Oleg Mandić. «L’odio è un sentimento inutile. Della mia vita non cambierei niente»

Il giornalista e scrittore Oleg Mandić, l'ultimo bambino ad aver lasciato il campo di sterminio ottant'anni fa, ha presentato ad Abbazia e Fiume il suo ultimo volume in cui testimonia gli orrori vissuti all'età di soli 11 anni

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Oleg Mandić. «L’odio è un sentimento inutile. Della mia vita non cambierei niente»
L’autore del libro, Oleg Mandić a Villa Antonio. Foto: RONI BRMALJ

La vita di ciascuno di noi può essere contrassegnata da momenti più o meno brutti o belli o da una costellazione di eventi che influiscono su di noi in maniera più o meno positiva, ma sono veramente rare le persone che di fronte alle tragedie più grandi, hanno la forza non solo di uscirne a testa alta, ma di trovare nell’orrore un lato positivo. Una di tali persone è il giornalista e scrittore Oleg Mandić, il quale all’età di 11 anni ha vissuto gli orrori del campo di sterminio Auschwitz-Birkenau, nel quale è stato deportato assieme alla mamma e alla nonna. A distanza di quasi ottant’anni, Mandić ha voluto lasciare alle nuove generazioni la sua testimonianza racchiusa nel volume “Život obilježen Auschwitzom” (Una vita segnata da Auschwitz), edito da Fraktura. Il libro è stato presentato l’altra sera a Villa Antonio di Abbazia. Accanto all’autore e all’editore Seid Serdarević, al pubblico si è rivolto pure il curatore del volume, Neven Šantić.

Un illustre concittadino
A dare il benvenuto ai presenti è stato Bruno Starčić, presidente dell’Unione dei combattenti antifascisti e degli antifascisti di Abbazia (UABA), il quale ha fatto i complimenti all’autore e ha porto un mazzo di fiori alla consorte per ringraziarla del sostegno fornitogli negli anni.
Ha parlato pure il sindaco di Abbazia, Fernando Kirigin, il quale ha ricordato che sono stati i suoi predecessori, Amir Muzur e Ivo Dujmić a iniziare (nel 2004) e poi continuare la collaborazione con Oleg Mandić. Il sostegno all’autore è stato fornito pure dalla Città di Fiume e dalla Regione litoraneo-montana, in quanto esiste una coscienza universale sull’importanza del ricordo della tragedia dell’Olocausto, anche perché al giorno d’oggi il male sembra aleggiare tra di noi aspettando il momento propizio per manifestarsi nuovamente.
Il primo a parlare del libro è stato Seid Serdarević, il quale ha illustrato brevemente la biografia dell’autore partendo dalla sua nascita nel 1933 a Sušak e continuando a Belgrado e Zagabria una volta ritornato dopo la traumatica esperienza di Auschwitz. Importante anche il periodo del pensionamento durante il quale Mandić si è dedicato anima e corpo agli incontri coi ragazzi per parlare non solo degli orrori del fascismo, ma anche e soprattutto dell’importanza della famiglia e dell’amore. (In quest’ambito ha partecipato anche all’iniziativa “La scuola incontra…” organizzata negli Istituti della CNI in Croazia e Slovenia, ndr). Serdarević ha aggiunto anche che l’editore Fraktura ha sempre dato molta importanza ai romanzi che trattano il tema dell’Olocausto e che ha già pubblicato le opere di Primo Levi e Imre Kertész. Quello di Mandić, però, non è un romanzo, ma una singolare autobiografia piena di ottimismo e amore della vita, ha concluso il curatore.
Neven Šantić si è soffermato, invece, sulla lunga collaborazione con Oleg Mandić riguardo alla sensibilizzazione dei giovani al tema dell’Olocausto e sui lunghi viaggi fatti sia in Istria, che in Italia, per incontrare gli alunni e gli studenti e parlare con loro. Con l’arrivo del Covid-19 tali viaggi hanno subito un arresto, ma in compenso è nata l’idea di trasporre le idee solitamente trasmesse a voce, in un libro destinato principalmente a un pubblico di giovanissimi. Per questo motivo il materiale è stato ridotto e le pagine sono molto scorrevoli, in modo da cogliere l’attenzione anche di un lettore non avvezzo alla pagina stampata, ma a uno schermo.

