Lovro Mirth. Una voce che cerca verità, non applausi

Il giovane cantante e musicista connazionale di Fiume racconta come è nata la sua passione per la musica, la sua formazione, i sogni e l'identità

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Lovro Mirth. Una voce che cerca verità, non applausi
Lovro Mirth. Foto di Željko Jerneić

Nel presente continuo dell’omologazione, dove ogni volto sembra indossare la stessa maschera, ogni gesto pare una coreografia già scritta, ogni suono un’eco preconfezionata, incontrare Lovro Mirth è come intravedere una fessura nel consueto, una breccia aperta nella superficie liscia della convenzione. Giovane cantante e musicista connazionale di Fiume, che vanta una originale partecipazione al docufilm “Fiume o morte!” di Igor Bezinović, Lovro è un artista che sfugge alle definizioni, e che forse proprio in questa resistenza a essere incasellato trova il nucleo vivo della propria identità. Cantante jazz – ma già l’etichetta gli sta stretta – è voce liquida che si espande tra soul viscerale, elettronica rarefatta, psichedelia emotiva e silenzi pregni di senso. La sua presenza scenica è insieme diafana e potente, evocativa come un sogno e concreta come una confessione. Non canta per compiacere, ma per dire, per scavare, per cercare il punto esatto in cui l’emozione si fa suono e il suono si fa verità. Là dove molti costruiscono personaggi, Lovro si denuda, e quella vulnerabilità diventa la sua più grande forza. È nel conflitto tra un’innata timidezza e un irrefrenabile bisogno di esprimersi che nasce la sua fiamma creativa. Da bambino osservava il mondo da lontano, con il cuore colmo di colori che non riusciva a mostrare e che solo nella solitudine della propria stanza trovava lo spazio per cantare, danzare, esistere. Attratto dal femminile, dai dettagli, dai giochi di luce e identità, si sentiva spesso come un pesce in un acquario senz’acqua, spaesato nella rigidità delle aule scolastiche. La musica, dice, gli è arrivata per osmosi.

Un lento assorbire
Alla domanda su come sia entrata nella sua vita, Lovro sorride con un’espressione che sembra emergere da un luogo remoto – “È accaduto lentamente. Non c’è stato un momento preciso. Più che un’illuminazione, è stata un’assimilazione naturale. Da bambino ascoltavo mia madre suonare il nostro vecchio pianoforte del 1903, il cui suono si mescolava ai miei giochi con i Lego. Era una presenza costante, un sottofondo discreto che ho interiorizzato prima ancora di comprendere cosa fosse la musica”. Da allora il passaggio verso l’espressione musicale è stato spontaneo, ma tutt’altro che lineare. Ha frequentato l’istituto ‘Ivan Matetić Ronjgov’ di Fiume, ma l’insegnamento accademico, le regole, gli andavano stretti. Avevo bisogno di inventare, non di seguire schemi. Ero un bambino estremamente sensibile, timido, chiuso, che spesso si sentiva fuori posto. Eppure, curioso, osservatore, esplosivo. Una vivacità difficile da contenere per gli adulti che mi volevano bello, bravo, buono. Urlavo, correvo, mi agitavo. A volte ne soffrivo, mi sentivo inadeguato. Ma la musica… la musica era casa”. Più che uno strumento, la voce è diventata la sua compagna d’infanzia, il mezzo per attraversare emozioni troppo grandi per essere dette con parole. Da lì, le prime sperimentazioni tradotte in performance casalinghe, improvvisazioni, esercizi solitari in cui testava i limiti del proprio registro vocale come se stesse tentando di scoprire qualcosa su sé stesso.

Fuori dai generi, dentro l’essenza
Con il tempo, il sensibile artista ha imparato a trasformare le proprie fragilità in forza, la differenza in canto. Oggi, il suo palcoscenico ideale può essere un giardino, un bosco, una galleria, accanto a un fiume, dentro un’installazione, spazi liberi da giudizi, da categorie, da aspettative. “Lì posso essere tutto, androginia, poesia, dissonanza, carezza, pianto. Il corpo stesso diventa narrazione”. Quando gli chiediamo se si definisca un cantante jazz, inclina la testa e risponde – “Non credo nei generi rigidi. Il jazz è una base, un linguaggio che amo per la sua libertà. Ma mi muovo tra soul, elettronica, sperimentazione. Amo i suoni che evocano, che emozionano, che consolano. Nei miei set porto tutto me stesso, anche il silenzio, anche il vuoto. La mia musica non vuole piacere. Vuole dire”. I suoi live, infatti, sono esperienze immersive, la voce è corpo, il corpo è racconto. “Sì, è una scelta consapevole. La scena è un’estensione della mia identità. Non posso salire sul palco e fingere. Ogni gesto, ogni abito, ogni nota racconta qualcosa”. Così si delinea la sua cifra stilistica, un impasto di jazz sperimentale, soul teatrale, pop dissonante, elettronica atmosferica e assenze che parlano. Una voce che graffia e accarezza, che si arrampica sulle fragilità per cantarne la bellezza imperfetta.

