
Venerdì scorso, il Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc” di Fiume si è trasformato in uno scrigno di spiritualità musicale, accogliendo lo “Stabat Mater” di Gioachino Rossini (1792–1868), tra le vette più elevate e complesse della musica sacra ottocentesca. Sotto l’attenta direzione del M° Tomislav Fačini, l’esecuzione ha visto impegnati l’Orchestra sinfonica fiumana, il Coro dell’Opera dell’ente teatrale e quello giovanile “Josip Kaplan”, affiancati dal quartetto vocale composto da Gabrijela Deglin (soprano), Stefany Findrik (mezzosoprano), Bože Jurić-Pešić (tenore) e Luka Ortar (basso).
La tormentata genesi di un capolavoro
Lo “Stabat Mater”, la cui natura liminale tra sacro e teatrale ha generato discussioni non dissimili da quelle suscitate dal “Requiem” verdiano, è frutto di un lungo percorso creativo e fu concepito da Rossini in due momenti ben distinti, tra il 1831 e il 1841. Dopo aver composto i primi sei movimenti, il maestro di Pesaro affidò al bolognese Giovanni Tadolini il compito di completare l’opera, riservandosi tuttavia, a distanza di un decennio, il diritto di riprenderla in mano e rifinirla personalmente. La prima esecuzione integrale ebbe luogo a Parigi, al Théâtre-Italien, il 7 gennaio 1842, sotto la bacchetta di Gaetano Donizetti, e fu accolta da un pubblico entusiasta, il quale colse immediatamente la straordinaria originalità della partitura, reazione che da allora si mantenne pressoché inalterata ad ogni riproposta.
La suddivisione temporale della composizione non lascia percepire discontinuità stilistiche, merito, forse, di una coesione interna ottenuta grazie alla scelta sapiente di riprendere, nel fugato conclusivo, l’incipit dell’introduzione. I quattro brani di più tarda stesura risultano particolarmente maturi, esito di un processo creativo più disteso e lucido, seguente al drammatico ritiro dalle scene e ai turbamenti neurologici che ne conseguirono. Proprio in queste pagine emergono con maggiore evidenza le influenze della drammaturgia musicale tardo-romantica, aprendo la sua scrittura a un lirismo più profondo e a una costruzione più architettonica. Articolato in dieci sezioni, lo “Stabat Mater” colpisce per la straordinaria maestria con cui intreccia arie solistiche, duetti, quartetti, interventi corali e momenti a cappella, alternando confessioni interiori e pathos drammatico, in un mosaico emotivo che consacra quest’opera tra i massimi capolavori della musica sacra del XIX secolo.
Tra polifonia e poesia
Come accadde per molti grandi compositori giunti alla maturità espressiva (si pensi a Mozart, Beethoven, Verdi) anche Rossini sentì il bisogno, nell’ultima fase della sua attività creativa, di confrontarsi con l’antica e austera lezione della polifonia. Tale aspirazione si concretizza nella fuga corale conclusiva, “In sempiterna saecula” (X), autentico monumento sonoro in cui la severità dello stile imitativo si fonde mirabilmente con l’esigenza di un finale capace di generare un senso di compiutezza estatica. Il coro tesse un ricamo di melismi arcaici, che evocano suggestivamente il canto gregoriano, pur senza rinunciare alla morbidezza espressiva del madrigalismo barocco, generando così una sintesi sorprendente tra rigore contrappuntistico e sensibilità romantica.
Il testo latino del XIII secolo, tradizionalmente attribuito a Jacopone da Todi, costituisce uno dei vertici della poesia liturgica medievale. Esso esplora con intensità il dolore della Madre che assiste alla Passione del Figlio, dando voce a una sofferenza che si fa universale e che invita lo spettatore a una compartecipazione emotiva profonda. È una meditazione intensa e drammatica sulla compassione e sulla redenzione, che attraversa i secoli e che ha ispirato innumerevoli compositori, da Haydn a Dvořák, da Palestrina a Pergolesi, da Poulenc a Penderecki, ciascuno dei quali ha offerto una personale lettura sonora del mistero della fede e del dolore. Rossini si accosta a questo testo con un approccio stratificato, in cui da un lato ne esalta la dimensione affettiva e lirica, mentre dall’altro non rinuncia a infondervi un respiro quasi operistico, nella continua alternanza tra intimità raccolta e slancio passionale.
