«Porto delle diversità… non come slogan, ma come destino!»

Alla Comunità degli Italiani di Fiume è andata in scena la première dello spettacolo «Fiumani: europei per tradizione e un po’ per forza» del Dramma Italiano

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«Porto delle diversità… non come slogan, ma come destino!»
Foto Roni Brmalj

Sabato sera, nel Salone delle feste di Palazzo Modello, gremito in ogni ordine di posti, alla presenza dei presidenti delle Comunità degli Italiani di Fiume e Abbazia, rispettivamente Enea Dessardo e Sonja Kalafatović, del presidente del Consiglio della minoranza nazionale italiana della Regione litoraneo-montana, Mauro Graziani, della vicecaporedattrice del nostro quotidiano, Ivana Precetti Božičević e di un pubblico attento e partecipe, è andata in scena la prima della lezione-spettacolo “Fiumani: europei per tradizione e un po’ per forza”, firmata da Vanni D’Alessio, Mirko Soldano e Filip Jeglinski. Ambientato nella città di Fiume, il testo si interroga sulla sua natura di crocevia di popoli, lingue e culture, portando sul palco un universo complesso, dove passato e presente si sovrappongono in un continuo dialogo. Già il titolo è una dichiarazione d’intenti, in quanto essere europei, qui, non è solo un’adesione culturale, ma una condizione storica ineludibile, forgiata dal susseguirsi di imperi, regimi, confini e rivoluzioni. Il capoluogo quarnerino, oscillante tra identità nazionali diverse, incarna un’appartenenza che non è scelta, ma destino: non si è solo parte dell’Europa, si è Europa.

Il giornalista in un mosaico di culture

A guidare il pubblico in questo dedalo di storie e memorie è il giornalista italiano Beppe Fattaccio (un convincente Giuseppe Nicodemo), inviato a Gorizia per raccontare il progetto culturale GO! 2025 e, per un banale errore, ritrovatosi invece a Fiume. Il suo spaesamento iniziale è quello di chi si aspetta di trovare una città in fermento e si ritrova invece immerso in un paesaggio di contrasti tradotto in un porto silenzioso, navi container, gru arrugginite, il sapore di salsedine nell’aria, il volo scomposto dei gabbiani, gli scalini di Tersatto e una città in perenne cantiere. Ma il disorientamento geografico è solo la superficie di un altro più profondo: Fattaccio si confronta con un luogo che sfugge a definizioni nette, una realtà che si sottrae a ogni semplificazione ed etichetta univoca. La sua progressiva immersione e decifrazione di questa identità cangiante avviene attraverso la figura del professor Vanni D’Alessio e di un gruppo di studenti del Campus universitario di Tersatto, interpretati con vivace autenticità dagli attori Andrea Tich (Andrea), ironico e disincantato, Aurora Cimino (Aurora), siciliana di Carrapipi che si scopre più fiumana dei fiumani stessi, Mirko Soldano (Mirko), il coinvolgente studente fuori corso, nonché i versatili Dorian Mataija, Sandro Ferletta, Filip Jeglinski e Jan D’Alessio, di cui ognuno incarna una sfaccettatura del mosaico culturale fiumano. L’intuizione di fondere artisti e connazionali dona allo spettacolo una straordinaria naturalezza, trasformando la scena in un appassionante intreccio tra teatro e vita, in cui ognuno interpreta sé stesso e gli altri, in un gioco di scambi e sostegni reciproci, carico di autenticità ed entusiasmo. Emblematica la scelta di affidare a Jan il ruolo del padre-professore: un raffinato cortocircuito teatrale, ironico ed emozionante, dove il sapere si tramanda in scena e nella vita.

La multiculturalità come filo conduttore

Cuore pulsante della pièce è il concetto di multiculturalità, non inteso quale slogan retorico, ma come esperienza vissuta, incorporata nelle pietre delle strade, nei suoni della lingua, nei gesti della quotidianità. Fiume è raccontata come città di confine, in bilico tra orizzonti che si intersecano, al pari di Bratislava, Leopoli, Teschen e altre realtà sospese tra culture. Qui, da sempre, si arriva da ogni direzione, “dall’Istria, dal Gorski kotar, dalla Dalmazia, dalla Stiria, dalla Carniola, dal Veneto, dalle Marche, perfino dalla Galizia!”, da Occidente e da Oriente. Attraverso un raffinato gioco teatrale di voci e citazioni storiche, lo spettacolo restituisce il multilinguismo e la stratificazione culturale della città: il dialetto fiumano, cerniera tra italiano e croato, l’influenza ungherese nel periodo del Corpus Separatum, la convivenza tra italiani, croati, tedeschi, ungheresi, sloveni ed ebrei. Non una fredda narrazione accademica, ma un racconto che prende vita nei dettagli della quotidianità, quali i giochi di strada dove le lingue si fondono senza sforzo, nelle chiassose partite di tressette e briscola nelle osterie, nel “far fraja” degli operai del Silurificio, degli scaricatori del porto, dei piccoli bottegai.

