Racconti fiumani tra fantasia e realtà. L’assalto a Villa Ružić

Racconti fiumani tra fantasia e realtà

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Racconti fiumani tra fantasia e realtà. L’assalto a Villa Ružić
Villa Ružić nel rione di Pećine a Fiume. Foto: Florinda Klevisser

Chi è quei, che con passo – furtivo si aggira
Notturno alla volta – del brun Montener?
Viaggia di notte, – nel dì si ritira
Fra balze e burroni – di alpestre sentier.1

Il sole era alto all’orizzonte e i suoi raggi risplendevano in quel mare limpido sul quale ogni tanto si vedeva uno zampillo, forse di un pesce in fuga. I cormorani galleggiavano pacifici e ogni tanto sparivano sott’acqua in cerca di cibo, per ricomparire solo varie decine di metri più in là. Le spiagge di Pećine si stavano pian piano riempiendo con l’arrivo dei primi bagnanti di quella calda giornata estiva. Le mamme, con i loro neonati, prendevano posto al riparo dal sole, in uno degli spazi di densa ombra creata dal ripido costone di roccia su cui cresceva rigogliosa una vegetazione tipicamente mediterranea. Le nonne, con i loro nipoti, raggiungevano il gruppo di amici con cui avevano appuntamento, ogni giorno alla stessa ora e sulla stessa spiaggia, per una partita a carte. C’era pure qualche giovane e qualche raro turista, ma questi solitamente arrivavano più tardi. Nessuno di loro sembrava essersi accorto del gruppetto di personaggi insoliti che era sceso dall’autobus numero uno ed era rimasto a discutere animatamente al capolinea. Solo un bambino ci aveva fatto caso. Ma quando aveva strattonato la gonna della nonna esclamando in modo divertito: “Guarda, ci sono i moretti!”, ed era scoppiato a ridere, la nonna lo aveva zittito senza nemmeno voltarsi. Stava chiacchierando con l’amica che aveva incontrato nell’autobus e non aveva il tempo di dargli retta. E lui, abituato ad essere ignorato, continuò a camminare appeso al braccio della vecchia signora, girandosi di tanto in tanto e ridendo a crepapelle.
“Or che lesti in loco giungemo,
anello trovar testé dovemo,
amici, dove ora andemo?”, disse il più anziano del gruppo.
“Ma dobbiamo parlare in versi anche in questo momento? Non sappiamo nemmeno dove andare. Facciamo prima mente locale e poi avremo tutto il tempo…”, rispose un altro membro dello strano gruppo, aggiustandosi il turbante sotto al quale stava grondando di sudore. Anche se era mattina, il sole scottava e l’aria si era già scaldata.
“In versi eroici noi parlamo
Col decasillabo esultamo!”, gli rispose l’anziano.
“Va beh, va beh. Orsù andamo… e… e…”, il più giovane del gruppo si fermò a pensare guardando in alto in cerca di un’ispirazione divina. Sentendo su di sé gli sguardi dei compagni, aggiunse frettolosamente: “Datemi un attimo. Mi manca ancora solo una sillaba!”. E poi aggiunse incurante dello stile: “…vedemo”.
L’anziano lo guardò di traverso e disse tra sé: “Poveri noi. Abbiamo bisogno urgente di quella scuola…”. Poi, a voce alta e con tono aulico, iniziò a recitare i versi che raccontavano la vicenda del loro eroe Smail-aga Čengić e della sua morte. Conosceva a memoria il poema di Ivan Mažuranić che rese immortale l’eroe ottomano, un uomo che secondo alcuni storici era rispettato nella Bosnia della prima metà dell’800 e che era stato trasformato in un crudele carnefice dal poeta. Era il prezzo dell’immortalità. Sentiva caldo anche lui, quindi si fermò e, mantenendo lo stesso tono, li guardò ad uno ad uno e disse: “Basta con i versi per ora. Dobbiamo pensare al nostro eroe. Hanno preso la sua testa, ma non la sua anima: quella è conservata nell’anello! Dobbiamo trovarlo. Siamo vicinissimi!”.
Uno di loro prese la sacca che portava sulla spalla e tirò fuori un pezzo di carta, piegato molte volte. Lo aprì con cura. In un angolo c’era uno stemma contentente una erre maiuscola. Al centro, lo schizzo di un edificio con una lunga scalinata sotto al quale c’erano degli appunti scritti a matita. Sulla facciata della casa si riconosceva, anche se in miniatura, lo scudo con la erre.
