò immediatamente gli operai del magazzino del nonno, Giuseppe Polgar – che possedeva a Fiume un’attività all’ingrosso –, che la aiutarono a sgomberare la casa. Dopo una riunione di famiglia i miei decisero di lasciare la città per raggiungere Roma, da dove papà pianificava di emigrare negli Stati Uniti. Lì avevamo un fratello del nonno materno, famoso attore di cinema a Berlino – che tra l’altro fece il barista nel film ‘Casablanca’ –, il quale nel 1933 decise di seguire il gruppo dei cineasti che dalla Germania nazista se ne andò negli Usa, dove fondarono le grosse case cinematografiche. Così papà decise di partire per Roma, dove in un primo momento divenne segretario dell’Unione delle Comunità Israelitiche italiane, in attesa di poter espatriare negli Stati Uniti attraverso le liste d’emigrazione. Noi, bambini, ovvero io e miei fratelli Tommaso nato nel 1934 e Gianni che è del 1936, fummo affidati, invece, alla cure della nonna paterna, rimanendo a Fiume”.

Nascosti fino alla liberazione di Roma

Che cosa accadde poi?

“Un anno dopo, nel settembre del 1939, mamma e papà ci vennero a prendere per portarci a Roma. Ricordo come un incubo il terribile viaggio per raggiungere la capitale italiana. Non avevamo soldi e dovevamo arrangiarci come meglio potevamo. A Roma mi era permesso di frequentare solamente la scuola ebraica che era lontanissima. La mamma, da casalinga dovette inventarsi dei lavori. Riuscì ad adattarsi molto bene: dava, infatti, lezioni di tedesco, imparò a fare le creme di bellezza per signore e si mise a fare anche l’arredatrice per le case dei gerarchi fascisti, non dicendo ovviamente mai di essere ebrea. L’intera famiglia aspettava l’occasione di poter emigrare ma poi nel 1940 scoppio la guerra e fummo costretti a rimanere a Roma”.

Salvata dai coniugi Mistruzzi

La situazione si aggravò ulteriormente con l’armistizio?

“Proprio così. Avevamo un carissimo amico di famiglia già dai tempi in cui era funzionario a Fiume, Giovanni Perna, direttore del Banco di Roma, che ci informava dei possibili pericoli per la popolazione ebraica. Dopo l’armistizio del 1943 e l’immediata occupazione tedesca di Roma, avvisò la famiglia che era il caso di nascondersi per tutelarsi meglio. Mia madre aveva preparato tre zainetti per me e i miei due fratelli più piccoli, in modo da essere immediatamente pronti per fuggire. Fuga che alla fine avvenne ai primi di ottobre, ovvero prima del rastrellamento del Ghetto romano. Io fui ospitata per un mese dai coniugi Mistruzzi, Aurelio il noto scultore e Melania Yaiteles, nella loro casa di Via Carso, a Roma nell’autunno 1943. Durante la permanenza, mi diedero per sicurezza il nome fittizio di Maria Lea De Renzini. Ero una bambina orfana che proveniva da un paesino vicino a Napoli. Questa città fu scelta come copertura in quanto era già stata liberata delle forze alleate e quindi le informazioni non potevano essere controllate.”.

Mentre i suoi fratelli dove furono sistemati?

“Furono anche loro nascosti in altre famiglie per evitare la deportazione. Il più piccolo Gianni era stato accolto da una collega di studio di mamma, mentre quello di mezzo, Tommaso, venne nascosto nella casa di Giovanni Perna assieme ai genitori”.

Quanto tempo trascorse con la famiglia Mistruzzi?

