Rifugiati? La storia è maestra, ma non ha scolari

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Rifugiati? La storia è maestra, ma non ha scolari

Nel periodo tra l’ascesa al potere dei nazisti nel 1933 e la resa della Germania nel maggio del 1945, centinaia di migliaia di ebrei emigrarono dalla Germania verso altri Paesi. Questo popolo in fuga aveva un solo obiettivo: mettersi in salvo dall’ondata d’odio e violenza che il dilagante nazionalsocialismo istigava nelle masse. Molti furono gli Stati che limitarono l’ingresso dei rifugiati ebrei soprattutto per timore di possibili ritorsioni da parte della Germania nazista. Una parte di loro riuscì comunque a trovare una via di fuga passando attraverso Paesi che non erano ancora stati occupati e inglobati nel Terzo Reich. Uno di questi è stato il Regno di Jugoslavia.

A parlarci di questa delicata e spesso sconosciuta parte della storia del Secolo breve è la storica e teologa austriaca, ma con residenza zagabrese, Anna Maria Gruenfelder, autrice del volume in lingua croata “Raggiunti dalla Shoah – Ebrei stranieri rifugiati in Jugoslavia dal 1933 al 1945” (Sustigla ih Šoa – Strani židovski izbjeglice u Jugoslaviji 1933.-1945., Srednja Europa, 2018, 315 pp.). La Gruenfelder ha un ricco e interessante passato dedicato alla ricerca storiografica e teologica, con un particolare interesse per il fenomeno dei rifugiati, supportato anche dal fatto che è stata funzionario dell’Ambasciata austriaca a Zagabria, dove ha avuto tanti contatti con gli emigranti e le loro problematiche.

Come nasce il volume?

“La frenetica ricerca degli ebrei dai territori occupati dal Terzo Reich per un Paese che fornirà loro riparo assieme a un’esistenza tranquilla è un argomento che da sempre era presente nella casa dei miei genitori. Avevamo tantissimi parenti e familiari che con l’avvento del nazionalsocialismo cercarono riparo nei Paesi confinanti al Terzo Reich. E poiché gli Stati della Cecoslovacchia, Ungheria e Svizzera, avevano chiuso i propri i confini, soprattutto per paura delle possibili ritorsioni da parte della Germania nazista, molti scelsero il Regno di Jugoslavia, quale prima tappa per raggiungere poi altre destinazioni come la Palestina e i Paesi d’oltreoceano. Porre un ordine a tutte queste storie con personaggi e volti è un obiettivo che mi ero imposta parecchio tempo fa. Di conseguenza il volume ‘Raggiunti dalla Shoah’ è il naturale risultato di queste indagini, analisi e ricerche portatw avanti in tutti questi anni”.

Testimonianze anche dirette

Come ha svolto le ricerche?

“Ho ottenuto preziose informazioni dai pochi sopravvissuti tramite testimonianza diretta. La ricca produzione storiografica legata alle memorie dei sopravvissuti dei detenuti nei campi in Serbia, nello Stato Indipendente della Croazia (NDH) e nelle zone italiane, è accorsa solamente con l’inizio del nuovo millennio. La mia ricerca è, invece, il risultato di informazioni biografiche di più di 200 vittime dei campi di concentramento ustascia – come quelli di Jasenovac, Donja Gradina, Stara Gradiška, Loborgrad, Gornja Rijeka e Đakovo –. Sono tutti dati verificati provenienti dalle evidenze nazionali dell’Austria e della Germania. Inoltre ho svolto ricerche nell’Archivio di Stato di Zagabria, ho consultato i dossier della Polizia del banato croato, ma anche gli archivi della Repubblica di Slovenia, in quanto il maggior numero di ebrei stranieri entrò nel Regno jugoslavo attraverso i valichi di frontiera lungo il confine austro-jugoslavo. La maggior parte di loro trovò sistemazione a Zagabria, dove esisteva, oltre a una numerosa comunità ebraica locale, anche l’Ufficio palestinese. Ovvero un’organizzazione ebraica internazionale con lo scopo di aiutare i potenziali immigrati in Palestina. Infatti, l’ufficio emetteva ‘Certificati palestinesi’ con i quali era possibile entrare in Palestina. Sempre attraverso i documenti ho potuto ricostruire i percorsi migratori dal Regno di Jugoslavia verso Paesi terzi. Dal porto di Sušak, tantissimi s’imbarcarono per la Palestina, ma anche per la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e in altri Paesi d’oltremare. Anche il porto di Spalato ha fornito stesse identiche modalità di transito, mentre a Fiume operavano ‘professionisti per la fuga’. Occorre rilevare che i nomi e cognomi registrati nei dossier della Polizia jugoslava li ho ritrovati poi nelle liste dei detenuti nei campi di concentramento ustascia, ma anche in quelli dei campi italiani di Porto Re, Arbe e negli alberghi attorno a Ragusa. Poi, con la capitolazione italiana dell’8 settembre 1943, sui listini di convogli da deportare a Jasenovac o a Zemun. Nutro una certa personale soddisfazione per avere avviato lo studio di questa materia. Devo comunque evidenziare, che le ricerche proseguono, perché la tematica è molto più complessa di quanto possa apparire a prima vista. La storia dei rifugiati ebrei stranieri in Jugoslavia non finisce con l’8 maggio 1945. Occorre approfondire anche il loro rimpatrio, ma anche l’emigrazione in Palestina che provocò non pochi problemi con gli Alleati”.