“Ružić! Dobbiamo trovare la villa della famiglia che custodisce l’anello! Chiediamo a qualcuno!”.
Si girarono e intorno a loro non c’era nessuno. Ogni tanto passava qualche macchina, ma nessuno si fermava. Rimasero per un po’ immobili, in silenzio, ad aspettare.
“Andiamo verso il mare. La villa si trova lì!”.
“E come fai a saperlo?”.
“Se tu fossi molto ricco e ci fosse tanto spazio per costruire una villa, dove la costruiresti?”.
“Vicino al mare!”.
“Ecco. Anch’io! Quindi la logica fila. Andiamo!”.
“E dov’è il mare?”.
“Guarda giù! Ce n’è un bel po’ di mare qui. Prendiamo la prima discesa che troviamo e in qualche modo ci arriveremo”.
Il gruppetto s’incamminò. Erano piuttosto accaldati, anche perché oltre al turbante avevano indosso dei pantaloni larghi, stretti alla caviglia, che sembravano fatti con vari strati di tessuto, un gilet di lana e delle scarpe con un bel tacco e una punta allungata. In effetti, il bambino che li aveva definiti dei moretti non aveva tutti i torti, dato che sembrava avessero indosso il costume di carnevale di uno dei simboli della città: il moro che aveva salvato la città dall’assedio dagli Ottomani avvisando i cittadini.
Percorsero un centinaio di metri e alla loro destra si aprì una bella discesa. Era proprio quello che stavano cercando. La brigata era sempre più allegra. Arrivati in fondo, la strada cominciava però a risalire tra le fitte abitazioni.
“Non siamo ancora arrivati al mare. Non possiamo proseguire di là. Venite, qui c’è una scalinata. Da qualche parte ci condurrà!”.
Non avendo molta altra scelta, continuarono a camminare cercando di scendere fino al mare. A un certo punto lo videro scintillare fra le fronde degli alberi: era meraviglioso, di un blu intenso e prorompente.
“Oh mare azzurroso, che consoli il nostro sguardo amoroso…”.
“Per favore, non tormentarci con i tuoi terribili versi. È troppo bello qui per starti a sentire”.
Gli altri ridacchiavano, mentre il poeta si era zittito e sembrava offeso.
“Ecco! Un’altra scalinata. È stretta e ripida. Meglio così! Vuol dire che ci siamo quasi!”.
E i nostri eroi continuarono a camminare finché davanti a loro non apparve il mare. E la spiaggia. E un bel po’ di gente poco vestita. C’era addirittura qualche donna col seno scoperto. Si fermarono, sbigottiti, ma, dopo uno scambio di sguardi, continuarono la loro missione.
Camminavano maldestramente con le scarpe a punta (e con il tacco) sui ciottoli bianchi, schivando i corpi stesi su teli colorati a crogiolarsi sotto il sole. Nessuno badava a loro. Qualcuno li aveva notati, ma erano tutti troppo rilassati per reagire. Un gatto incuriosito li fissava, disteso su un fianco. Continuarono a camminare.
“E ora? Dove andiamo?”.
“Cammina! Sarà Smail-aga a guidarci!”.
E così fu! D’un tratto, videro davanti a loro la grande erre sullo scudo, come appariva sulla loro mappa. Si trovava sulla facciata di una villa, alla quale si accedeva tramite una lunga scalinata, che iniziava proprio davanti a loro e si inseriva, facendo da cordolo, tra i ciottoli bianchi della spiaggia. Rimasero affascinati a osservare quell’edificio imponente ed elegante, anche se si vedevano i segni del tempo e della straordinaria vicinanza al mare. Attraverso il portone rosso in ferro battuto si vedeva bene la volta che accoglieva l’ingresso dei fortunati visitatori di quella magnifica villa. Accanto ad essa c’era una tabella che riportava il nome che cercavano: Ružić. Senza preoccuparsi di nulla, il più giovane del gruppo aprì il portone ed entrarono. La loro totale convinzione di trovarlo aperto funse da magico apriporta. Si trovarono vicino a dei cespugli di profumatissimo rosmarino. Il più giovane andò in avanscoperta: trovò la porta d’ingresso e bussò. E poi ribussò. Ma non successe niente. Intanto, un altro giovane del gruppetto si sedette e si tolse il turbante.
