
Il teatro custodisce un confine impalpabile, un varco che, se attraversato, infrange le barriere tra finzione e verità, tra rappresentazione e rivelazione. È un punto di rottura, ma anche di contatto profondo con l’essenza dell’umano. “Open the door” (Apri la porta) – titolo che è già invito, monito, destino – si inserisce con forza e grazia in questa zona di transizione, lì dove il palcoscenico non è più solo un luogo di esposizione, ma uno spazio di resistenza emotiva e filosofica.
Messo in scena dal Teatro Nazionale Lituano “Kaunas” in collaborazione con “Les Récréâtrales” del Burkina Faso nell’ambito del progetto europeo “Deconfining”, ospitato dal Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc” di Fiume, lo spettacolo si rivela un’esperienza totalizzante, capace di scardinare certezze e di incidere nell’intimità dello spettatore come una ferita sacra. La regia del giovane e talentuoso lituano Justinas Vinciūnas, già premiato con il “Golden Stage Cross” per artisti emergenti, si fonde con la potente drammaturgia dell’autore burkinabé Aristide Tarnagda, tra le voci più incisive della nuova scena africana, per dare vita a un’opera che pur radicandosi in un contesto preciso, si emancipa ben presto dalla geografia e dal tempo. Non siamo più in Africa, non siamo più nel nostro presente, ma ci troviamo nel cuore simbolico dell’essere umano, là dove amore e paura si combattono senza tregua, e dove la giustizia si misura con il peso insostenibile della colpa.
Un racconto universale
La trama, nella sua apparente semplicità, si dipana come una favola tragica che parla con il linguaggio arcaico degli archetipi. In un villaggio attraversato dalla miseria e dalla minaccia costante del terrorismo, una famiglia accoglie un ragazzo straniero, integrandolo nella propria quotidianità, amandolo come figlio, fratello, parte vitale del proprio nucleo. Ma quando la paura diviene carne e la comunità cerca un nemico da offrire in pasto all’odio, l’alterità del giovane – il suo sangue diverso, la sua lingua altra, il suo volto “non nostro” – diventa insostenibile. Il padre spinge per l’esclusione, la madre lotta per proteggere, il fratello è tormentato e la famiglia si spacca. Il dramma prende corpo nella più dolorosa delle scelte: sarà lo stesso ragazzo, divenuto consapevole dell’ineluttabilità del proprio destino, a chiedere a quest’ultimo di compiere il gesto estremo, trasformando così una condanna subita in un atto libero, una fine imposta in un’espressione di dignità.
Un’opera che brucia di verità
La regia di Vinciūnas, viscerale ed essenziale, non rinuncia a un sottotesto di grande densità filosofica e trasforma ogni scelta, ogni movimento e ogni silenzio in parte di un tessuto poetico e concettuale, al contempo complesso e raffinato. La parola diventa fiato e il gesto si fa lingua, il vuoto scenico pulsa come un taglio che non smette di sanguinare. L’eco dell’“Antigone” sofoclea risuona nitida, anche se il conflitto, in questo caso, non si articola tra legge dello Stato e volontà divina. Qui la battaglia si sposta nel territorio più profondo e lancinante dell’intimità umana. È la coscienza che si scontra con l’istinto, il dovere collettivo che soffoca l’affetto, l’amore che si piega sotto il peso di una responsabilità imposta. Dove Sofocle ci donava una figura incrollabile nella sua purezza morale, “Open the door” ci offre anime inquiete, deboli, devastate dall’ambivalenza, incapaci di trovare conforto in verità assolute, la cui tragedia è la sopravvivenza. Ed è proprio per questo che ci riguarda tutti, da vicino, senza scampo.

