Mauro Stipanov. La pittura, un sogno che si è avverato

Il pittore fiumano si racconta in margine alla mostra personale «Il mondo inesistente» allestita alla Galleria Kortil di Fiume

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Mauro Stipanov. La pittura, un sogno che si è avverato
Il pittore dinanzi ai suoi dipinti. Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

All’inizio di marzo, alla Galleria Kortil è stato inaugurato “Il mondo inesistente”, la nuova mostra del pittore fiumano Mauro Stipanov, che quest’anno celebra i cinquant’anni di carriera artistica. Con 24 grandi tele, di cui 12 riunite in un’unica opera, l’artista ha sfidato i confini dello spazio e del tempo, conducendo lo spettatore in un viaggio percettivo oltre i limiti della comprensione umana.

Nel suo studio, l’artista ci ha accolti per un dialogo sulla sua visione dell’arte, sul suo percorso e sull’evoluzione del mondo che lo circonda. Nato a Fiume nel 1952, Mauro Stipanov ha respirato arte fin dall’infanzia. Suo padre, Amato, noto come Dido, dipingeva sin da quando lui era bambino, e l’odore dell’olio di lino e dell’acquaragia è stato una costante nei suoi primi ricordi. Il padre gli forniva tavole e supporti, gli spiegava la composizione di un dipinto e lo guidava nei primi bozzetti, che poi rifiniva per la vendita, spesso paesaggi destinati al mercato locale.

Le andrebbe di dirci qualcosa sulla sua infanzia?
“Mi ricordo dell’infanzia più o meno come tutti, il tempo trascorso tra la casa a Cosala dove abitavamo, con un grande terrazzo, un prato davanti, il calcetto con gli amici, i prati, l’asilo, il doposcuola di allora… e un sognare il futuro”.
La tradizione artistica era già parte del DNA familiare: il nonno, Michele Stipanov, giunto a Fiume dalla Dalmazia costiera, era un pittore autodidatta che trasmise il suo talento a due figli dei suoi tanti figli, i quali lavorarono come illustratori di manifesti cinematografici, teatrali e pubblicitari. Amato, oltre alla pittura, fu scenografo presso l’Opera di Fiume.
L’ambiente familiare e l’insegnamento paterno furono determinanti per il piccolo Mauro, che già da adolescente sognava di fare della pittura la sua professione. Dal 1967 al 1973 frequentò i corsi presso la Comunità degli Italiani di Fiume, studiando sotto la guida del maestro Romolo Venucci.

Mauro Stipanov.
Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

Venucci, un personaggio eccezionale
Lei è stato uno degli allievi di Romolo Venucci. Come lo ricorda? Qual è il suo impatto dall’ottica odierna?
“Venucci è stato un personaggio eccezionale che in realtà ha sacrificato il successo, una carriera e una vita più appagante rimanendo a Fiume, dalla quale poi non ha avuto i riconoscimenti che gli spettavano. Penso al suo lascito, che non è stato valutato abbastanza bene e per cui ancora oggi non esiste un interesse a creare un museo dedicato alla sua opera.
Fu un artista e insegnante di grande cultura che mi ha trasmesso i principi della pittura, ma mi rammarico di non aver approfittato di più del suo sapere storico. Sapeva moltissimo sulla Fiume di una volta, ma a vent’anni non hai la testa per fare le giuste domande. Quelle arrivano solo con il tempo, quando è troppo tardi. Lo ricordo come un talento incredibile: basta osservare i suoi disegni, a 16 anni era già straordinariamente preparato. Era un uomo mite, educato, che dava del ‘lei’ ai suoi studenti. Non solo un artista, ma un intellettuale”.
Per Stipanov, il più alto riconoscimento artistico cittadino dovrebbe portare il nome di Venucci: “Se esiste un premio per l’arte a Fiume, dovrebbe essere intitolato a lui, non ad altri artisti che nemmeno hanno vissuto qui”.

Qual è stato il suo percorso di vita? Quali scuole ha frequentato?
“Ho frequentato vari asili dove la mamma lavorava, le elementari alla ‘Belvedere’, poi il Liceo, dal quale venni espulso per aver scritto in un compito in classe di croato (prof. Štimac) quello che pensavo di quella scuola, dei professori e delle ingiustizie che notavo… poiché il titolo del compito lo proponeva. Un brutto ricordo in ogni caso!
Poi, dieci anni dopo, ironie della vita, lo stesso preside Illiasich, incontrandomi per strada, mi chiese un favore per aiutare un suo giovane parente a iscriversi all’Accademia di Venezia… da riderci, sulle vicende della vita!”