“Fa caldo! Qui non c’è nessuno. Non è che potremmo fare un tuffo anche noi come tutti?”. Aveva appena finito la frase che si trovò davanti un uomo, avvolto da un telo mare blu scuro con la scritta Jugolinija, e con la pelle ricoperta da goccioline d’acqua. Aveva i capelli lunghi fino alla spalla, anche questi bagnati e gocciolanti.
“Si alzi subito da lì! Rovina il rosmarino del Petrarca2! Chi siete?! Chi vi ha fatti entrare?!”.
Il ragazzo scattò in piedi e guardò l’anziano del gruppo, a cui sussurrò: “Quel Petrarca?”. Il vecchio gli fece un cenno con la mano e con modi gentili si rivolse al padrone di casa.
“Veniamo in pace!”, disse proferendo un inchino così profondo che per poco non perdeva l’equilibrio. Gli altri lo imitarono mostrando pari disinvoltura nell’esecuzione del teatrale gesto. Il padrone di casa rimase a bocca aperta e volgendo lo sguardo a sé stesso, avvolto in quell’asciugamano, si immaginò come un pascià a cui vengono porti gli ossequi. Non riuscì a trattenersi e gli scappò una risata, che non venne accolta molto bene dal gruppo. In un attimo tornarono ad essere tutti seri.
“Ripeto la domanda! Cosa ci fate qui!”.
“Ci scusi dell’intrusione. Abbiamo trovato il portone aperto e stavamo bussando alla sua porta. Siamo a Villa Ružić?”.
“Sì. Ma le visite guidate sono solo su appuntamento…”.
“Non siamo qui per visitare la villa ma per l’anello”.
“L’anello?”.
“Sì. Ci risulta che l’anello appartenuto al nostro venerato Smail-aga Čengić sia custodito qui. La prego la cortesia di farcelo vedere. Abbiamo viaggiato per sei giorni e sei notti per trovarlo!”.
“Non è un segreto che l’anello si trovi qui. È scritto anche sul nostro sito Internet. Sei giorni e sei notti? Ma da dove arrivate?”.
“Arriviamo da Kulen Vakuf, dove dalla vecchia fortezza di Ostrovica, protetta dalle amazzoni bosniache, si può ammirare lo scorrere del fiume Una”.
“Kulen vakuf… amazzoni bosniache… non ci sto capendo niente! Sembra una storia di quelle da Sguardo in Bosnia3 del nostro Mažuranić. Siete venuti a piedi da lì?”.
“Ivan Mažuranić?”.
Al nome del letterato, si inchinarono nuovamente.
“No, il fratello Matija. Ma risponda alla mia domanda!”, gli disse spazientito.
“Sì. Sono una quarantina di ore di cammino. Siamo abituati. E poi ci fermiamo a comporre i nostri versi. Sa… camminare favorisce l’ispirazione. Vuole sentire il poema che racconta del nostro viaggio fino a qui?”. Si misero in semicerchio, come una klapa (gruppo corale a cappella, nda) che s’appresta a intonare un canto.
“No, no. Fermi! Ho sentito abbastanza! Sedetevi e riposate. Vi porto qualcosa per rifocillarvi e l’anello. Così la facciamo finita con questa assurda storia”.
E sparì dento la casa.
Attesero una manciata di secondi prima di parlare, per assicurarsi di non essere ascoltati.
“Il piano ha funzionato alla perfezione!”.
“Sì, il piano. Come se ne avessimo uno”.
“Non importa. La cosa che conta è che funzioni. Alla prima occasione prendiamo l’anello e scappiamo!”.
“I nostri piani sono sempre molto dettagliati!”.
“Smettila di lamentarti e preparati mentalmente alla battaglia!”.
“Semper prontus sumus…”.
“Ma lo vuoi stordire a forza di versi?”.
Gli altri del gruppo si misero a ridere e non si accorsero che il padrone di casa era già tornato. Aveva in mano un vassoio con sette bicchieri e un boccale di limonata talmente fresca da aver appannato il vetro. Un raggio di sole si intrufolò tra i rami dell’oleandro che adornava l’ingresso della villa e fece brillare il grande anello che l’uomo portava all’anulare. Quella luce azzerò ogni rumore e fermò il tempo. In un attimo la rilassatezza della bizzarra quanto allegra combriccola si trasformò in tensione. Osservavano senza fiatare ogni suo movimento.
