Odissea tra confini e identità perdute

Il TNC «Ivan de Zajc» di Fiume ha fatto da cornice alla coproduzione croato-tunisina «In the belly of the whale» diretta dall'autrice Marwa Manai

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Odissea tra confini e identità perdute
I “migranti” Nedia Belhaj, Allem Baraket e Mario Jovev. Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

Il Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc” di Fiume ha ospitato uno spettacolo (coproduzione con il TNT di Tunisi) dal respiro universale, un viaggio teatrale che affonda nelle profondità dell’animo umano e della condizione migrante. “In the belly of the whale” (Nel ventre della balena, Fi batn el hout, il titolo arabo), diretto dall’audace autrice tunisina Marwa Manai, si configura come un racconto corale che intreccia storie di speranza, spaesamento e resistenza, incastonandole in una drammaturgia intensa e immersiva. Lo stesso si inserisce all’interno del progetto “Deconfining”, iniziativa euro-africana tesa alla decostruzione delle barriere culturali attraverso il dialogo artistico e la contaminazione linguistica e stilistica. Una sfida ambiziosa che si traduce in un’esperienza teatrale profonda, capace di scuotere e interrogare lo spettatore.

Anime sospese tra sogno e disillusione
La drammaturgia (firmata da Maja Ležaić) prende forma dalla fusione di quattro racconti contemporanei, frutto della penna di Iva Papić, Dorotea Šušak, Samia El Amami e Mouna Ben Haj Zekri, le cui voci tessono un mosaico di destini in bilico, tratteggiando il perenne conflitto tra l’aspirazione a un futuro migliore e le barriere imposte dalla realtà. La pièce si avvale di un cast internazionale che unisce brillanti interpreti croati e tunisini, tra cui Mario Jovev, Serena Ferraiuolo, Edi Ćelić, Sonia Zarg Ayouna, Nadia Belhaj, Thawab Aidoudi e Allam Barakat, facendosi crocevia di culture e linguaggi (inglese, croato, italiano, francese e arabo). Al centro della narrazione, come dicevamo, si staglia il tema della migrazione, declinata non solo quale spostamento geografico, ma come passaggio esistenziale, una metamorfosi identitaria che costringe i personaggi a confrontarsi con la perdita, l’attesa e il peso dell’invisibilità.

Metafora di un limbo esistenziale
Il titolo, denso di echi biblici e simbolici, richiama la vicenda di Giona, inghiottito dal cetaceo e costretto a un’introspezione forzata prima della sua rinascita. Qui, lo stesso si fa metafora di un sistema che divora e sospende, un ventre oscuro dove il migrante è prigioniero di un’identità negata, né accolto né rifiutato. Le figure che abitano questo spazio sospeso emergono con una complessità vibrante: Silvia Visconti (Serena Ferraiuolo), la ricercatrice accademica in avanzato stato di gravidanza, è una donna divisa tra la passione per la memoria storica e le rigidità del mondo accademico. La sua missione di denuncia dei crimini nei centri di detenzione è ostacolata da un sistema (racchiuso nella voce di Marwa Manai) che nega il suo avvertimento, costringendola a fare i conti con il fallimento della parola di fronte alla macchina burocratica. Il Direttore del centro di detenzione (Edi Ćelić) incarna il cinismo dell’apparato amministrativo: non è un sadico persecutore, bensì un funzionario che ha smesso di vedere le persone dietro ai numeri, riducendo le vite a pratiche da smaltire, con l’unico obiettivo di svuotare la struttura e archiviare il problema. Leila (Thaweb Idoudi), l’interrogatrice tunisina, è l’emblema di una frattura identitaria: una migrante che, per integrarsi, accetta di essere parte del meccanismo repressivo, il cui conflitto interiore si snoda tra dovere e tradimento, tra la sicurezza conquistata e il divorante senso di colpa. E poi ci sono loro, i migranti, anime in transito che lottano per non essere annientate dall’indifferenza: Ali (Allem Baraket) è il simbolo della disperazione che induce alla menzogna come unica strategia di sopravvivenza. Fingendosi siriano per ottenere l’asilo, si ritrova intrappolato in un gioco di potere che lo umilia e lo annienta. La sua passione per la danza, anziché essere fonte di libertà, diventa strumento di tortura: costretto a ballare al buio dai suoi carcerieri, si spegne nel peso del tradimento e della colpa, scegliendo la morte come unica via d’uscita. Mariem (Nedia Belhaj), incinta e in fuga da un destino segnato, rappresenta la fragilità della speranza e la brutalità del rifiuto. Il suo corpo è il confine ultimo: portatrice di vita, ma respinta dal mondo esterno, soccombe sotto il peso dell’indifferenza.