In quali città ha vissuto e come si è trovato in questi contesti lontano da Fiume?
“A parte i cinque anni a Venezia, un anno a Milano e diversi soggiorni prolungati di alcuni mesi a Parigi, non ho visitato molto il mondo, anche perché non mi piace troppo viaggiare. Fiume, come città, non è che offrisse tanto di più allora, forse più di oggi, ma forse solo perché oggi offre poco o niente, nel senso generale, non solo in quello artistico”.

Lei è felice della sua vita? Di cosa è grato e cosa avrebbe voluto fosse andato diversamente/meglio?
“Certamente mi dispiace di non essere rimasto in Italia. Era assolutamente un mio desiderio: ho adorato l’Italia in tutti i suoi aspetti, specialmente culturali… ma poi la vita gioca le proprie carte in modo imprevedibile.
La felicità è un’utopia, provvisoria, irraggiungibile, succede ogni tanto… personalmente mi reputo fortunato, perché poter vivere di arte e, specialmente, vivere per essa è il massimo raggiungibile. Poi dipende anche dal carattere… sono piuttosto schivo più che introverso, amo la solitudine, un po’ anche la malinconia”.

Il dipinto composto da 12 quadri.
Foto: ŽELJKO JERNEIĆ

Una città devastata
Come vede Fiume oggi? Che cosa offre ai giovani? Potrebbe essere migliore?
“Fiume è stata devastata. Hanno asfaltato strade che un tempo erano coperte da antichi selciati in pietra. Non abbiamo mai cercato davvero di preservare la nostra storia, siamo rimasti ciechi di fronte alle bellezze del passato. E poi ci chiediamo come possiamo diventare un centro turistico senza conservare i dettagli che rendono una città unica? Io sogno un Molo longo ombreggiato da alberi, con un’area pedonale sicura, senza il rischio di inciampare. Sarebbe una passeggiata meravigliosa, con il mare da una parte e la città dall’altra”.
Stipanov riconosce il valore del Palazzo dello Zucchero, “ben realizzato, per carità”, ma si chiede quanto possa realmente attrarre visitatori nel lungo termine: “Lo visiti una, due volte al massimo. Ma la terza? E poi, nemmeno a Klimt sappiamo dare il giusto valore”.
Secondo l’artista, mancano spazi dedicati alla storia dell’arte locale. “Se fosse per me, nella Casa dei Partiti di via Ciotta ci creerei un museo dedicato a Romolo Venucci e ad altri artisti precedenti al 1945, come i fratelli Carlo e Marcello Ostrogovich. Aggiungerei poi alcuni nomi del periodo successivo, come Pavoković, Udatny e Grčko, per offrire un confronto tra l’arte fiumana italiana e quella jugoslava degli anni ‘50, ‘70 e ‘80. E perché non includere anche un piccolo ristorante, un caffè dove potersi incontrare, scambiare idee, discutere d’arte e cultura? A Fiume manca un punto di ritrovo del genere: un caffè senza musica assordante, dove le persone possano conversare liberamente, ritrovando affinità e interessi comuni.
Oggi, per i giovani, è molto più difficile in tutti i sensi, anche perché il mondo è cambiato radicalmente e, mentre quando io uscivo dall’Accademia avevo di fronte a me un futuro aperto e potevo scegliere, oggi le cose sono molto cambiate in questo senso, specialmente nell’arte in generale, e la cultura sta soffrendo/pagando a scapito della tecnica. Ai giovani non saprei cosa consigliare, anche per il fatto che la realtà della vita odierna è esclusivamente legata e dipendente dalla tecnica/tecnologia, per cui è lì che si forma e si realizza la ‘creatività’ attraverso gli algoritmi… specialmente guardando al futuro. Oggi ancora prevale un po’ il design nell’arte e anche nell’architettura; in ogni caso, la cultura analogica sta pian piano scomparendo.
Ricollegandomi ai problemi della città, mi ricordo che spesso, quando mi viene a trovare qualche amico dall’Italia, alla mia domanda ‘Come trovi la città?’, la risposta è: ‘Abbastanza trascurata!’.
Se qualcuno mi chiedesse cosa mettere nel programma di base per l’elezione del sindaco (dato che siamo nel periodo preelettorale), senz’altro ci metterei l’abolizione del Carnevale e cercherei di rivedere il progetto della nave Galeb. Immagino che non prenderebbe più voti di quelli che gli darebbero i familiari. Purtroppo, è un problema anche di apatia dei giovani, che non riescono a fare nulla per cambiare qualcosa. Idem per la CI: a parte qualche spettacolino, per il resto non c’è vita”.