Foto: IVOR HRELJANOVIĆ
Il miracolo della presenza
La forza emotiva dello spettacolo affonda le radici in un impianto attoriale di considerevole coerenza espressiva, dove ogni interprete sembra agire nello spazio profondo dell’interiorità. Robertas Petraitis, nei panni di Vendeijams, restituisce una presenza scenica rarefatta e rituale, capace di coniugare fragilità e potenza simbolica. Il suo sguardo attraversa e interroga, incarnando la figura dell’escluso e del diverso con la dolcezza e la forza dei miti sacrificali e reclamando visibilità, legittimità, riconoscimento, senza mai cedere alla retorica o alla commiserazione. Accanto a lui, Povilas Barzdžius costruisce un Sulė stratificato e complesso, permeato da contraddizioni laceranti, tradotte in affetto e colpa, tenerezza e tradimento, che il personaggio non risolve ma abita in un equilibrio instabile. La scelta finale di dare la morte al fratello si compie come crollo silenzioso, nel punto esatto in cui l’umano si spezza, e proprio nel gesto disperato del cedere si rivela tutta la tragica bellezza del suo personaggio.
Le figure parentali amplificano questa densità emotiva e simbolica: la madre (Eglė Mikulionytė) si impone come figura silenziosa di resistenza etica, la cui forza è nel rifiuto, nella non-collaborazione al sacrificio, nel dolore trattenuto che si fa gesto politico.
Il padre (Sigitas Šidlauskas) invece, si piega alla logica del sacrificio necessario e sceglie il compromesso, portando in scena il dramma di chi abdica alla propria integrità in nome di un’illusoria salvezza collettiva. Infine, lo zio (Kęstutis Povilaitis), veglia come un officiatore muto ed è testimone silente, liminare, che non giudica né interviene, ma osserva, ascolta, accompagna, custodendo un’umanità che vacilla ma non crolla.
La scena come metafora
A modo della regia, anche la scenografia, firmata da Patricija Vytytė e Boubacar Souley Salifou, si presenta sobria, eppure densissima di significato. Un fondale blu con nuvole bianche, pochi oggetti – un armadio, una sedia, dei blocchi di pietra – e poi la terra, sempre presente, a ricordarci la nostra origine, la nostra finitudine. L’armadio, simbolo centrale, è una soglia mobile, che può essere rifugio o trappola, passaggio o barriera, ventre materno o bara.
Il cielo dipinto osserva, giudica, custodisce. E nel finale, quando la tela cade, si apre lo squarcio visionario dei brandelli di lana bagnata di rosso, evocazione di un sangue mai mostrato ma sempre evocato, porta in scena una catarsi che squarcia e lascia aperte le ferite. I piedi nudi degli attori, sempre in contatto diretto con il suolo, sono un ritorno all’essenziale, un richiamo all’umano più vulnerabile. Nessuno ha difese. Tutti camminano su un terreno delicato, condiviso, nudo. Come la nostra coscienza.
Musica e luci
La partitura sonora di Mantas Mockus – anch’essa premiata con il “Golden Stage Cross” – è un organo vivente dello spettacolo, una voce interna che respira con i personaggi, che anticipa, ricorda, consola o aggredisce.
Non cerca mai l’effetto, ma lavora in profondità, come un’emozione taciuta che a tratti emerge. Nei momenti più intensi, la musica esplode, trasgredisce o si ritrae nel silenzio, amplificandone il potere devastante.
Allo stesso modo, il disegno luci di Vladimiras Šerstabojevas emerge per rigore e precisione, dove ogni taglio scandisce il tempo della tragedia con un’efficacia quasi chirurgica, priva di orpelli o compiacimenti estetici. La scena viene sezionata con freddezza analitica, rivelando solo ciò che è nodale, e quando arriva il rosso – simbolo del sacrificio, della morte, dell’inevitabile compimento – è la materializzazione di un destino che si chiude attorno al gesto estremo.

Temi urgenti, trattati con delicatezza
Le tematiche dell’adozione, dell’estraneo, della diversità, spesso affrontate in modo ideologico, trovano in “Open the door” una forma poetica, tangibile, che non abbisogna di slogan. Vinciūnas evita ogni didascalismo e affida alla scena il compito di porre domande, tra le quali emergono con forza quelle relative all’alterità, quale esperienza dell’altro, e alla coscienza, come spazio in cui quel confronto avviene o si rifiuta. La figura dello straniero – Vendeijams – ci obbliga a fare i conti con le contraddizioni più intime della nostra identità collettiva, non perché sia distante o incomprensibile, ma in quanto la sua somiglianza ci inquieta profondamente. Troppo vicino, troppo radicato nel nostro stesso essere per venire semplicemente escluso, diventa una presenza insostenibile che deve essere annientata, cancellata, affinché la comunità possa proteggere l’illusione della propria coerenza. In parallelo, la coscienza si disvela come una lesione viva, un luogo di vulnerabilità che non cessa di sanguinare. Lo spettacolo ci consegna alla contemplazione di esistenze dilaniate, che dimorano nell’incertezza e nel tormento del dubbio. La scelta del fratello di sopprimere ciò che ama assume i contorni di emblema di uno strazio interiore irrimediabile, un rovello che consuma la coscienza, ardendola, e si cristallizza in una cicatrice eterna.
La porta resta aperta
In tale contesto, il progetto “Deconfining”, pur con le sue rigidità strutturali, ha trovato in “Open the door” uno dei suoi momenti più alti, per la capacità di raccontare l’umano nella lingua comune del dolore condiviso, del dubbio senza risposte, del gesto che rimane, anche quando tutto è perduto. Certo, la sinergia creativa non è ancora piena, e alcune linee di sviluppo restano trattenute da vincoli formali, ma la porta, simbolicamente, è stata aperta. Sarà interessante vedere chi troverà il coraggio di varcarla. In fondo, come ci insegna Vendeijams, l’unico antidoto alla sconfitta risiede nella capacità di restare profondamente umani, persino di fronte al dolore più acuto, persino quando ogni speranza sembra ormai svanita.

Foto: IVOR HRELJANOVIĆ
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