Marco Paolini: «Mi piacerebbe un teatro che facesse cantare»

L’attore si presenterà il 26 e 27 novembre a Zagabria e Fiume con il progetto «Sani!», in cui evoca momenti di crisi che hanno cambiato il corso delle cose

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Marco Paolini: «Mi piacerebbe un teatro che facesse cantare»
Marco Paolini. Foto: Istituto Italiano di Cultura di Zagabria

Questo fine settimana il pubblico della capitale croata e quello fiumano avranno l’opportunità di vedere in scena uno dei più grandi artisti del teatro contemporaneo italiano, grazie all’organizzazione dell’Istituto Italiano di Cultura di Zagabria in collaborazione con il Teatro Kerempuh della capitale e il Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc” di Fiume e al supporto del Consolato generale d’Italia a Fiume: Marco Paolini, attore, regista, drammaturgo e poeta della scena, torna in Croazia a più di vent’anni di distanza dall’ultimo tour croato (dedicato a “Bestiario Italiano. I cani del gas”) per presentare “Sani! Teatro fra parentesi”, in programma sabato 26 novembre alle ore 20 presso il Teatro Kerempuh di Zagabria e, il giorno seguente, con inizio alle 19.30, al Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc” di Fiume. Lo spettacolo, ideato e scritto da Paolini (e realizzato dalla sua casa di produzione, Jolefilm), con musiche originali composte ed eseguite da Saba Anglana e Lorenzo Monguzzi, utilizza la forma della narrazione alternando storie e canzoni per portare in scena pensieri su crisi grandi e piccole, personali e collettive. “Sani!” è un’espressione tipica del dialetto veneto utilizzata come espressione di buon auspicio, quasi a indicare un augurio che emerge dalla scena. Nel corso di un’intervista, l’artista ci ha illustrato la genesi dello spettacolo e i ragionamenti che hanno portato alla sua realizzazione.

La nuova normalità post Covid
Come nasce “Sani!”?
“Si tratta di un lavoro inizialmente prodotto con il titolo ‘Teatro fra parentesi’, che poi è rimasto come sottotitolo. È un work-in-progress che mi era venuto naturale fare nel periodo del lockdown del 2020, quando mi ero reso conto che la ‘ripresa’ non sarebbe stata un superamento della crisi, ma una parentesi, cioè che avremmo avuto a che fare con delle conseguenze e, quindi, con delle nuove fasi. Avevo iniziato a lavorare sul ‘Teatro fra parentesi’ tornando a stare sul palcoscenico senza la mediazione di un personaggio, senza la trama data dalla drammaturgia totale, ma tenendo invece una struttura che permettesse di avere dei numeri, quindi delle storie, intrecciabili in maniera libera e adattabili. Le cose intorno a noi cambiavano così velocemente che sentivo il bisogno di poter stare il più vicino possibile agli spettatori, di approfittare della koiné per dire delle parole di quel giorno e non quelle del giorno prima. Piano piano, ‘Sani!’ ha ereditato questo lavoro, in quanto è il racconto di una serie di crisi piccole e grandi, personali e collettive, attraversate per declinare e cercare di raccontare che, quando qualcosa colpisce la nostra vita, il desiderio di tornare allo stato precedente è assolutamente umano, ma molto spesso non ci rendiamo conto di come una crisi abbia cambiato definitivamente le cose, imponendoci di vivere una vita nuova. Che sia un evento collettivo come un terremoto, una crisi internazionale, economica, una crisi familiare o personale, in qualche maniera noi dobbiamo accettare che questa abbia modificato la strada che facciamo. Dopo il lockdown si parlava di ‘ricominciare’, di ‘ripartire’ come prima… Secondo me non si tratta di ricominciare. Qualche cosa si traghetta, ma altre cose sono cambiate. Se non ne prendiamo atto, il disagio aumenterà”.

Quali sono, a suo avviso, i cambiamenti più significativi prodotti dalla pandemia in questo senso?
“È una bella domanda, ma non sono sicuro di poter dare una risposta. Personalmente, mi rendo conto del fatto che il sistema teatrale è più fragile e non si è ancora adattato alle nuove condizioni. Mi sembra che non ci sia nessun teatro che resta fermo, ci sono teatri che hanno indovinato una politica per invogliare le persone a venire e altri che invece hanno perduto irrimediabilmente una parte dei loro interlocutori, incapaci di immaginare che invece forse bisogna andare oltre il recupero, bisogna andare a conquistare un terreno nuovo. Il ruolo della cultura, in generale, deve essere quello di celebrare, di essere un museo a cielo aperto, oppure deve essere un luogo di investigazione, di immaginazione. Se è così, il ruolo di chi fa il mio mestiere non può essere separato da altri. Non possiamo restare in una gabbia dorata, in una teca di cristallo. Bisogna sporcarsi un po’ le mani”.