Di che numero di ebrei rifugiati si tratta?

“Il principale segretario della Comunità ebraica di Zagabria Alexander Klein, che ha coordinato e organizzato l’accoglienza dei profughi ebrei, sostiene dal 1933, quando Hitler venne al potere in Germania, fino al 1941, sono stati 55mila e 500 ebrei dell’Europa centrale a transitare attraverso il Regno di Jugoslavia e in qualche modo sono venuti in contatto con la comunità ebraica di Zagabria. 51mila e 500 di loro sono partiti dal Regno prima dell’occupazione nazista del 6 aprile 1941. Sempre secondo le stime di Klein, in Jugoslavia, sono rimasti tra i 4 e 5mila ebrei. Erano tutti considerati immigranti illegali, ovvero comunisti tedeschi, austriaci e cechi perseguitati dai nazisti, ma anche dai governi autoritari della Repubblica Ceca e dall’Austria prima dell’occupazione nazista dei due Paesi. Tra gli ebrei non jugoslavi c’era chi aveva familiari in Jugoslavia e la maggior parte di loro calcolava sulla possibilità di trovare o una rotta marittima per l’estero o una fuga via terra in direzione della Palestina. La Polizia jugoslava stimava che solo nel 1933, 4 mila e 440 ebrei dalla Germania hanno varcato il confine jugoslavo, seguiti un anno dopo da altre 4mila e 200 persone. Tra il 1935 e il 1937 il numero di immigranti ebrei del Reich variava tra le 2mila e 200 e le 2mila e 800 unità l’anno. Parallelamente in quegli anni a Zagabria vivevano già 3mila ebrei tedeschi e cechi con l’intenzione di crearsi una nuova esistenza in Jugoslavia”.
Italiani più «ospitali fino al 1941

Quale fu la funzione delle provincie italiane, mi riferisco all’Istria, Quarnero e Dalmazia, nell’accogliere i rifugiati ebrei?

“A seguito dell’occupazione tedesca e della divisione del Regno di Jugoslavia, a fuggire non furono solamente gli ebrei jugoslavi, ma anche stranieri delle zone limitrofe dell’occupazione italiana, in quanto gli italiani, nonostante il regime fascista e le leggi razziali in Italia, erano alquanto ospitali nei confronti della componente ebraica. Questo trattamento al limite tra il sogno e l’illusione, succedeva fino al 1941. Nel maggio del 1941 le autorità italiane chiusero i confini con l’NDH e le aree occupate, introducendo i visti per tutti i cittadini dell’ex Regno jugoslavo. Il prefetto di Fiume, Temistocle Testa, assieme al questore Vincenzo Genovese, erano particolarmente rigorosi nel respingere i fuggitivi, tali erano considerati, dall’NDH, e quindi, come diretta conseguenza, li estradavano alle autorità ustascia. Non ho le prove che i rifugiati siano riusciti a raggiungere l’Istria attraverso la provincia fiumana, né tantomeno l’Italia. Ho scoperto, invece, che tutte le autorità italiane, sia quelle della Prima Zona (aree annesse) che quelle della Seconda Zona (territori occupati), assieme a rappresentanti militari e diplomatici italiani, hanno attraversato un processo di ‘evoluzione’, hanno raggiunto una sorta di consapevolezza e anche sensibilizzazione per la terribile situazione degli ebrei nell’NDH. All’inizio avevano un rapporto ‘neutrale’ e indifferente per il comportamento degli ustascia, ma una volta venuti a galla gli sconvolgenti crimini, cambiarono il loro atteggiamento. Cercarono, nel limite delle possibilità, di permettere agli ebrei di rimanere, senza creare troppo astio nei rapporti con i loro alleati tedeschi, che comunque identificarono fin da subito il loro impegno e comportamento per la questione ebraica, quanto meno ambigui”.

