TRIESTE | Storie di vite intrecciate, storie di accoglienza e di lavoro congiunto, storie di prospettive con un unico titolo “Conoscere, condividere rispettando le differenze”, voluto dalla Casa delle Donne di via Pisoni a Trieste, supportato dalla Regione FVG per la sua lungimiranza e per la competenza messa a disposizione da una sessantina di mediatori di Interethnos onlus, partito nel programma Immigrazione del 2017.
Ora il ciclo si chiude con una mostra che s’inaugura oggi, visitabile dalle ore 17 alle ore 19, nella sede di via Pisoni 3, anche con la proiezione del video che racconta il lungo e importante cammino di un “progetto realizzato in diversi ambiti sociali e culturali volti al rafforzamento del dialogo interculturale e all’approfondimento delle conoscenze sui processi d’integrazione dei migranti”, come spiega la dott.ssa Melita Richter, responsabile scientifico del progetto, sociologa, saggista, anche poetessa, che domani guiderà la visita e che sta profondendo tantissima energia nel processo di conoscenza delle dinamiche dell’immigrazione, riguardanti in particolare donne e bambini.
Dott.ssa Richter, ci spieghi cos’è Interethnos e perché la sua attività sia così importante?
“Nasce nel 2000 come associazione di mediatori culturali, lavorando con la popolazione immigrata, in primo luogo con i bambini nelle scuole, per risolvere i problemi contingenti. Le attività sono tante, per tutte c’è la necessità della mediazione linguistica che certo non basta, altrimenti sarebbe fine a se stessa. Il nostro spazio è di carattere culturale, per far capire l’ambiente in cui questi immigrati vengono a trovarsi; c’è poi il vademecum sulla sanità, dove c’è bisogno di mediazione su ciò che è la malattia e su ciò che è la cura. E poi tribunale, questura e tutti quei luoghi in cui lo straniero s’interfaccia con il Paese, non conoscendo né la lingua e tanto meno le convenzioni”.
Perché è prioritaria la scuola?
“È stata la prima a sentire il bisogno di un appoggio specialistico, ci ha chiamati per fare soprattutto formazione. Da qui è nata l’idea di evolvere ad ampio raggio. La riflessione si è spostata quindi sulla collaborazione tra le varie associazioni che si occupano di queste problematiche, per tanto anche la Casa delle donne”.
Chi vi si rivolge?
“Donne immigrate, soggetti vulnerabili e le seconde generazioni. La scuola stessa frequentata anche da seconde e terze generazioni. L’ultimo progetto prevedeva l’intervento di tre mediatori che raccontano le fiabe nelle diverse lingue originali, un’esperienza fantastica, non solo per i bambini figli di immigrati ma anche per tutti gli altri che prendono contatto con gli idiomi del mondo. L’idea nasce da un libro di disegni dei bambini stessi. Ci volevano mezzi per finanziarlo, è stato fatto con il presente progetto che ci ha permesso di coinvolgere le scuole senza costi aggiuntivi. Dapprima si è svolto l’incontro con i dirigenti delle scuole per cercare soluzioni comuni alle problematiche esistenti. E poi siamo entrati nelle classi, compresi i licei e le scuole professionali. Il progetto ha dato splendidi risultati. La mostra è un modo per fermarci a riflettere anche sulle preziose testimonianze dei ragazzi”.
Quando si parla di immigrazione l’immaginario disegna situazioni di invasione selvaggia e senza controllo. La vostra esperienza porta ad altre riflessioni.
