«The end», il canto tragico dell’illusione umana

Nell'ambito del terzo appuntamento del Teatro filosofico presso l'Art cinema è stata proiettata in anteprima la nuova fatica cinematografica di Joshua Oppenheimer

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«The end», il canto tragico dell’illusione umana
Joshua Oppenheimer, Dubravka Vrgoč e Slobodanka Mišković

Il regista candidato all’Oscar Joshua Oppenheimer, già celebrato per la sua coraggiosa indagine sulla memoria collettiva nel brillante e agghiacciante “The act of killing” (L’atto di uccidere, 2012), con l’ultimo lavoro, “The end” (La fine, 2024), si è avventurato nel territorio della finzione cinematografica. Senza abbandonare il suo sguardo implacabile sulla rimozione, sul senso di colpa e sull’autonarrazione come strumento di difesa, l’autore ha confezionato un musical atipico, intriso di un linguaggio pomposo, iper-erudito, straniante e frammentario, che amplifica l’alienazione dei personaggi e l’irrealtà della narrazione. Il film, frutto di una raffinata sceneggiatura co-firmata da Rasmus Heisterberg (“Uomini che odiano le donne”) e impreziosito dalle splendide musiche di Marius de Vries (“Romeo+Giulietta”) e Joshua Schmidt (“Adding machine”), con testi dello stesso Oppenheimer, nasce da una prestigiosa collaborazione internazionale tra Danimarca, Germania, Irlanda, Italia, Regno Unito e Svezia. Presentato in anteprima mondiale al Telluride Film Festival e successivamente al Toronto International Film Festival, la pellicola ha riscosso grande interesse anche presso il pubblico convenuto all’Art cinema in occasione della sua proiezione nell’ambito del Teatro filosofico di Fiume, curato dal filosofo Srećko Horvat.

Preceduto dai saluti della direttrice dell’ente, Slobodanka Mišković e dalla sovrintendente del Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc”, Dubravka Vrgoč, il rinomato documentarista si è rivolto ai presenti spiegando che “questa è la terza volta che vengo in Croazia, e poiché il mio mentore e caro amico Dušan Makavejev ha ricoperto un ruolo fondamentale nella mia vita, nel mio modo di fare cinema e persino in ciò che vedrete sullo schermo questa sera, per me è sempre un’esperienza magica tornare in qualsiasi territorio dell’ex Jugoslavia. Per tale ragione dedico questa proiezione a lui e a sua moglie, Bojana Marjan. È straordinario essere qui per questa speciale anteprima di “The end”, il nostro musical ambientato in un bunker, 25 anni dopo il collasso ambientale che ha reso la Terra pressoché inabitabile. Conoscerete una famiglia che lotta per sopravvivere, aggrappandosi a menzogne, e in questo senso, proprio come nei miei documentari “The act of killing” e “The look of silence” (Lo sguardo del silenzio), anche questa pellicola è una riflessione sul potere della narrazione: su come raccontiamo storie per celare la verità a noi stessi, per nasconderci da noi stessi, su come inventiamo e ci attacchiamo a pretesti pur di eludere i sensi di colpa e i rimpianti, ai quali, in qualche modo, finiamo persino per credere. In altre parole, è un racconto sulle drammatiche conseguenze dell’autoinganno. Al contempo, l’opera è intessuta di vulnerabilità umana e di bagliori di umanità, in cui spero che ciascuno di voi possa riconoscere almeno un frammento di sé. Per ora, aprite gli occhi sui volti dei personaggi, le orecchie ai dialoghi, alla musica e ai silenzi, il cuore all’esperienza. In breve: sentite prima, pensate dopo. E più tardi, a teatro, avremo modo di riflettere insieme sul film”.

Il rifugio dorato
La nuova fatica cinematografica del visionario regista, tesa a sfidare le convenzioni narrative e stilistiche, unendo l’intimismo del dramma filosofico alla grandiosità del musical classico (rifacentesi all’epoca d’oro di Broadway), si colloca al crocevia tra estetica barocca e tensione esistenziale, dipingendo un futuro post-apocalittico in cui la sopravvivenza è una condanna mascherata da privilegio. Oppenheimer orchestra un racconto in cui la memoria è negata, il tempo sospeso e il confine tra realtà e finzione si dissolve nella messa in scena musicale di una tragedia senza redenzione. L’ambientazione scelta è un lussuoso bunker (nella realtà la suggestiva miniera di sale Italkali a Petralia Soprana, in Sicilia), in cui da oltre vent’anni vive isolata la famiglia di un ex magnate petrolifero, affiancata da un Medico (Lennie James), un Maggiordomo (Tim McInnerny) e l’Amica della Madre (Bronagh Gallagher). L’enclave sotterranea, di apparente sicurezza e benessere, si rivela ben presto una gabbia dorata, una prigione mentale mascherata da rifugio: gli ambienti sontuosi – una piscina scintillante immersa nell’oscurità minerale, una biblioteca colma di volumi ormai privi di significato reale, quadri romantici alla Caspar David Friedrich o Ivan Aivazovsky che evocano nostalgicamente un mondo perduto – contrastano drammaticamente con la devastazione climatica esterna causata proprio dal patriarca stesso, mentre una serra e un acquario ne simulano la vitalità. Nel microcosmo autoreferenziale in cui si muovono i personaggi prende forma una moderna versione della caverna platonica, un luogo sfarzoso in cui la verità è negata e le ombre delle illusioni prendono il posto della realtà.
Il Figlio (George MacKay – “1917”, “The Beast”), concepito e cresciuto nell’isolamento totale, è prigioniero di una narrazione familiare costruita ad arte. Egli trascorre le giornate aiutando il Padre (Michael Shannon – “Bullet Train”, “The Bikeriders”), figura imponente e autoritaria, ex dirigente del settore energetico, a redigere un’autobiografia autocelebrativa che nega ogni responsabilità. La Madre (Tilda Swinton – “Moonrise Kingdom”, “The eternal daughter”), glaciale ed eterea nella sua ossessione estetica, consacra ogni gesto alla perfezione formale per occultare il senso di colpa.