Il ruolo del generale Amico e di Palatucci

“Lo storico israeliano Menahem Shelah, nato Zagabria nel 1939, dai ricordi di genitori che come rifugiati erano stati dislocati vicino a Ragusa, ha scoperto gli sforzi di soccorso di un soldato italiano: il generale Giuseppe Amico. Lo storico Shelah è convinto che il generale Amico nel 1943, dopo la capitolazione d’Italia e l’occupazione tedesca, sia stato fucilato dai nazisti perché permetteva il trasferimento degli ebrei in Italia, utilizzando la marina italiana, con l’auspicio che questi venissero salvati dagli Alleati. I documenti del servizio di Amico a Ragusa non esistono, quindi è impossibile verificare le affermazioni di Shelah. Secondo i rapporti ufficiali tedeschi, Amico fu fucilato dalle SS perché dopo la capitolazione dell’Italia si rifiutò di deporre le armi e continuò a resistere ai nazisti. Sorge spontanea la domanda di quanto Menahem Shelah abbia consapevolmente agito per ‘creare un mito’, a rendere grande l’opera del generale italiano, col fine di idealizzarlo? Non sarebbe certamente il ​​primo alto funzionario italiano che per il suo presunto impegno nel salvare gli ebrei perseguitati sia stato prima proclamato eroe, per poi incontrare gravi controversie e dubbi circa la sua attività. Uno degli esempi lampanti è quello del commissario italiano dell’ufficio stranieri della Questura di Fiume, Giovanni Palatucci, che è stato proclamato ‘Giusto tra le Nazioni’ per aver salvato numerosi ebrei. Però non molto tempo fa sono stati avanzati alcuni dubbi sulla corretta ricostruzione storica delle vicende legate alla sua figura, tanto che il Museo dell’Olocausto di Washington e lo Yad Vashem di Israele hanno iniziato a esaminare seriamente la nuova documentazione emersa per revocargli il titolo di ‘Giusto tra le Nazioni’”.

Quali sono le conclusioni a cui è giunta con la stesura del volume?

“Le conclusioni sono che il Regno di Jugoslavia condusse la stessa identica politica portata avanti da altri Paesi europei, in primo luogo occidentali, che chiudevano rigorosamente i confini, impedendo l’ingresso agli ebrei. Ciò accadeva mentre in tutta Europa erano ben risaputi la violenza, i soprusi, la spoliazione dei beni che gli ebrei subivano in Germania. Il timore della possibile rappresaglia tedesca per ‘intromissioni negli affari interni del Reich’ regnava in tutta Europa e quindi anche nel Regno di Jugoslavia, soprattutto dal momento che la Germania nazista, con i suoi territori occupati, confinava con il Paese jugoslavo. Le autorità jugoslave ostacolavano l’ingresso attraverso un caos amministrativo. Non si preoccupavano dell’aiuto agli ebrei stranieri, ma solamente della loro supervisione, finché non ottenevano un visto per Paesi terzi. La popolazione non ebraica rimase in gran parte indifferente, con l’eccezione di pochi, principalmente quelli che sapevano utilizzare la situazione per il proprio rendiconto. Commerciavano con loro e li trattavano in modo ospitale soprattutto quando si trattava di persone influenti che potevano pagare anche il più piccolo servizio. Ad approfittarne erano i trafficanti, i contrabbandieri, i falsificatori di documenti, le persone con ottime connessioni e altri individui grazie ai quali i profughi, per grossi importi di denaro, riuscirono ad ‘acquistare’ visti, documenti, lasciapassare e passaporti per tentare alla fine la fuga”.

Che cosa possiamo imparare dall’esodo ebraico degli anni ’30 e ’40 per aiutarci ad affrontare quello dei rifugiati di oggi?

“Penso che non possiamo imparare nulla. Già nel 1938, il Diritto Internazionale stentava a trovare soluzioni efficaci. Ancora oggi il diritto d’asilo non esiste. Non come un diritto umano fondamentale, ma come un diritto sovrano degli Stati che hanno il potere di assegnare lo status di rifugiato secondo i propri criteri. Neppure gli autori e specialisti di convenzioni internazionali in materia di status di rifugiati sono in grado di ottenere la giusta partecipazione dell’intera comunità internazionale a determinare il diritto d’asilo a specifici gruppi collettivamente perseguitati. La storia è maestra, ma non ha scolari”.

Secondo lei c’è un parallelismo?

“Un parallelismo tra la situazione del 1938 e quella di oggi indubbiamente c’è, soprattutto perché i profughi sono un fenomeno sempre più presente e variopinto. Nonostante l’idea di un’Europa senza confini, i politici continuano a ripetere i loro ritornelli: dobbiamo proteggere i propri confini. Non meno indicativo è un altro ritornello, spesso soggetto a variazioni, come ‘Deutschland über Alles’, America First, e da poco tempo a questa parte anche ‘Tutto per la Croazia’. Come cittadina austriaca provo vergogna per il piano europeo che il governo dell’Austria promuove intensamente. Ovvero ‘combattere l’immigrazione illegale’ e ‘sopprimere l’aiuto ai clandestini in mare’. Il nostro Cancelliere federale intende seriamente vietare la partenza di navi di soccorso nel Mediterraneo. Ecco perché ho scelto di unirmi ai cittadini austriaci che fanno parte dell’iniziativa ‘Aufstehn’ (Alzati!). I cittadini devono dimostrare che questa non è la loro politica; che non condividono questa politica disumana”.

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