Professione reporter. Il modo di fare giornalismo oggi

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Professione reporter. Il modo di fare giornalismo oggi

FIUME | “Il giornalismo militante nell’Italia contemporanea” e “Scrivere le migrazioni nell’Italia contemporanea” sono le lezioni dei Dipartimenti di Italianistica delle Facoltà di Lettere e Filosofia di Fiume e Zagabria, realizzate nell’ambito del progetto altrestorie/otherstories, coordinato dall’Università degli studi di Trieste e finanziato dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia. I temi saranno affrontati rispettivamente – oggi, nell’Aula 501 della Facoltà di Lettere e Filosofia del Campus universitario, con inizio alle ore 12, e domani, nell’Aula del consiglio della Facoltà zagabrese, alle ore 16 – dal giornalista, blogger e documentarista italiano, Gabriele Del Grande, tra l’altro arrestato in Turchia nel 2017 mentre si trovava a realizzare delle interviste a dei profughi siriani per il suo ultimo libro “Dawla. La storia dello Stato islamico raccontata dai suoi disertori” (Mondadori, pp.612, 19 Euro).

Del Grande racconterà del suo lavoro, quello di reporter e di giornalista freelance, dei suoi viaggi, dei suoi incontri, delle difficoltà di questo mestiere ma anche della sua grande passione. Del Grande è stato l’ideatore e co-regista del film “Io sto con la sposa” (2014), premiato a Venezia e distribuito in cinquanta Paesi. Nel 2006 ha fondato l’osservatorio sulle vittime delle migrazioni Fortress Europe e da allora non ha mai smesso di viaggiare nel Mediterraneo pubblicando reportage su numerose testate italiane e internazionali. E in occasione delle due lezioni, l’abbiamo raggiunto per porgli alcune domande.
“Sono stato invitato in diverse Università in Friuli, Slovenia e Croazia assieme ad altri ospiti del progetto altrestorie/otherstories curato da Sergia Adamo e Giulia Zanfabro – esordisce Gabriele Del Grande –. Si tratta di incontri che spaziano dalle arti visive alla musica e dalla letteratura al giornalismo. Al centro della nostra attenzione ci sono le storie e le narrazioni legate all’esilio, alle migrazioni contemporanee, ma anche ai conflitti e, nel mio caso specifico, alla mia ultima inchiesta sullo Stato islamico in Siria (Isis)”.

Che cosa significa fare giornalismo militante oggi?

“Il giornalismo dovrebbe essere di per sé militante, se per militante intendiamo un giornalismo mai asservito al potere, critico con i luoghi comuni e le narrazioni egemoni, impegnato a far emergere nel discorso pubblico le cause dei vinti e dei soggetti più marginali, e allo stesso tempo attento a non cadere nella trappola dell’autocensura e del militantismo. Perché la ‘militanza’ di certo giornalismo può anche rivelarsi una trappola laddove allo spirito di ricerca proprio di ogni inchiesta si sostituisca uno spirito di autocensura dettato dal politicamente corretto o dal timore del giudizio del pubblico. A me piace parlare di giornalismo di ricerca più che di giornalismo militante. Nella mia ultima inchiesta durata due anni e costatami due settimane d’arresto in Turchia, ho raccontato la storia dello Stato islamico (Isis) andando a incontrare i latitanti che ne hanno fatto parte ai massimi livelli. A spingermi non era certo una forma di empatia per i carnefici, né una militanza di qualche sorte. Bensì il genuino gusto per la ricerca, la ricerca di una narrazione difficile e scomoda che potesse in qualche modo rispondere a quelle domande inevase che ci eravamo tutti posti all’indomani degli attentati in Europa, ovvero le ragioni della crescita di quell’organizzazione terroristica. Per me giornalismo militante è questo. La definirei una militanza della ricerca. E guardate che nel mondo di oggi i principali nemici della ricerca non sono i poteri forti bensì i pensieri deboli, la mediocrità e l’autocensura”.

Lei è reporter e giornalista freelance. Ha visitato diverse zone di guerra ad alto rischio e spesso da solo senza alcune protezione?