“Accomodatevi. Avrete sicuramente sete”. Versò la bibita nei bicchieri e ne prese uno. Lo portò alla bocca con la mano in cui era infilato l’anello. Gli uomini seguirono il movimento con lo sguardo, e con tutto il capo. Sembravano ipnotizzati. Il più giovane, e anche più sudato del gruppo, dato che era quello più in carne, fece cenno di avvicinarsi al bicchiere. Lo sguardo severo dell’anziano lo bloccò. Ci pensò su per un microsecondo e decise che l’anello poteva aspettare, la sete no. Prese il bicchiere e bevve avidamente. Lo seguirono anche gli altri. Furono molto grati al padrone di casa per quel momento di ristoro.
“Ah sì, l’anello. Eccolo qui. Volevate vederlo”.
Si tolse l’anello e lo diete all’anziano, che rimase a bocca aperta e poi sorrise. Ringraziò con un inchino e disse frettolosamente: “È ora di andare. Grazie e arrivederci!”. Nel farlo si era già incamminato a passo lesto verso il portone d’ingresso e dopo i primi passi iniziò a correre. Il resto del gruppo lo seguì a ruota.
Il padrone di casa rimase talmente sorpreso che non mosse un passo.
“Ma l’anello è della mia famiglia! Cosa ne volete fare? Tornate subito qua!”.
Il gruppetto non si fermò. Rifecero il percorso dell’andata, tra i bagnanti che nel frattempo si erano moltiplicati e che ora toccava scavalcare. L’energia data dall’adrenalina stava calando a causa del caldo e dalla ripidità della scalinata. Non si accorsero che in cima c’era un omone, alto e grosso, ad aspettarli. Dietro a lui, il padrone di casa.
“L’anello!”.
Si sentirono perduti! Il loro piano perfetto non era andato secondo le previsioni.
L’anziano gli porse il gioiello senza discutere.
“Mi dovete delle spiegazioni!”.
Era un uomo colto e curioso, e non poteva resistere alla tentazione di capire e darsi una ragione per quella strana situazione. E in fondo provava simpatia per quei balordi. Gli uomini tenevano lo sguardo rivolto a terra. Erano persi, non sapevano cosa altro fare. Il vecchio si schiarì la voce e iniziò a parlare, lentamente.
“La prego di perdonare il nostro comportamento. Mi creda, non siamo dei ladri. Le avremmo riportato l’anello, una volta completata la nostra missione. Dovevamo tentare. È troppo importante e non sappiamo come altro fare…”.
Il giovane lo ascoltava osservando le rughe dell’uomo vibrare a ogni parola. Le mani gli tremavano. Tutto a un colpo sembrava aver perso quel vigore che lo aveva fatto camminare per sei giorni e sei notti per venire fino a casa sua a rubargli un anello dal valore incerto. Gli fece tenerezza.
“Di che missione sta parlando. Perché vi serve l’anello?”.
Si guardarono tra loro e decisero di raccontargli tutto.
“È un anello magico. Vogliamo usarlo per richiamare lo spirito di Smail-aga Čengic e farci dire dove ha nascosto il suo tesoro. Lo hanno cercato per quasi due secoli, ma nessuno è riuscito a trovarlo. Dovrebbe trovarsi nella zona di Kulen Vakuf, da cui veniamo”.
“Il tesoro? Quindi è un motivo venale a spingervi! “, disse il giovane visibilmente deluso.
“No, no. A noi non importa dei soldi, ma ci servono per la nostra scuola”.
“Una scuola?”.
“Sì, la scuola per diventare scrittori di poemi eroici come il grande maestro Ivan Mažuranić”, e tutti i membri del gruppo si inchinarono al nome del grande poeta e politico. Il padrone di casa li guardava esterrefatto. Di certo non avrebbe mai potuto immaginare di passare una mattinata così interessante, in quella calda giornata estiva che presagiva ozio e tranquillità. Decise di andare a fondo alla faccenda.
“Potete chiamare lo spirito anche da qui?”.
I membri del gruppetto consultarono a bassa voce.
“Non vedo perché no”, rispose il vecchio con rinnovata energia e una scintilla nello sguardo.
“Spiegatemi bene cosa dobbiamo fare e vi aiuterò. Torniamo alla villa”.