Il canto come fuga dalla verità
La musica permea l’intera opera come elemento centrale e simbolico. Fin dall’apertura del film, introdotta dalla citazione poetica tratta dai “Quattro Quartetti” di T.S. Eliot – “Le case sono tutte scese sotto il mare. I danzatori sono tutti scesi sotto la collina”, il canto, a modo della danza, diviene metafora dell’illusione collettiva. I protagonisti si rifugiano nella melodia per sfuggire alla realtà, ma il film li inchioda alla loro stessa finzione. Inizialmente rassicuranti e armoniose (“A wonderful gift”/Un regalo meraviglioso), le canzoni diventano progressivamente più inquietanti: “We kept our distance” (Abbiamo mantenuto le distanze) celebra ironicamente l’isolamento come salvezza, “The big blue sky” (Il grande cielo azzurro) esprime nostalgicamente il rimpianto per quel mondo che proprio il capofamiglia ha contribuito a distruggere, mentre “The mirror” (Lo specchio), interpretata dalla Madre, segna l’inizio dello sgretolarsi delle illusioni familiari. L’apice della rimozione collettiva si manifesta con “Another winter (Un altro inverno), un inno gelido alla continuità del tempo, in cui la Ragazza (Moses Ingram – “The Queen’s Gambit”, “Lady in the Lake”) tenta invano di scuotere i protagonisti dal torpore. La sua voce emerge come un grido d’angoscia tra le arie dolciastre della famiglia, un monito che nessuno vuole ascoltare.

La destabilizzazione dell’ordine
L’arrivo improvviso della Ragazza, la quale rappresenta un elemento estraneo che infrange lo specchio dell’illusione, trovata priva di sensi all’esterno del bunker, sconvolge il precario equilibrio familiare. Se per il Figlio è promessa di libertà, per i genitori diviene minaccia insostenibile. La sua presenza ribalta magistralmente la dinamica del mito platonico: non è più l’abitante della caverna a uscire verso la luce della verità, ma è il mondo esterno a insinuarsi violentemente nel rifugio sotterraneo, costringendo i suoi abitanti a confrontarsi con ciò che hanno sempre evitato. Tuttavia, non tutti sono pronti a vedere la luce. La famiglia si aggrappa disperatamente al proprio autoinganno, e il musical si fa sempre più barocco e grottesco, espressione di una bellezza vuota e ossessiva che diventa prigione.

La ciclicità nichilista dell’eterno ritorno
Nell’ultimo atto, “The end” abbandona ogni speranza di risoluzione catartica. L’Amica della Madre, sopraffatta dal senso di colpa per aver abbandonato il figlio tossicodipendente, sceglie il suicidio come unico gesto autentico contro l’immobilismo generale, ma nemmeno questo scuote i superstiti dalla loro apatia esistenziale. Con un salto temporale scopriamo che il Figlio e la Ragazza hanno avuto un bambino nel bunker, suggellando inconsapevolmente la continuità dell’illusione. Oppenheimer ci indica dunque un tempo circolare, statico come nei drammi beckettiani o nei mondi sospesi narrati da Thomas Mann ne “La montagna incantata”. Il rifugio diventa metafora potente dell’eterno ritorno nietzschiano: non c’è progresso né cambiamento possibile in questo universo chiuso su sé stesso. Come nei romanzi distopici di Ballard (“Condominium”, “Il mondo sommerso”), l’habitat diviene specchio della decadenza morale e psicologica dei suoi abitanti.

L’illusione finale
L’ultimo brano musicale, “Our future is bright”, sancisce ambiguamente la conclusione del film: da un lato sembra celebrare una riconciliazione familiare apparente, dall’altro suona come disperato autoinganno collettivo. La contrapposizione tra la sontuosità estetica – una scenografia immacolata (Jette Lehmann) e una fotografia grandiosa (Mikhail Krichman) – e la pesantezza del ritmo e della sceneggiatura diventa cifra distintiva dell’opera. La ripetizione ossessiva delle tematiche e l’assenza di veri colpi di scena imprigionano lo spettatore in un’atmosfera claustrofobica, in cui il senso di colpa e il fallimento umano si fanno soffocanti e ineluttabili. Eppure l’opera ci lascia con un’immagine enigmatica ed evocativa: minuscoli organismi fluttuano nell’acqua come stelle in un universo appena nato. È forse questa visione simbolo di speranza o piuttosto segno inquietante di un ciclo destinato a ripetersi eternamente?
“The end” trascende così la semplice riflessione sulla fine del mondo per divenire meditazione profonda sulla crisi irreversibile della nostra civiltà contemporanea. Attraverso la forma raffinata ed estetizzante del musical, genere tradizionalmente associato alla leggerezza e alla liberazione, Oppenheimer racconta invece una tragedia senza catarsi né assoluzione possibile: un canto struggente sull’incapacità collettiva di affrontare responsabilmente le proprie colpe e un monito severo rivolto al nostro presente affinché possiamo ancora scegliere se cambiare rotta o continuare a vivere nell’illusione confortante delle nostre menzogne.

Il film ha riscosso grande interesse del pubblico fiumano

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