Un’infanzia stroncata
L’intervento più atteso e quello più emozionante della serata è stato sicuramente quello di Oleg Mandić, il quale ha parlato della sua vita, del periodo di internamento ad Auschwitz, della sua famiglia e del processo di accettazione del trauma per permettere una crescita interiore.
“La mia infanzia è terminata nei primi mesi del 1943 – ha ricordato Mandić – perché in questo periodo mio padre e mio nonno fuggirono sul Monte Maggiore per raggiungere i partigiani. Da quel momento io, mia mamma e mia nonna avevamo le valigie pronte e sapevamo che da un momento all’altro avrebbero potuto arrestarci. E così è stato il 15 maggio del 1944. Prima ci portarono nel carcere fiumano e successivamente in quello triestino, dove ci interrogarono per più di un mese sia gli italiani che i tedeschi. Un ufficiale tedesco disse poi a mia madre che sulle frequenze di Radio Londra un celebre cronista dell’epoca aveva affermato che mio nonno, Ante Mandić, aveva sostenuto apertamente Tito e questo fu il pretesto che stavano aspettando per caricarci sul treno merci diretto verso Auschwitz”.
L’autore ha spiegato che il campo di sterminio non era un luogo né triste, né felice. Era semplicemente il regno dell’apatia. Lo scopo della vita dei deportati al momento del risveglio alle tre del mattino in estate e alle quattro in inverno, era di arrivare a sera per poter stendersi sullo stesso giaciglio e dormire. Se dovesse capitare di morire nel sonno, quella era considerata una fortuna. Com’è possibile, dunque, che in un posto di questo tipo un bambino di soli 11 anni sia riuscito a sopravvivere? Mandić ritiene che il motivo più importante è dovuto a una serie di circostanze fortunate, ma anche all’amore di sua madre e alla sua capacità di non attirare l’attenzione.

L’inizio di una nuova vita
“I nazisti impiegarono meno di un’ora a votare la soluzione finale – ha spiegato Mandić – e anche in quel momento il loro problema maggiore non era l’eliminazione di 12 milioni di ebrei, quanto era stimato che vivessero in Europa, ma piuttosto lo smaltimento dell’enorme mole di corpi che ne sarebbe risultata. Il Ministero della sanità tedesco aveva votato un programma intitolato ‘Programma per la vita’, ma che in realtà era un piano col quale si calcolava che una persona sana potesse venire portata alla morte tramite l’inedia, lo stress, il freddo e la mancanza di igiene. La loro precisione nel calcolo era così alta che persino dopo la liberazione di Auschwitz in una sola settimana morirono spontaneamente mille persone per il semplice fatto che era scoccata la loro ora. Noi venimmo portati a Belgrado dove iniziò la mia nuova vita. Innanzitutto dovetti imparare il serbo e il cirillico, perché ad Abbazia frequentavo le scuole italiane. Ben presto mi abituai alla nuova situazione e feci di tutto per dimenticare l’esperienza vissuta”.
L’autore ha continuato la sua esposizione spiegando com’è maturato in lui il bisogno di condividere l’orrore vissuto per rendere partecipi di questa esperienza anche gli altri. Una parte dei sopravvissuti sceglie il suicidio, la maggior parte si chiude in sé, mentre un terzo circa trova la forza di parlare e aprirsi. Il suo primo articolo di giornale, in occasione del decimo anniversario della caduta di Auschwitz, ha segnato l’inizio di una lunga carriera di oratore.

L’incontro con i giovani
“Quando ho deciso di parlare in pubblico le prime a invitarmi sono state le scuole – ha ricordato Mandić -. Ero molto sorpreso di questo fatto perché pensavo che i giovani fossero degli estranei con i quali non avevo alcun punto in comune. Oggi, dopo 22 anni di lezioni agli studenti, penso che i giovani siano molto più maturi di quanto non si pensi e ammiro gli insegnanti che lavorano con passione. Le loro domande sono interessanti e azzeccate. Io alla loro età ero pieno di odio, un odio profondo che mi divorava dentro. A 18 anni ho deciso di non odiare più nessuno, di non dimenticare l’esperienza vissuta, ma di usarla per diventare migliore. L’odio è un sentimento inutile, che non porta a niente di buono. Una volta che sono riuscito a metterlo da parte ho capito che Auschwitz è stato per me un’occasione unica di vivere al meglio la mia vita. Ho avuto la fortuna di venire deportato in tenera età, dunque tutto quello che mi è capitato dopo l’ho interpretato con l’ottica di qualcuno che è scampato alla morte e che si rende conto di poter superare ostacoli ben più facili. Ringrazio Auschwitz per avermi donato una vita bellissima, che ho assaporato appieno. Non cambierei assolutamente niente”.
Con queste parole Oleg Mandić ha salutato i suoi fedeli seguaci e lettori che ieri hanno potuto incontrarlo anche nella Casa croata della Cultura (HKD) di Sušak. L’autore ha concluso la conferenza, ma non il dialogo. Questo è proseguito anche mentre firmava le numerose copie del libro vendute.

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