Coralità compatta e precisione esecutiva
I due cori, accuratamente istruiti dai Maestri Matteo Salvemini e Doris Kovačić e fusi per l’occasione in un unico, poderoso organismo vocale, hanno offerto una prestazione di grande omogeneità timbrica e solida precisione esecutiva. L’equilibrio tra le sezioni, l’intonazione impeccabile e un fraseggio sempre elastico e ricco di espressività hanno reso l’insieme corale un fulcro espressivo dell’intera esecuzione. Nei momenti a cappella, tra cui spiccano il celebre “Eja, mater” (V) e il mistico “Quando corpus morietur” (IX), la compagine vocale ha evocato con delicatezza paesaggi sonori di raccoglimento e quiete, gestendo con controllo le sfumature dinamiche, dalle più evanescenti rarefazioni al più maestoso dei fortissimi. Quest’ ultimo, vertice espressivo della partitura, pare trasfigurare la paura della morte in una sorta di stupore beatifico, raggiunto attraverso una raffinatissima depurazione del linguaggio musicale. È in questi episodi che si coglie appieno la sensibilità rossiniana nel trattare la linea vocale con cura quasi cameristica – sensibilità che raramente trova spazio nelle sue opere operistiche, dove il coro viene spesso ridotto a un ruolo più funzionale e stereotipato. Il finale, che dopo il triplice e solenne “Amen” si chiude con un fugato di imponente potenza strutturale, “In sempiterna saecula”, omaggiante lo “stile severo” nella sua forma più monumentale, ha coronato la serata con un’energia trascinante, suscitando sentiti applausi da parte del pubblico.
La voce al centro
I quattro solisti hanno apportato un contributo significativo alla riuscita dell’esecuzione, affrontando con padronanza e sensibilità brani di notevole complessità tecnica ed espressiva. Il mezzosoprano Stefany Findrik ha esibito una voce calda e ben modulata, distintasi in particolare nella meditativa “Fac ut portem” (VII), brano che ne ha messo alla prova la tenuta del fiato e la capacità di affrontare con equilibrio i passaggi di registro. La funzione della pagina, quasi una sospensione contemplativa prima dell’ascesa drammatica del movimento successivo, è stata restituita con misura e delicatezza. Il soprano Gabrijela Deglin si è distinta nel celebre “Inflammatus” (VIII), sezione che funge da apice emotivo dell’intera composizione. Il suo timbro cristallino ha dominato la scrittura impervia con relativa sicurezza e varietà di fraseggio, conferendo al testo liturgico una tensione lirica degna del miglior Verdi. I ritmi puntati degli ottoni, l’agitazione degli archi e la forza collettiva del coro hanno creato un contesto di forte intensità, in cui Deglin si è imposta con sicurezza interpretativa e partecipazione emotiva. A sua volta, il tenore Bože Jurić Pešić, forte di una vocalità scura e ben sostenuta, ha restituito con credibilità la nota aria “Cujus animam” (II), brano conosciuto per la brillantezza melodica e la temibile difficoltà della cadenza conclusiva, culminante in un Re bemolle sovracuto. Nonostante qualche lieve incertezza, la sua interpretazione è risultata musicalmente efficace, riuscendo a evitare le insidie del manierismo e conferendo al momento un’equilibrata nobiltà. Luka Ortar, basso dal timbro profondo e dal fraseggio solido, ha conferito spessore e autorevolezza al drammatico “Pro peccatis” (IV), gestendo con maturità una tessitura estesa e ricca di contrasti espressivi. Il punto di massima sintesi tra i solisti e il coro si è raggiunto nello “Stabat Mater dolorosa” (I), brano d’apertura e fondamento spirituale dell’intera opera. Qui, la tensione meditativa e la profondità del dolore espresso si sono fuse nell’intreccio delle voci, dando vita a una chiarezza comunicativa di rilievo, che ha impresso all’esecuzione una cifra di profonda umanità e sobria compostezza.
Il respiro dell’orchestra
L’Orchestra sinfonica fiumana si è confermata all’altezza del compito, offrendo una prova di grande compattezza e sensibilità interpretativa. Sotto la guida del Maestro Fačini, l’ensemble ha cesellato con cura le molteplici sfumature timbriche previste dalla partitura rossiniana, costruendo un tappeto sonoro ora vigoroso, ora impalpabile, che ha sostenuto senza mai sopraffare gli interventi solistici e corali. Particolarmente notevole si è rivelata la sezione degli archi, capace di evocare tensioni drammatiche già nelle prime battute dell’introduzione, attraverso una linea espressiva densa e scolpita. Non meno efficaci i fiati, il cui dialogo con le voci ha mantenuto costantemente un equilibrio rispettoso e musicale, impreziosendo l’intera architettura con colori raffinati e dinamiche attentamente dosate. Alla guida dell’intera macchina esecutiva, Tomislav Fačini ha dimostrato una padronanza tecnica e una sensibilità musicale di assoluto livello. Il suo gesto, limpido e incisivo senza mai risultare rigido, ha conferito coerenza strutturale all’ampio affresco rossiniano, senza perdere il senso della tensione drammatica. La concertazione si è mantenuta sempre coesa e viva, con dinamiche sapientemente calibrate e una scansione ritmica incisiva, pensata per valorizzare tanto le linee melodiche quanto i momenti di rarefazione. L’approccio del Maestro zagabrese ha amalgamato con equilibrio energia e controllo, facendo emergere con chiarezza le diverse anime della partitura: la drammaticità, la contemplazione, la liturgia, il lirismo. Al termine del summenzionato maestoso fugato conclusivo il pubblico ha risposto con partecipazione calorosa, premiando l’intensa lettura fiumana del capolavoro della musica sacra con un prolungato applauso.
Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.
L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.