“Ogni individuo è un caso a sé, ci sono nelle nostre scuole ragazzi non accompagnati, che al compimento dei 18 anni saranno rimpatriati. Altri, arrivati da poco, ci stupiscono per la velocità con cui apprendono la lingua, alcuni sono stati in grado di superare due anni in uno. E poi ci sono le donne, che rimangono a casa mentre i mariti lavorano; è fondamentale permettere loro di mantenere dei contatti sociali anche al di fuori del loro mondo. Ecco che vengono accolte dalla Casa delle Donne per conoscere il Paese d’accoglienza ma anche le esperienze delle altre donne. Organizziamo serate all’Opera, il 6 giugno a bordo del Delfino Verde abbiamo raggiunto i laboratori dell’immaginario scientifico via mare. Per donne e figli piccoli è stata un’esperienza incredibile, erano entusiaste. Per loro organizziamo corsi di lingua ma anche momenti di dialogo. Nell’ambito del progetto ci eravamo prefisse di parlare del rapporto intergenerazionale, per scoprire che nessuna di loro aveva conosciuto i nonni e molte neanche i genitori, uccisi o scomparsi prima che ne avessero coscienza. Difficile parlare del concetto di casa. Ma ci siamo accorti che le persone che provengono dall’Africa conoscono la nostra geografia, la storia e la letteratura ma non viceversa”.
Ci sono tratti comuni tra gli immigrati di diversa provenienza?
“Nel corso dei laboratori volevamo dare un’occasione a queste persone di evolvere dalla lingua alla realtà del luogo attraverso la ricerca di similitudini. La festa degli aquiloni, per esempio, è un simbolo comune che viaggia a diverse latitudini. Molte separazioni le vivono qui, nella nostra società, dove tutte le realtà finiscono in un unico calderone. Alle donne chiediamo di esprimere le loro attitudini, ne sono nati concerti e momenti di poesia, l’analisi del cibo e dei riti della tradizione. Abbiamo cantato e danzato, una gioia infinita”.
Perché tutto ciò non traspare nel mondo della comunicazione?
“Il bello non fa notizia. Qualche volta si accenna alla protezione prostitute, su cui preferiamo sottacere per non metterle in difficoltà con i racket che le stanno cercando”.
Che cosa spera, quale evoluzione?
“Vorrei poter continuare. Purtroppo a volte i bandi regionali non prevedono automatismi temporali, anche quando i progetti hanno successo e sono necessari. Ci sono tante associazioni che combattono per reiterare il loro impegno, vedi Luna e l’altra per le donne con disturbi psichici, e altre ancora”.
Cosa si può fare?
“Vi affido questa testimonianza di Artbesa Hoxhaj, svela tanto di noi e credo risponda a questa domanda e a tante altre…”
Le «Seconde generazioni»
“Vi racconto la mia integrazione. Attraverso queste immagini che raccontano il mio percorso dall’arrivo in Italia, nel 1994, voglio spiegarvi cosa siamo noi ragazzi e ragazze della seconda generazione di immigrati. È un percorso fatto inizialmente da traumi, paure, tristezza, nostalgia, rabbia, vuoto e perdita. Tutte emozioni che un bambino di tre anni non riesce a spiegarsi, ma le prova dentro di sé, tanto da portarsele dietro per sempre. Queste emozioni che qui erano così difficili da superare perché fatte di sofferenza, una volta che facevo ritorno al mio paese di origine, il Kosovo, si trasformavano in tranquillità, sicurezza, felicità, ritrovamento di ciò che avevo perso, cioè una parte della mia infanzia, delle mie prime scoperte. Il mio è stato un lento percorso di integrazione, ma è giusto che sia così per potersi abituare al cambiamento e consolidarlo… Noi ragazze/i delle seconde generazioni siamo un mix di aspettative da soddisfare, sogni da realizzare, cambiamenti da portare avanti e battaglie da combattere indirettamente, perché impossibili da vincere nel proprio suolo. Questo ci rende a volte sensibili o incerti, perché abbiamo convissuto con il nostro dolore e quello dei nostri genitori nel lasciare i cari e le nostre culle e, credetemi, non è semplice, ma allo stesso modo ci dà tanta carica perché ci è stata data un’occasione di cambiamento e miglioramento…
Il mio consiglio per i giovani figli di immigrati sarebbe: non lasciatevi intimorire dalla diversità di culture in cui vi siete trovati, lasciatevi attraversare da tutto ciò e assaporatene la bellezza. Le vostre e le mie origini non scappano, rimangono lì, ci sono ogni volta che ne avrete voglia e bisogno per consolarvi e per sentire il calore di casa”.
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