Un’appartenenza condivisa
In “Sani!”, un ruolo assai importante è quello delle musiche…
“Questo è un concerto dove alterniamo canzoni e brevi racconti perché ciò ci dà una leggerezza maggiore che non un’unica lunga storia. Mi rendo conto che può sembrare superficiale, ma al momento sento più pregnante il bisogno di costruire un clima che aiuti a star bene e dentro al quale far passare dei pensieri, piuttosto di un lungo libro orale, di una lunga storia in cui la mia soggettività trascini le persone. Credo di dover tener a bada i personalismi e tenere davanti l’appartenenza, un’appartenenza condivisa, che il teatro è capace di creare. La forza della canzone sta nel fatto di poter veicolare un soffio suggerito da un cambio di intonazione, dal ritmo e dal volume, che nel nostro caso fa da cesura tra una storia e l’altra. Le canzoni, tutte create appositamente per questo spettacolo, raccontano in qualche maniera un altro punto di vista sullo stesso argomento, quindi aggiungono delle storie. Per cui, se in ‘Sani!’ io racconto sei storie, le canzoni ne raccontano altre cinque. Per quanto mi riguarda, penso che il teatro oggi debba essere riempito di contemporaneità, che unisca le persone. Non sento il bisogno di un teatro d’autore, bensì di un teatro popolare semplice, questa è la mia visione per il momento. Mi piacerebbe di più un teatro di generi che non un teatro di cantautori. Mi piacerebbe un teatro che facesse cantare, piuttosto che un teatro che si facesse ascoltare”.

Su quali principi si basa l’aspetto scenico (o scenografico) di “Sani!”?
“La scena è un castello di carte da gioco che indica, ovviamente, una cosa fragile, che al tempo stesso può essere quella di cui si sta parlando o quella di cui si è parlato nella storia prima, poiché sono collegate. Il ragionamento della crisi è il ragionamento sul fatto che qualcosa che appariva solido si rompe. Può riguardare l’ecosistema, la struttura della vita, una città distrutta dal terremoto, oppure un sistema economico o ideologico che crolla. Non amo tanto gli spettacoli che in questo momento si nutrono di video e, per reazione, cerco di usare pochi elementi, il mio è un teatro povero sulla scena. Il trend del teatro e dell’opera sulla scena internazionale fa sempre più uso di realtà aumentate con proiezioni, ologrammi e quant’altro. Noi abbiamo sempre più bisogno di realtà immersive, lo spettacolo viene sempre più visto come una specie di bagno, per cui bisogna dare un boccaglio, una maschera per respirare allo spettatore, ma tutto intorno a lui bisogna farlo entrare in un’illusione. Lo capisco, ma non è il mio codice espressivo perché secondo me, attraverso la parola, si può riuscire a costruire comunque una suggestione che, pur non essendo immersiva, arriva a fare immaginare qualsiasi mondo. Quello che lo spettatore vede e sente non è basato solo sul testo, ma sull’uso consapevole del ritmo, del tono, del volume, del senso, della pausa, del respiro, che sono gli elementi espressivi di una lingua, oltre a quelli grammaticali”.

Fondamentale il linguaggio
Lei è attivo sulla scena teatrale da più di quarant’anni e viene considerato uno dei principali esponenti della prima generazione del teatro di narrazione italiano. Nel corso della sua carriera, quali trasformazioni ha notato all’interno di questo genere teatrale?
“Dal canto mio, non l’ho mai considerato come una forma, non l’ho codificato. Sono onnivoro, curioso, ho voglia di lavorare con altri artisti. Quindi, anche se mi capita spesso di fare degli spettacoli da solo, ne faccio almeno altrettanti con altri attori e musicisti. Ho moltissima stima di alcuni colleghi, in primis del lavoro di Ascanio Celestini, che secondo me è un grande poeta del teatro italiano, ma anche di tanti altri. Nelle generazioni successive vedo comunque dei grandissimi talenti, ogni tanto vedo anche persone più brave di me, ah ah! In Italia, ormai, questo tipo di approccio viene usato, ad esempio, dai giornalisti, nei podcast, al punto che sembra costruire un altro mestiere. Per me, la differenza c’è, perché un attore deve utilizzare prima di tutto il corpo, e poi le parole, e quindi deve costruire un linguaggio del teatro, che non è quello dei media. Io sono sempre molto interessato a questo modo di fare teatro perché smuove un po’ la drammaturgia. Al momento, credo di essere molto più affascinato dalla possibilità di costruire il dialogo che non il racconto, perché il dialogo mi pare sia una delle cose che adesso avrebbe bisogno di un po’ di leva, di interesse, di confronto, perché potrebbe essere un territorio magnifico, dove ricostruire il teatro”.

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