RECENSIONE. Un percorso intimo e corale verso le proprie radici

«Confine. Viaggio al termine dell’Europa» di Kapka Kassabova è un reportage narrativo sulle storie vissute all’interno della storica Tracia

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RECENSIONE. Un percorso intimo e corale verso le proprie radici

Il viaggio fisico e mentale raccontato in “Confine. Viaggio al termine dell’Europa” da Kapka Kassabova, edito nel 2019 dalla EDT, è un reportage narrativo sulle storie vissute all’interno di un territorio ben circoscritto: la Tracia. E chi se la ricorda la Tracia? Forse pallidi ricordi di storia a scuola, e poi mai più. Ma quando avrete letto il libro della Kassabova, della Tracia saprete tutto. L’antica Tracia è un’ampia area geografica che si estende all’interno di Grecia, Bulgaria e Turchia, e che oggi è tagliata da tre confini più volte contesi che dividono e al contempo legano indissolubilmente i tre Stati. È una zona dove realtà, storia e leggenda si fondono talmente tanto da non capire dove finisca l’una e inizino le altre. Qui si sono incontrati e talvolta scontrati tre popoli diversi la cui terra è unica. Un intero universo di culture, lingue e religioni, in commistione e in contaminazione tra loro, è finito in dissoluzione.

 

 

L’ultimo Muro
È qui che inizia l’Europa e finisce qualcosa che non è più veramente Asia. L’autrice inizia il suo itinerario a partire dallo Strandža, un massiccio montuoso che all’epoca del Patto di Varsavia non era solo l’ultimo confine d’Europa, ma era anche l’ultimo Muro comunista. C’era, cioè, il Muro di Berlino e c’era quest’altro Muro che dalla Bulgaria si estendeva fino alla Finlandia. Questo secondo Muro, meno conosciuto, meno visibile di quel primo, era molto attivo, sia durante la guerra fredda, sia prima e sia oggi. Dal 1961 al 1989, migliaia di cittadini dell’Europa orientale hanno tentato di oltrepassare le barriere di filo spinato elettrificato considerando questa via più facile di quella berlinese. Ahimé! La Kassabova ha registrato un numero di 415 persone fra tedeschi, polacchi, bulgari, cecoslovacchi, ungheresi, ceceni, uccise e sepolte in fosse anonime lungo questo terribile confine.

 

Percorso popolato dai ricordi
È un viaggio intimo e corale verso le proprie radici, popolato dai ricordi che l’autrice prova per i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza. Sì, perché bisogna sapere che la Kassabova ha una storia personale con la Tracia. Nata a Sofia nel 1973, è emigrata con i genitori in Nuova Zelanda alla caduta del comunismo nel 1992, per poi trasferirsi nelle Highlands scozzesi, dove si è sistemata. Grazie alla forza affabulatoria e poetica della scrittura, essa trascina con sé il lettore e gli fa vivere un’esperienza di forte immedesimazione.
Seguiamola nel suo percorso. Si avanza tra panorami spogli, foreste ancestrali, montagne da capogiro, alte case di pietra simile a fortezze, una natura selvaggia, villaggi sperduti e semidisabitati, una serie di violenze della storia, scompaginata dalle crisi migratorie, dal comunismo, da due guerre mondiali, dall’Impero ottomano, da un’ancestrale eredità di miti e di leggende. Le persone che incontra fanno a gara per ospitare la viaggiatrice e in cambio desiderano solo che lei le ascolti perché ognuna ha una storia da raccontare. Sono autoctoni e fuggiaschi, guardie e ladri, pastori e militari, guardie forestali e contrabbandieri, monaci e veggenti, imprenditori e botanici, spie e cercatori di tesori, guaritori e adepti di riti magici. E non ultimi i fantasmi di confine, i migranti con i loro campi profughi, quelli che stanno dall’altra parte della frontiera con le loro sofferenze e le speranze da inseguire a costo della vita.