“Ho lavorato in tre zone di guerra: in Libia, Siria e nel Kurdistan iracheno. Non mi definirei tuttavia un reporter di guerra. Sia perché non ho coperto l’intero sviluppo di quei conflitti, sia perché sono sempre stato più attratto dalle storie che non dalle cronache militari del fronte. Poi i rischi uno li corre comunque perché ti trovi in territori sotto continui bombardamenti, impari a riconoscere il fischio delle pallottole dei cecchini sopra la testa, ti abitui a convivere con la presenza continua della morte. Io mi sono sempre mosso da freelance viaggiando in mezzo alla gente e appoggiandomi non alle milizie in guerra ma a gruppi di attivisti civili impegnati sul posto. Quando alle spalle non hai una redazione, i tempi di lavoro molto spesso si allungano, ma non è tempo perso. Al contrario è un tempo ricco di storie. Perché le storie emergono dalle relazioni e le relazioni richiedono tempo e condivisione per maturare un rapporto di fiducia. Dopodiché il mio continuare a lavorare da freelance, in modo indipendente, non è necessariamente una scelta ma anche una mancanza di alternative. Da anni il giornalismo italiano investe poco o niente sugli esteri, con l’eccezione dei pochi e ormai anziani corrispondenti delle grandi testate a cui fanno da contraltare decine di giovani freelance che nonostante la preparazione talora eccellente vengono tenuti sotto un regime di sfruttamento e precariato che spesso finisce per allontanarli da questo mestiere. In tutto questo io godo del privilegio di riuscire a finanziare i miei lavori da ormai cinque anni con il crowdfunding, raccogliendo cioè online i fondi necessari alle mie ricerche attraverso quelle che sostanzialmente sono delle prevendite dei miei film e dei miei libri”.

Nasce così anche il suo ultimo libro “Dawla. La storia dello Stato islamico raccontata dai suoi disertori”. Di che cosa parla?

“Si tratta di un’inchiesta giornalistica che racconta la storia dell’ascesa e dell’apparente caduta dell’Isis in Siria attraverso le parole di chi ne ha fatto parte ai massimi livelli, ovvero all’interno dei servizi segreti di quell’organizzazione. Ho impiegato due anni di lavoro per incontrare alcuni ex-affiliati oggi latitanti in Turchia disposti a raccontarmi quello che sapevano. Il risultato è un libro che intreccia le loro storie di vita, le loro biografie, le loro memorie, alla storia più grande del conflitto siriano, del movimento globale del jihad e delle trame dei servizi segreti giocate sulla pelle di mezzo milione di siriani caduti in quel conflitto fino a oggi. È un libro che si legge come se fosse un romanzo, con un taglio narrativo e non saggistico, dove la mole di informazioni che ho raccolto è spalmata sui racconti dei singoli. L’obiettivo è fare chiarezza su un tema, l’Isis, di cui si è parlato tantissimo senza che però si sia riusciti a fare un quadro storico di quanto avvenuto”.

Come vive il mestiere di reporter e giornalista freelance?

“Per me è un privilegio poter viaggiare nei luoghi dove si scrive la storia contemporanea e riportare a casa le storie che mi vengono affidate dalle mie fonti. È un privilegio perché mi permette di coltivare tanto la mia curiosità quanto la mia umanità. In questi anni di viaggi ho imparato lingue, divorato libri e ascoltato migliaia di storie”.

Essere repoter freelance in zone di guerra è un mestiere pericoloso. Ha paura?

“In guerra hai paura soltanto la prima volta che vedi la morte in faccia. Poi scattano dei meccanismi di distacco, di protezione, quasi fossi un sopravvissuto. Alla paura si sostituisce una strana forma di lucidità. Anche se poi a volte la paura torna a trovarti, come un fantasma, ma sempre lontano dalle terre dove l’hai conosciuta. La ritrovi quando meno te l’aspetti. Nelle terre dell’esilio, della lontananza e della solitudine”.

Quanto si sente di consigliare il mestiere di reporter e quello di giornalista freelance ai giovani?

“Ai giovani sconsiglio caldamente di fare questo mestiere, almeno in Italia, dove il mercato dell’informazione è saturo e non ha niente da promettere ai giovani, almeno fino a quando non si svecchieranno le scuderie con il pensionamento della generazione che occupa le redazioni da alcuni decenni. Allo stesso tempo però spero che i giovani non mi ascoltino. Perché questo rimane un lavoro bellissimo. E perché anche in quelle condizioni di sfruttamento e precarietà, se uno ci mette del suo riesce ancora a dare un senso a questo mestiere. Insomma i giovani si buttino nella mischia ma soltanto se sono pronti a lottare”.

Fortress Europe è il suo blog, sito personale, ma anche la cronaca costante dei suoi viaggi, che in generale sono viaggi di frontiera nel Mediterraneo. Ha realizzato diversi reportage e volumi sui profughi e le guerre. Secondo lei quanto c’è da avere paura delle immigrazioni che interessano l’Europa?