Dove sono gli alberi? Dove sono gli uccelli?
Infine vi è Vodonoša (Mario Jovev), il migrante senza patria, la voce più lirica e dolente dell’opera, il cui nome stesso significa “colui che porta l’acqua”. Sopravvissuto a una “tempesta che ha inghiottito il suo villaggio”, vaga senza radici. Quando il direttore gli mostra una mappa per spiegargli i confini, egli risponde con una semplicità devastante – “Dove sono gli alberi? Dove sono gli uccelli? Questa non è la Terra, sono solo linee”. Le sue parole smascherano la costruzione artificiale delle frontiere, rivelando l’arbitrarietà delle divisioni umane e l’illusione del possesso dei luoghi. Ma un sistema incapace di comprendere la sua libertà lo condanna: tradito, rinchiuso, muore nel buio, divorato da un mondo che non prevede spazio per chi non rientra nelle sue categorie.
Ciascuno di loro porta con sé una paura fondamentale – l’espulsione, l’umiliazione, l’oblio, la perdita della propria essenza – ma anche un sogno irraggiungibile, che si infrange contro il muro della realtà. Ognuno è costretto a un compromesso con la propria identità, a rinnegare nome, lingua e radici pur di non essere ricacciato indietro. Dove finisce la speranza e dove inizia la sopravvivenza? L’atto di migrare è una ricerca di salvezza o la fuga da un inferno senza scampo? La grande forza di “Nel ventre della balena” risiede nella sua capacità di non fornire risposte semplici, nel non giudicare, non semplificare, ma mostrare ogni sfumatura di un dramma universale, restituendo un’umanità complessa e cruda, nella quale nessuno è totalmente vittima o totalmente carnefice.

Il filo rosso del destino e della separazione
Se la parola incide, la regia di Marwa Manai amplifica il senso di oppressione e precarietà attraverso una scenografia essenziale e simbolica (curata da Alan Vukelić). Pannelli/schermi bianchi e trasparenti in plexiglass frammentano lo spazio, ora ergendosi come pareti invalicabili, ora dissolvendosi in varchi di possibilità. Le proiezioni e le luci (realizzate rispettivamente da Alan Vukelić e Fayssel Salah) rivelano e occultano, mentre una rete di linee rosse (la cui simbologia si intreccia con la struttura stessa del testo teatrale), intrecciata/sfilata/narrata da Madre Tessitrice (Sonia Zarg Ayouna), attraversa il palcoscenico: un confine mutevole, una cesura che separa e imprigiona, ma che può anche essere attraversata, sebbene a caro prezzo. Nella pièce la ricercatrice Silvia Visconti presenta il progetto “The long shadow of borders”, un’indagine sui crimini commessi nei centri di detenzione per migranti, ma il sistema la blocca, la costringe al silenzio, nonché lei stessa è intrappolata in una rete burocratica che soffoca la verità. Il filo rosso è dunque anche il filo del controllo, delle divisioni imposte e delle ingiustizie perpetuate. È il filo della memoria, che si spezza quando si cerca di cancellare il passato. La colonna sonora di Riadh Bedoui accompagna lo spettatore in un viaggio emotivo che oscilla tra speranza e smarrimento, mentre le immagini di Souheil Ben Hamida evocano l’inquietudine dell’attesa, amplificando l’atmosfera di sospensione e incubo. Infine, l’intero impianto costumistico (curato da Sandra Dekanić) si rivela un ulteriore strato di narrazione, una pelle scenica che definisce, confonde e amplifica l’identità dei personaggi.

Un grido che non si spegne
Marwa Manai, con il suo occhio lucido e la sua mano sapiente, confeziona un’opera di straordinaria intensità, che si muove su un crinale tra teatro documentario e narrazione poetica. “Nel ventre della balena” è un pellegrinaggio che non si esaurisce con il calare del sipario, ma un grido contro l’indifferenza, che continua a risuonare nella coscienza dello spettatore, ponendolo davanti a domande scomode e irrisolte. Alla fine, ciò che resta è una riflessione pungente sul significato di confine, identità e appartenenza. Siamo davvero così distanti da chi attraversa il mare in cerca di un rifugio? O siamo tutti, a nostro modo, intrappolati nel ventre di una balena che ci costringe a fare i conti con la nostra umanità? Un’opera che scuote, provoca e commuove. Un teatro che non offre certezze, ma impone di guardare dentro il buio, per cercare la luce.

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