Il percorso espositivo alla Galleria Kortil.
Foto: ŽELJKO JERNEIĆ

La fiumanità
Da connazionale, come vede l’italianità a Fiume oggi?
“L’italianità, o meglio dire la fiumanità a Fiume, è messa molto male, praticamente quasi inesistente… Sarà probabilmente un processo irreversibile nel tempo. Non basta organizzare spettacolini ogni tanto, la comunità, come sede, dovrebbe essere aperta di continuo, altrimenti non ha senso. Da sempre manca un progetto, un programma per la cultura un po’ più ambizioso. Ambizioso almeno per un quarto dei programmi. E poi, è da almeno una quindicina d’anni che parlo inutilmente, cercando di convincere i dirigenti della CI sulla necessità di riportare un vero tavolo da biliardo. Il biliardo come oggetto che unisce persone giovani e meno giovani. È un gioco/sport che, oltre al divertimento, favorisce lo sviluppo della sensibilità della mano, affina il senso dello spazio, della geometria e persino dell’immaginazione. Logicamente, penso al biliardo quello grande! Invece, la CI ha optato per l’ampliamento della biblioteca, in tempi in cui i giovani e meno giovani leggono sempre meno e trascorrono il loro tempo sul telefono o sul computer”.

Lei ha lavorato presso l’Università di Fiume. In che veste e come si è trovato?
“All’Accademia di Arti applicate ho lavorato dal 2005 al 2017 come docente presso la cattedra di disegno (anatomia artistica, disegno del nudo) e poi anche in pittura. È stato un periodo di almeno una decina d’anni, forse il più bello e il più intenso della mia vita. Ricordo che non vedevo l’ora che arrivasse il lunedì per rivedere gli studenti e riprendere il lavoro da dove lo avevamo lasciato”.

Cos’è importante per lei nella vita? Che consiglio si sentirebbe di dare ai giovani?
“Nella vita è senz’altro importante essere onesti, attenersi a una moralità, avere dignità ed essere più vicini ai bisognosi che ai ricchi. Poi, ognuno faccia la propria scelta”.
Il mondo odierno

Come vede il mondo e le sue dinamiche una volta e come lo vede oggi? Cosa le piace e cosa cambierebbe?
“Per il pianeta noi non contiamo nulla, il mondo può continuare a esistere senza di noi tranquillamente. Però dipende da noi come ci comportiamo finché siamo in… subaffitto, fino a un certo punto”.

Il suo ultimo ciclo di dipinti, intitolato «Il mondo inesistente», contiene 24 opere: c’è un dipinto del quale è particolarmente fiero? Che le è venuto particolarmente bene?
“Dopo l’idea dei ‘capricci architettonici’, ho basato il lavoro su idee legate a pensieri che a loro volta erano legati a determinate letture e preoccupazioni filosofiche, psico-esistenziali. Sono particolarmente legato al dipinto sul tema della morte, ispirato dall’opera di Giacomo Leopardi. Ma anche a quest’ultimo lavoro alla galleria Kortil, legato all’incognita dell’esistenza, dell’universo e dell’essere, come pure ai principi e metodi in pittura, che per me rimangono sempre in primo piano. L’importante è fare pittura! Il resto rimane un pretesto”.

L’artista nel suo studio.
Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

Quali altre passioni nutre oltre alla pittura?
“Amo la musica come arte sublime, è una mia passione! Prediligo il jazz, ma amo tutta la musica quando è buona”.

Un’ultima domanda: qual è oggi, secondo lei, il rapporto dell’uomo con l’arte?
“L’arte, nel senso tradizionale del termine, sta perdendo, o ha già perso completamente, il suo senso e il suo scopo nella società. Resta il fatto che la creatività umana sta cambiando radicalmente: dall’uso della tecnica come mezzo si sta entrando in un’epoca in cui la tecnica, da mezzo, diventa fine. E, secondo me, la ‘creatività’ sta facendo passi da gigante proprio nella matematica, nella creazione di nuovi algoritmi sempre più sofisticati. Per arrivare dove? Non si sa. Forse per diventare immortali…”

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