“L’Europa non ha paura dell’immigrazione. L’Europa ha paura dell’immigrazione africana e arabo-musulmana. Nessuno a Bruxelles, a Roma o a Berlino teme l’immigrazione dai Balcani o dall’Est Europa. La prova è negli accordi di libera circolazione che in questi anni sono stati sottoscritti dall’UE con buona parte dei Paesi dei Balcani, con i nuovi Stati membri dell’UE e con i Paesi dell’Est Europa. È stata fatta una scelta politica. Appurato che la popolazione europea invecchia e che l’economia ha bisogno di importare lavoratori a basso costo per mantenere gli standard di crescita economica, l’UE ha scelto di andarsi a prendere quei lavoratori a est e di chiudere i suoi confini a sud. Quello a cui assistiamo in frontiera con gli sbarchi e i morti in mare è la conseguenza di queste scelte politiche. Fino agli anni Novanta dall’Africa si viaggiava in aereo verso l’Europa e non sui barconi. Da quando l’UE ha iniziato a bloccare il rilascio dei visti di viaggio, da quel continente gli emigranti hanno iniziato a bussare alle porte delle mafie libiche del contrabbando. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se esiste una soluzione sta nel riaprire i canali legali di mobilità e non nel costruire altre prigioni oltremare. Nel mondo di oggi la mobilità internazionale dovrebbe appartenere alle possibilità di ogni essere umano”.

Tra i tanti profughi ci sono ex combattenti o cellule militari dormienti dell’Isis? Militari che possono rappresentare una sorte di minaccia?

“La storia è nota, sebbene i media abbiano ingigantito l’allarme. L’Isis ha infiltrato alcuni suoi agenti segreti, tra cui addestratori, esperti di esplosivi e combattenti esperti di guerriglia urbana, sulle rotte del contrabbando verso l’Europa. È accaduto fra il 2014 e il 2017. Quando in Libia esistevano dei territori controllati dall’Isis e dei basisti nelle varie città. Non conosciamo i numeri, ma si stima siano nell’ordine di alcune centinaia di persone a fronte di oltre un milione di profughi giunti in Grecia e in Italia in quegli anni. I servizi segreti di mezza Europa temevano un grande attentato su vasta scala alla fine del 2017 come reazione di vendetta alla caduta di Raqqa e Mosul e dunque la sconfitta militare dell’Isis in Siria e in Iraq. Non è accaduto niente, ma rimane un fitto mistero su chi siano gli agenti infiltrati dall’Isis in Europa, dove si trovino al momento e se siano in attesa di ricevere ordini o semplicemente se l’organizzazione non sia più in grado di colpire l’Europa”.

Nell’aprile del 2017 è stato rinchiuso in Turchia. Ha mai scoperto il perché della carcerazione. Quali erano le accuse? Che cosa le ha lasciato l’esperienza delle carceri turche?

“Mi ha lasciato fondamentalmente due cose: un rinnovato amore per la libertà e un’ancora maggiore simpatia per i tanti cittadini turchi, siano essi giornalisti o professori, studenti o avvocati, che stanno pagando con il carcere la loro opposizione alla deriva autoritaria che conosce quel Paese dopo il fallito colpo di stato dell’estate del 2016. Formalmente non mi è mai stata contestata alcuna accusa, né è stato concesso ai miei avvocati di avere accesso agli atti del mio fascicolo. È evidente che i sospetti dei servizi segreti turchi ruotassero intorno al mio lavoro. È probabile che fossi finito sotto la loro lente già dai precedenti viaggi in Turchia, almeno cinque nell’anno precedente al fermo. E il fermo è avvenuto in una cittadina lungo la frontiera fra Turchia e Siria, a Reyhanli. Quella è terra di contrabbandi, mafie e servizi segreti. Da lì passano in Siria le armi degli insorti controllati dalla Turchia, da lì entrano ancora jihadisti diretti sul fronte e da lì negli anni sono entrati in Siria petrolio e opere d’arte trafugate, venduti sul mercato nero per ingenti somme di denaro. Insomma in quella zona non erano graditi occhi di giornalisti indipendenti. Fossero essi turchi o europei. Anche durante i ripetuti e quotidiani interrogatori, le domande vertevano proprio su questo: su cosa fossi andato a fare in quella provincia, su chi avessi incontrato e su cosa avessi scoperto. Chi di voi avrà modo di leggere il mio libro capirà meglio a che cosa mi stia riferendo, ovvero ai rapporti fra Isis e servizi segreti turchi e non solo”.

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