È un omaggio a generazioni di lavoratrici e lavoratori di Cherso la mostra “Plavica. Tvornica za preradu ribe – Cres” (Plavica. Fabbrica di lavorazione del pesce – Cherso), allestita fino al 23 agosto nel Museo civico di Fiume (Cubetto), che racconta attraverso una serie di toccanti testimonianze di, in prevalenza, donne che vi hanno lavorato per decenni, la storia di uno stabilimento che per un centinaio di anni ha influito sul ritmo della vita sull’isola.
La storia dei vari impianti
Il progetto espositivo si inserisce nel ciclo di mostre dedicate alla storia della produzione industriale in Croazia promosso nell’ambito del Museo civico fiumano. Il presente allestimento è stato realizzato dal Museo di Cherso in collaborazione con l’Istituto per gli studi della cultura e della memoria dell’Accademia slovena delle Scienze e delle Arti e illustra le varie tappe di sviluppo della fabbrica, la cui storia iniziò nel 1896. Per decenni, essa fu uno dei due principali stabilimenti industriali operanti sull’isola di Cherso (il secondo fu il cantiere navale, al quale successivamente si unì anche una fabbrica di maglieria) e sfamava un centinaio di famiglie isolane. Dal momento che le donne rappresentavano la principale forza lavoro della Fabbrica Plavica, la storia dello stabilimento è incentrata sulle loro esperienze. Le donne, infatti, svolgevano i lavori più difficili e fisicamente esigenti all’interno della fabbrica, mentre agli uomini venivano affidati incarichi dirigenziali, oppure mansioni di altra natura, ma comunque meno estenuanti di quelle svolte dalle lavoratrici.Difficili condizioni di lavoro
Oltre a illustrare le difficili condizioni di lavoro – fino alla metà degli anni Sessanta, infatti, le donne pulivano il pesce all’aperto, anche durante l’inverno, e lo inscatolavano, con i piedi sempre inevitabilmente bagnati, nello stabilimento privo di riscaldamento, in quanto inizialmente non disponevano di stivali di gomma e il pavimento era sempre ricoperto d’acqua, le mani perennemente immerse nell’acqua gelida, spesso ferite da tagli –, l’esposizione parla anche di amicizie durature, di solidarietà femminile, di problemi e vite difficili, ma anche della dignità del lavoro, di rapporti umani e di pregiudizi (le lavoratrici della fabbrica venivano per qualche motivo considerate donne di dubbia moralità e spesso dovevano respingere delle avances sgradite da uomini molesti).
Per quanto riguarda la mole di lavoro, ciascuna operaia lavorava a cottimo, il che vuol dire che in un’ora doveva riempire 400 scatolette, pulire 60 chilogrammi di sardelle o 35 chilogrammi di acciughe per guadagnare l’intero salario. Si trattava di un lavoro spesso stressante, che esigeva molta destrezza e velocità, ma che spesso portava a degli infortuni. Le condizioni di lavoro migliorarono durante gli anni Sessanta, anche se gran parte delle mansioni continuavano a venire svolte manualmente. Le donne, infatti, espletavano anche i lavori più faticosi, scaricando le cassette di pesce dai pescherecci, che pesavano anche otto chili, senza l’ausilio dei carrelli elevatori. Senza parlare dell’odore di pesce, più propriamente puzza, che dovevano sopportare ogni giorno e che restava loro intrappolato nei capelli e nella pelle. Per “sopravvivere” la giornata lavorativa e renderla meno gravosa, le donne usavano cantare. Questo è uno dei ricordi più piacevoli che conservano le testimoni di quei tempi legato al lavoro nella fabbrica, assieme alle passeggiate dopo il lavoro assieme alle amiche.
La dignità del lavoratore
Inizialmente, nello stabilimento lavoravano soltanto le donne di Cherso e di altri paesi isolani, ma con l’ampliamento della produzione si presentò la necessità di “importare” la forza lavoro, per cui successivamente nella fabbrica giunsero numerose donne provenienti anche da altre parti della Croazia e della Jugoslavia, in prevalenza dalla Bosnia ed Erzegovina. Molte di queste donne rimasero sull’isola, si sposarono e vi crebbero i loro figli, diventando parte integrale della comunità isolana. Per molte donne, il lavoro in fabbrica, nonostante fosse arduo, voleva dire un posto di lavoro sicuro e tutela della dignità del lavoratore, particolarmente forte negli anni Settanta.Il declino e la chiusura
Nel corso dei decenni, la fabbrica attraversò diverse fasi, alcune di successo, altre meno, ma continuò a operare fino al 1997, quando il processo di privatizzazione nella Croazia indipendente distrusse anche questo stabilimento, lasciando le sue ultime operaie e gli operai senza stipendio, privandoli anche dei salari che non erano stati loro versati nell’ultimo periodo di attività della “Plavica”. Molti degli ex dipendenti finirono sul lastrico dopo che la produzione nello stabilimento venne soppressa.
La mostra sulla Fabbrica Plavica, oltre a omaggiare generazioni di lavoratrici e lavoratori, vuole rimarcare anche un’esperienza lavorativa specifica che oggi sta gradualmente scomparendo dalla memoria culturale. Quando oggigiorno viene immaginata la vita su un’isola o sul litorale, si pensa innanzitutto a un paesaggio naturale idilliaco e intatto, adatto al turismo: è praticamente scomparso il ricordo del lavoro faticoso, dell’odore del pesce e del canto che proveniva dalle fabbriche, come spiegano le autrici della mostra Iva Kosmos e Inge Solis.
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