
Tra le mura fastose del Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc”, sabato sera è risuonata la voce immortale di Maria, eco di un sentimento che sfida il tempo, nella messa in scena fiumana di “West Side Story”. La regia e coreografia di Leo Mujić, in collaborazione con Music Theatre International, ha saputo restituire con intensità l’anima drammatica e musicale di questo capolavoro. Al suo fianco, Bálint Rauscher, in veste di drammaturgo e assistente, ha diretto con finezza il flusso emotivo della narrazione, cesellando momenti di precisione e profondità.
Tragedia urbana e mito sociale
Contrasti laceranti come l’amore che sfiora la morte, l’amicizia che sfuma nella rivalità, la leggerezza del ballo che scivola nella violenza, il desiderio che si infrange contro la disillusione: su queste polarità si costruisce l’intelaiatura emotiva e tematica del celebre musical, caposaldo assoluto del teatro musicale del ventesimo secolo. Frutto del genio congiunto di Leonard Bernstein per la musica, Stephen Sondheim per i testi, Jerome Robbins per l’idea originale e Arthur Laurents per il libretto, l’opera del 1957, resa immortale anche dal film del 1961 con Natalie Wood e Richard Beymer e dal recente remake firmato Spielberg, prende ispirazione dal “Romeo e Giulietta” di Shakespeare, rinnovandone i significati. Ambientata nell’Upper West Side degli anni Cinquanta, tra tensioni etniche e conflitti giovanili, questa tragedia moderna disegna un mondo che si specchia inquietamente nel nostro. Tony e Maria, anime in collisione, si incontrano su un terreno lacerato da pregiudizi e rancori. L’amore che li unisce nasce nonostante tutto, si accende in un ballo e sboccia su una scala antincendio, che da spazio urbano anonimo si trasfigura in balcone sacro. Lì, in quel frammento di eternità, il sentimento si fa resistenza, diventa luce che taglia le ombre, divampa in un mondo che ancora non sa come accogliere la differenza.

L’urgenza del sogno
La paura attraversa ogni figura sulla scena, guida le scelte, alimenta l’aggressività, disegna le distanze. Paura di essere spogliati della propria identità, di perdere spazio e voce, di cedere alla presenza dell’altro. Ma è proprio questo timore che, a tratti, si rovescia in consapevolezza. Tony e Maria trovano nel loro legame una forza che li solleva, che permette loro di immaginare un altrove possibile. Il brano “Somewhere”, intonato con struggente chiarezza, si innalza lieve come un sospiro trattenuto, attraversato da esitazione e desiderio, custodendo una speranza fragile, sospinta tra la realtà presente e l’eco di una dimensione ancora da immaginare. La gioventù che si muove sul palco è intrappolata in ruoli imposti, vittima di un sistema che la spinge a perpetuare scontri e silenzi. I membri delle due bande non sono altro che adolescenti smarriti, privati della possibilità di scegliere, costretti a combattere battaglie che, forse, non appartengono loro. Le danze e i combattimenti si intrecciano a vite in cerca di senso, affamate di ascolto, di riconoscimento e dignità.
Quando la scena respira
L’opera travolge per intensità e fluidità narrativa, mantenendo alta la tensione scenica senza mai cedere alla staticità. I cambi scena, rapidi e ricchi d’incanto visivo, fanno da cornice alle coreografie travolgenti di Leo Mujić, esplosione di energia e raffinatezza, esaltate dagli splendidi costumi di Manuela Paladin Šabanović, i cui colori tracciano vivide linee temporali e culturali. La scenografia mobile, firmata da Stefano Katunar e Aleksandra Ana Buković, dà corpo a una New York brumosa e malinconica, resa palpabile dalle luci giallastre e dense di Aleksandar Čavlek. Le summenzionate scale antincendio, simbolo iconico dei block newyorchesi, si aprono come quinte silenziose su danze che tramutano la violenza in poesia fisica, in un intreccio ipnotico di grazia e conflitto.
Il suono delle emozioni
Sotto la direzione di Valentin Egel, l’Orchestra sinfonica fiumana è diventata presenza viva, organismo che respira, si muove e racconta. Gli ottoni hanno inciso i momenti più tesi, le percussioni hanno guidato le coreografie con decisione, mentre gli archi hanno disegnato paesaggi emotivi nelle scene più intime. La direzione del Maestro ha colto ogni sfumatura della partitura bernsteiniana – l’ironia, la sensualità, la rabbia, la malinconia – trasformando la musica in linguaggio della scena, parte integrante del dramma. Le melodie, oltre ad accompagnare, sono diventate emozioni, frasi, sussurri, grida.
Presenze, voci, corpi in armonia
Il cast, composto da circa quaranta performer, ha offerto una prova corale coinvolgente e ben strutturata. Lorena Krstić, Aurora Cimino e Serena Ferraiuolo, nei ruoli delle ragazze degli Sharks, hanno incantato per vitalità scenica e forza vocale, in particolare nel numero “America”, esplosione di energia e desiderio di emancipazione, sospeso tra ironia e realtà. Accanto a loro, Ksenija Krutova, Sephora Ferillo e Marta Kanazir hanno arricchito con eleganza e intensità le dinamiche del gruppo femminile, rendendo ogni movimento danza, ogni gesto racconto. Tra le ragazze dei Jets si sono distinte Sonja Milovanov, Yurika Kimura, Laura Orlić e una splendida Tea Rušin, capace di rendere con profondità il ruolo della giovane “bella e stupida”, presenza spesso stereotipata ma qui restituita con spessore e credibilità.
Maria e Tony, Anita e Bernardo
Nel ruolo di Tony, Damir Kedžo ha offerto una prova di grande sensibilità: il suo timbro delicato e l’approccio sincero hanno conferito al personaggio umanità e coraggio. Katarina Margaretić ha incarnato una Maria luminosa e dolce, dalla voce intonata e limpida. Pur mantenendo una linea interpretativa coerente, avrebbe potuto spingersi oltre nei momenti più drammatici, dove l’emozione si è talvolta attenuata in favore di una purezza esecutiva. Tuttavia, il duetto con Kedžo ha raggiunto una tenerezza intima, capace di commuovere. Franka Batelić Ćorluka ha dato vita a una Anita carismatica e complessa, donna combattuta tra fedeltà, amore e delusione. La sua interpretazione, sorretta da una vocalità perfettamente accordata alla scrittura di Bernstein, ha donato alla scena una presenza incisiva e toccante. Ivan Čuić ha conferito a Bernardo fisicità e intensità, rendendolo credibile nel ruolo del fratello protettivo e del leader spinto a difendere un’appartenenza continuamente messa in discussione.