Il custode della memoria

Uno degli artifici più avvincenti dell’opera è la trasformazione del palco in un’aula universitaria, dove la lezione si fa teatro e il teatro si fa lezione. Il giornalista diventa involontariamente allievo del professore, il quale, con sapiente ironia, lo guida attraverso documenti, racconti e testimonianze. Ma non è una lezione frontale, in quanto gli studenti interagiscono, il pubblico è coinvolto, le certezze si sgretolano e i concetti di confine, identità e convivenza vengono continuamente messi in discussione e rielaborati. Vanni D’Alessio, nei panni di sé stesso, è il narratore implicito, il custode della memoria e il mediatore del sapere, regista invisibile che orchestra la narrazione e sfida il pubblico a guardare la storia con occhi nuovi. Non è un accademico distaccato, ma un maestro di cerimonia, provocatorio e brillante, che non si accontenta di trasmettere nozioni, bensì pone domande, sovverte le attese, costringe gli spettatori a ridefinire le proprie prospettive. Il suo ingresso è teatrale, quasi rituale, e la sua lezione non è semplice didattica, ma una riflessione sulla storia come narrazione condivisa, in continua negoziazione. In questo senso, il suo personaggio richiama la figura del socratico, che non impone verità, ma le fa emergere attraverso il confronto e il dialogo.

Raffinato meccanismo di sovrapposizione

Nel gioco scenico dello spettacolo il professore si distingue per un tratto tanto peculiare quanto significativo: la prosopagnosia, un disturbo neurologico che gli impedisce di riconoscere i volti, ma dietro all’apparente limite (che potrebbe sembrare un mero espediente comico) si cela invece un sottile dispositivo drammaturgico. Il volto, solitamente emblema dell’individualità, qui si dissolve, lasciando spazio a un’identità che si definisce attraverso il nome, la memoria, la stratificazione culturale e ogni personaggio diventa, anche solo per un istante, il riflesso di chi lo ha preceduto, evocando un’idea di identità in perpetua rielaborazione. Così, quando scambia il giornalista per Velid Đekić, Andrea per Osvaldo Ramous, Nedjeljko Fabrio, Dragutin Hirc e Nikola Polić, Mirko per Ladislao Mittner, Sandro Ferletta per Irvin Lukežić, Dorian Mataija per Nikola Petković o Jan D’Alessio per Vanni D’Alessio, la gag si trasforma in un raffinato meccanismo di sovrapposizione tra passato e presente.
A rendere ancor più vivido l’intreccio è la straordinaria capacità di D’Alessio di muoversi con disinvoltura tra italiano, dialetto fiumano, croato e ungherese, dove ogni lingua non è solo un codice comunicativo, ma un ponte, un simbolo di continuità e contaminazione e in un contesto in cui “anche el più mona parla quattro lingue”, il suo rapporto con il multilinguismo è un costante interrogativo sull’identità linguistica stessa. Quando interroga gli studenti sulle lingue ufficiali di Fiume e sul loro uso pratico, li pone di fronte a un paradosso storico: l’italiano, lingua amministrativa sotto gli Asburgo, non era parlato da tutti; il croato, diffuso tra la popolazione locale, non godeva dello stesso status; l’ungherese, lingua dello Stato, era presente, ma minoritaria nella vita quotidiana. Attraverso questo continuo scambio di ruoli, nomi e lingue, la lezione del docente, come già accennato, si fa teatro nel teatro, invitando il pubblico a interrogarsi su cosa significhi davvero riconoscere qualcuno, o qualcosa, nel fluire della storia.

Il tema del confine

Nel corso della sua lezione D’Alessio scompone altresì il concetto di confine, mostrando come Fiume sia stata “contesa, mista, fluida”, e in tale contesto evoca epoche in cui gli abitanti della città passavano senza problemi dalla Croazia all’Istria, da Fiume a Sušak, dal Corpus Separatum all’Impero Austro-Ungarico. Ma con l’avvento dei nazionalismi, lo stesso si indurisce, fino a diventare un elemento di separazione e sofferenza. Attraverso il racconto della storia di sua nonna Giovanna, sottolinea il dramma degli esuli e dei rimasti, di coloro che hanno perso tutto per una linea tracciata su una mappa. Eppure, il suo insegnamento finale è chiaro: il confine non è mai solo una linea geografica, ma una costruzione mentale ed è la società a decidere se gli stessi devono essere muri o soglie di passaggio. La “fiumanità” e la “riječanità” si rivelano così due volti della stessa identità e raffigurano l’anima di un luogo plasmato da lingue, culture e storie intrecciate.

Un finale aperto

A “sipario ormai calato”, la scena si chiude su un dialogo tra lo studente fuoricorsista e Beppe Fattaccio, un confronto che sottolinea come la storia, proprio come Fiume, non sia mai un racconto chiuso, ma un dibattito ininterrotto. Il professore ha lasciato il palco, ma le domande restano sospese nell’aria. Il giornalista, che all’inizio cercava solo una storia da raccontare, si ritrova trasformato dalla città stessa, e nel suo taccuino annota le parole che chiudono il cerchio – “Porto delle diversità… non come slogan, ma come destino!”. La sua ultima domanda, posta quasi a sé stesso – “Vuol dire che qui l’Europa c’era già, prima che qualcuno decidesse di metterla nei trattati?” – è la vera chiave di volta dello spettacolo. L’Europa non è un progetto recente, ma una costruzione secolare, fatta di incontri, scontri e contaminazioni. Uno spettacolo necessario, meritatamente premiato dal pubblico con lunghi e sentiti applausi, da vedere e rivedere.

 

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