Identità come linguaggio
Parlare di identità con Lovro significa avventurarsi in territori intimi e stratificati. Ma lui non esita. “Sono cresciuto amando il femminile, i colori, l’ambiguità. Spesso indossavo le scarpe e gli abiti di mia nonna, che poi ho portato anche sul palco. A scuola mi sentivo fuori posto, come se stessi sbagliando a esistere. Ma quella differenza era il mio punto di forza. Oggi non ho più paura e se voglio truccarmi o indossare una gonna, lo faccio. Non è travestimento, è verità”. Scegliere un vestito per una performance è parte integrante del suo processo creativo.

“Un tempo amavo l’eccesso, oggi preferisco una semplicità pensata, elegante, che non rinuncia ai dettagli. Anche un orecchino può parlare. Il corpo è linguaggio”. E se in Croazia l’espressione libera di sé è ancora spesso guardata con sospetto, Lovro lo affronta con fierezza. “La libertà di esprimermi è una conquista quotidiana. Ancora oggi, se mi presento in giro con smalto o eyeliner, qualcuno storce il naso. Ma non torno indietro”.

Spazi vivi, visioni future
Parlando di Fiume, confessa un sentimento misto. “È la mia radice, ma spesso sento di non potermi esprimere pienamente. Ho bisogno di spazi che non mi giudichino. Per questo amo i luoghi non convenzionali, e per questo ho amato, e amo, Vienna”. Proprio nella capitale austriaca ha trovato una comunità, un senso di appartenenza, una collettività queer e creativa in cui riconoscersi. Lì ha collaborato con Alexandru Cosarca e la sua compagnia, conosciuti a Fiume nel 2020 durante una performance ispirata al red light district di Amsterdam. “Ha messo in scena una creazione europea itinerante, e noi abbiamo dato corpo a un gruppo di prostitute, al Palach. È stato liberatorio. In Croazia mi capita ancora di sentirmi osservato, giudicato, anche solo per come mi vesto”. A Vienna Mirth ha trovato stimoli estetici e umani, un linguaggio artistico fluido, un pubblico attento. È lì che immagina la sua prossima tappa, forse anche una nuova vita. “Vorrei studiare, collaborare, immergermi in una scena che vive davvero. Lì non devo spiegarmi. Posso solo essere”.

Origini e ispirazioni
Eppure, tutto è cominciato molto prima, nella chiesa di San Romualdo e Ognissanti, a Cosala.”Una suora mi fece cantare nel coro. Ricordo l’atmosfera, l’organista, il riverbero delle note nel silenzio sacro: era scena, era arte, era un seme”. Poi, all’età di nove o dieci anni, sono arrivati Amy Winehouse, Donny Hathaway, Nancy Wilson, Shirley Bassey, Fabrizio De André, Lucio Battisti – “I miei maestri spirituali. Gente che cantava con urgenza, senza filtri. È questo che voglio, una musica che non teme di mostrarsi nuda”. E ancora Christian Scott, ascoltato al Liburnia Jazz Festival grazie al padre. “Quel concerto mi è rimasto nell’anima. Lì ho capito che il jazz poteva essere visione, sfida, presenza”.

Contro le etichette, per la verità
Ha frequentato il Conservatorio “Tartini” di Trieste, partecipato allo “Studio Maraton” e a numerose accademie estive, come quella relativa al festival internazionale di jazz di Grisignana, che lo ha formato profondamente. Ma non ha mai rincorso il virtuosismo – “La tecnica è importante, ma io cerco il senso, non la perfezione. Voglio comunicare. Voglio commuovere”. Quando gli chiediamo se abbia mai pensato di partecipare a un talent show, scuote la testa. “Non mi interessa diventare un prodotto. Voglio restare fedele alla mia voce, ai miei tempi, ai miei silenzi”.

Non ha ancora una casa discografica, non ha pubblicato un album. “Arriverà. Ma dev’essere un lavoro onesto, necessario. Non qualcosa da fare per forza”. Sa di dover lavorare sulla disciplina, sulla costanza. “Faccio fatica. Sono perfezionista, autocritico, molto severo con me stesso. Ma ogni passo che compio è mio, e porta la mia impronta. Preferisco così”. Il suo è un cammino lento ma pieno, segnato da soste, deviazioni, rivelazioni, fatto di verità, non di pose. E mentre parliamo, pensiamo che è proprio questo che Lovro Mirth fa – si spoglia senza esibizionismo, si offre senza difese. Un giovane artista che non cerca riflettori, ma luce. Che non vuole successo, ma senso. Che non ambisce a un palco, ma a un luogo dove poter dire – “Eccomi. Questo sono. E questa è la mia voce”.

Lovro Mirth. Foto di Željko Jerneić

 

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