L’interno della villa era come un museo: vi erano conservati ritratti, mobili e oggetti appartenuti alla famiglia da generazioni. Dalle ampie finestre ad arco si vedeva il mare, che a ogni movimento della sua superficie sprigionava un bagliore quasi accecante. Quanta bellezza tra l’interno e l’esterno di quella dimora. Si trovarono davanti a una statua a grandezza quasi naturale di un moretto, portato qui da un salotto veneziano, e nel notare la somiglianza tra le loro vesti e quella del moro simbolo della città rimasero un po’ confusi. Si sedettero su dei divanetti di seta dell’800, intorno a un tavolo in cui al centro troneggiava un antico samovar. Era il luogo perfetto per il loro rituale.
“Smail-aga, eroe di altri tempi,
rispondi a chi ti cerca con tormenti”.
“In effetti avevano bisogno di una scuola. Non riuscivano nemmeno a trovare una rima perfetta con tempi… empi, scempi, esempi… passatempi, contrattempi…”, pensava dentro di sé il padrone di casa, elencando mentalmente parole che facevano rima con tempi.
“Vieni a noi che ti veneriamo
come un eroe ti trattiamo”.
“Ecco, almeno questa è una rima come si deve”, pensò sempre tra sé e sé, sbirciando con gli occhi socchiusi la scena. L’anello era in mano all’anziano che lo teneva in alto, sembrava un sacerdote. Gli altri avevano le mani elevate innanzi alla testa, e gli occhi chiusi.
“Sono talmente strambi che potrebbe anche funzionare”, pensò. Per Smail-aga quello era un amuleto che, grazie alla salamandra e al cerchio, simboli di immortalità e infinito, era un auspicio di vita eterna. La logica filava e, in effetti, l’immortalità l’aveva avuta, grazie ai versi di Ivan Mažuranić.
L’anziano ripetè la formula per tre volte, intercalandola con una pausa di rigoroso e profondo silenzio in cui non si sentiva nemmeno il loro respiro. Anche il padrone di casa trattenne il fiato per non essere proprio lui a rovinare la cerimonia.
Niente. Non succedeva niente. Aprirono gli occhi e guardarono tutti il vecchio, che abbassò le mani ormai dolenti per la posizione scomoda e si portò l’anello al petto. In quel momento il campanello fece sobbalzare violentemente tutti. Il ragazzo più giovane caddè quasi dal divano.
“Aspettate, vado a vedere”.
Erano tutti visibilmente turbati da quella instrusione. Chi poteva disturbarli in un momento così importante.
Dopo pochi minuti il padrone di casa rientrò seguito da un uomo molto distinto. Era un suo caro amico: il Console Generale d’Italia a Fiume. Si presentò, si sedette a una poltrona e accavallò le gambe, con fare elegante.
“Forse posso aiutarvi!”.
Un mormorio riempì la stanza.
“Ma dipende tutto da voi”.
“Noi siamo disposti a tutto”.
“Allora ascoltatemi”. E gli spiegò di cose meravigliose a loro sconosciute come i fondi europei e di come fare per ottenerli, con tanto di contatti con persone che li potevano aiutare a partecipare ai bandi. Lo ascoltavano con grande attenzione.
Il vecchio alzò l’anello e disse: “Grazie Smail-aga per averci mandato il tuo Ambasciatore. Così faremo, e la scuola apriremo”.
“Non sono l’Amb…”, disse il Console Generale e guardò l’amico che gli fece cenno di lasciar perdere. Entrambi sorrisero divertiti dalla stravaganza di quella situazione.
Contro ogni previsione, i nostri eroi riuscirono a partecipare e in poco tempo a vincere vari bandi europei e ad aprire una bellissima scuola in cui si insegnava, oltre che a comporre versi, anche varie arti legate alla tradizione artigiana del luogo, per far contenti i burocrati dell’Unione europea. Per realizzare il loro scopo avevano quindi accettato qualche compromesso.
Alla fine il loro piano imperfetto aveva funzionato alla perfezione.
(1) Con questi versi inizia la seconda parte del poema “Morte di Ismail Čengić-aga” di Ivan Mažuranić, nella traduzione in metri italiani di P. E. Bolla, stampato a Fiume nello Stabilimento Tipo-Litografico di E. Mohovich nel 1877
(2) Quelle piante di rosmarino erano state portate qui da Nada Ružić, che le raccolse durante il viaggio di nozze quasi cent’anni prima dalla tomba del grande poeta Francesco Petrarca
(3) Matija Mažuranić, Pogled u Bosnu, Zagreb, 1842 (tradotto in italiano nel 2003)

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