 

La voce dei vinti
Qui ogni persona è simbolo della sconfitta del suo tempo. È la voce dei vinti, delle tradizioni, dei miti, delle leggende e delle magie di una terra che ha dovuto resistere ai conflitti, alle guerre, agli spostamenti forzati, alle oppressioni e ai confini, la cui ideologia è la convinzione che «il centro del potere possa emettere ordini alla periferia nella totale impunità» lasciandola fuori dalla narrazione nazionale ufficiale che si scrive nelle capitali per definire l’unico io di una nazione. Esclusi dalla narrazione, i confini diventano spettrali, sono il lato oscuro della psiche collettiva, luoghi ambigui, labirinti indecifrabili. Ma tutta l’esperienza e la natura umana sono concentrate lungo la linea di demarcazione. Far finta che abbiano poco o nulla a che fare con l’io nazionale, conferisce a questo straordinario popolo di frontiera, così diverso, complesso e composito, una valenza ancora più forte.
L’autrice lo sente pervaso da una peculiare energia psichica irradiata dalla terra stessa. Qui c’è di tutto. Ci sono i discendenti delle popolazioni spostate con la forza dalla Turchia alla Bulgaria, o dalla Turchia alla Grecia, o dalla Grecia alla Turchia, all’insegna dei nascenti e pericolosi nazionalismi di inizio Novecento. C’è la minoranza dei pomacchi, bulgari di lingua, musulmani di religione, convertiti all’epoca dell’Impero ottomano e da un secolo guardati male da qualunque governo di Sofia. Ci sono i greci cacciati dal Ponto e finiti in villaggi di frontiera dopo la guerra greco-turca conclusasi nel 1922. Ci sono i migranti africani e mediorientali che dal triplice confine cercano di transitare in cerca di un’altra vita e di un domani migliore. E ci sono i passeur che li aiutano ad orientarsi lungo l’Evros, il mitologico fiume che segna la dura frontiera prima di sfociare nel Mar Egeo.

 

Groviglio culturale inestricabile
Di questo groviglio culturale inestricabile sono rimasti deboli segni che, sebbene abbiano provato in molti a distruggere, resistono ancora nelle moschee e nelle chiese ortodosse sui Rodopi e nelle città greche, turche e bulgare di Xanthi, Sufli, Kastanies, Kirklareli, Rezovo, Carevo, Edirne (già Adrianopoli e in bulgaro Odrin). Non sono state solamente le città a cambiare nome più e più volte, ma sono stati costretti a farlo, tre volte nella stessa vita, anche gli uomini e le donne, per poter continuare a lavorare, a coltivare i campi, ad allevare gli animali, ad abitare nelle proprie case, per poter continuare a vivere.
Nel mondo accademico c’è oggi una materia chiamata Border studies che studia i confini. È la narrazione delle periferie, fisiche, umane, geografiche, economiche, politiche, culturali. Gli Stati e i confini nazionali sono relativamente recenti. Tutta l’Europa continentale ha una storia di confine complessa, a volte traumatica, anche se la più estrema e recente è quella nei Balcani.

 

Identità fluide
Prima della formazione degli Stati, le “identità” erano più fluide, più regionali e locali che “nazionali”. L’identità di base proveniva dalla terra, dall’ambiente di vita, dal contatto stretto con la natura, con le tradizioni ataviche, con l’orgoglio familiare. Sono i luoghi che ci spezzano il cuore e le cose che amiamo che ci rendono ciò che siamo e, anche se sottoposti alla propaganda di Stato, invisi o non addomesticabili dal potere del momento, restiamo altro. “Tu sei ciò che ami, non necessariamente ciò che credi”, spiega la Kassabova. Cambiano i sistemi politici, cambiano i regimi, ma c’è una memoria collettiva che sopravvive. La sfida è quella di “continuare a ricordare ciò che amiamo, non ciò che temiamo, perché “i nuovi confini falliranno proprio come i vecchi e nel frattempo non renderanno il nostro mondo né più libero né più giusto”.

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