“Circa un mese. Anche perché la figlia dei Mistruzzi, Adriana, aveva avuto un bambino e mia madre ritenne troppo pericoloso lasciarmi nella loro dimora. Furono quindi scelti altri nascondigli per tutti noi. Fui sistemata in un istituto di suore, mentre i fratelli in un istituto di preti. Così separati, i genitori da una parte e noi da un’altra, siamo riusciti a salvarci dalla deportazione e ad aspettare la liberazione di Roma. I Mistruzzi offrendomi riparo hanno rischiato molto. Ecco perché scelsi di avviare la pratica per conferire ad Aurelio e Melania Mistruzzi il titolo di Giusti delle Nazioni. Cosa che la Commissione ha accordato loro il 28 settembre 2007. Il loro nome è inciso per sempre sul muro d’onore nel giardino dei Giusti allo Yad Vashem di Gerusalemme per aver aiutato degli ebrei perseguitati a Roma”

I familiari deportati ad Auschwitz

Una parte della sua famiglia, però, non riuscì a salvarsi dalle deportazioni?

“A febbraio 1944 mio padre, Francesco, si recò a Venezia per un appuntamento con l’altra parte della famiglia Polgar rimasta a Fiume, per portarli a Roma. Tornò solo e si chiuse in una delle stanze. Ricordo che piangeva a dirotto. Agli occhi miei era impressionante, soprattutto per una persona come mio padre, un pezzo d’uomo di 44 anni, sportivo, piangere così. Piangeva perché l’appuntamento a Venezia era saltato. Sua madre, Serena Lichtenstein, insieme al fratello maggiore Emerico Polgar, detto Imre, a sua moglie Caterina Fischl e al bambino di soli nove anni, Mario Claudio Polgar, nonostante avessero trovato rifugio fuori Fiume, vennero arrestati dai nazisti il 12 febbraio 1944 e deportati ad Auschwitz. Tutti noi, per tantissimo tempo, credevamo che fossero morti alla Risiera di San Sabba. Lo credevamo perché nella Risiera è stata ritrovata un’incisione con il nome di mio zio e la data di quando arrivò. Solamente pochi anni fa, ho saputo che la Risiera non è stata la loro ultima destinazione. Sono riuscita a rintracciare una persona in Israele, che aveva segnalato i nomi della mia famiglia scomparsa Hanna Herscoviz Kugler che era pare di Fiume, allo Yad Vashem di Gerusalemme, la quale mi raccontò di aver visto per l’ultima volta mia nonna, Serena Lichtenstein, che teneva per mano il nipote, Mario Claudio Polgar, mentre venivano scortati verso le camere a gas di Auschwitz. L’unico pensiero positivo che riesco a trarre da tutto ciò è la consapevolezza che sono morti subito, appena arrivati al campo di concentramento, e non hanno sofferto troppo. Almeno lo spero”.

Che ricordi conserva della sua Fiume?

“Di Fiume, sono riuscita a conservare molti ricordi, perché in famiglia ne abbiamo sempre parlato. E siccome appartiene a un periodo bellissimo della mia vita, non l’ho voluta mai dimenticare. Abbiamo sempre rievocato i posti, gli avvenimenti e le persone. Trent’anni fa, contrariamente al desiderio di mia madre che non voleva che ci venissi, poiché al suo ritorno l’aveva trovata completamente cambiata, infatti mi diceva di non andarci, perché non era più quella dei nostri ricordi. Scelsi di disobbedirle. Mi recai a visitarla con mio figlio, ed è stato molto triste, perché non era la Fiume dei miei ricordi. È stata molto dura, ma alla fine mi ha fatto molto piacere. Spero di ritornarci nuovamente”.

Come si presentava, invece, ai tempi della sua infanzia, la comunità ebraica fiumana?

“Da come me la descrisse papà, era molto attiva e legata tra loro. Anche dopo, una volta lasciata Fiume per Roma, gli ebrei fiumani erano particolarmente legati tra di loro. Ricordo alcuni nomi e personaggi di Fiume che a Roma ci frequentavano molto. La mentalità romana è molto diversa da quella dei fiumani, che comunque continua la propria tradizione legata alla città quarnerina e a quella aschenazita. Erano molto legati, cercavano sempre di aiutarsi a vicenda. Insomma, era un bell’ambiente”.

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