Anime ai margini
Deni Sanković, Petar Baljak e Stefano Iagulli hanno delineato con precisione le tensioni interne al gruppo degli Sharks. Nei Jets, Devin Juraj (Riff) ha offerto una prova scenica solida, energica, ben calibrata, pur con una vocalità un po’ contenuta. Dino Antonić, Andrea Tich, Filip Sever, Dario Dugančić, Dorian Stipčić e Mario Jovev hanno raccontato una banda credibile, animata da rabbia, sarcasmo, giovinezza inquieta. A loro volta, i ballerini (Isabelle Zabot, Alessia Tacchini, Benjamin Cockwell, Giorgio Otranto, Giovanni Liverani, Samuele Taccone, Ali Tabbouch, Jody Bet, Federico Rubisse e Leonard Cela), sempre brillanti, hanno animato la scena coreutica con grande coesione e forza espressiva, mentre Elena Brumini ha vestito i panni di Anybodys, personaggio liberamente ispirato a Baldassarre, con una delicatezza struggente. La sua interpretazione ha restituito l’inquietudine e la sete di appartenenza di chi vive ai margini, dando voce a chi spesso rimane invisibile. Lovro Matešin e Marijan Padavić, nei ruoli dei poliziotti Shrank e Krupke, hanno ben espresso la distanza di un’autorità incapace di ascolto, mentre Giuseppe Nicodemo ha portato leggerezza e ironia al personaggio di Glad Hand. Infine, Denis Brižić ha portato sul palco un Doc (in cui si riconoscono i tratti del frate Lorenzo shakespeariano), segnato dalla stanchezza e dall’empatia, osservatore silenzioso di un dramma che si ripete, nonostante i suoi tentativi di mediazione e cura.
Epifania dell’umano
Il pubblico ha risposto con una standing ovation lunga e intensa, che ha dipinto il teatro di gratitudine e stupore. In questa versione, “West Side Story” si spoglia del mito per restituirci qualcosa di più vicino, più vero, tradotto in un’umanità imperfetta, vulnerabile, che inciampa e ama con la stessa intensità con cui teme. È in questa fragilità che si rivela la bellezza più profonda, quella che ci accompagna, anche nel dolore. E alla fine, ciò che resta non è una morale, ma un sentimento silenzioso, che parla di ciò che potrebbe essere, se solo imparassimo a riconoscerci nell’altro.

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