«La Vedova allegra». Arie straordinarie e momenti di grande divertimento

Al Castello di San Giusto a Trieste è andata in scena la celebre operetta musicata in maniera magistrale da Franz Lehár. La rappresentazione ha trascinato gli spettatori in una vicenda dove gli equivoci, gli scambi di coppie e le rivelazioni si susseguono a ritmo vorticoso

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«La Vedova allegra». Arie straordinarie e momenti di grande divertimento
Gli interpreti in scena. Foto: ROSSANA POLETTI

Chi è la Vedova allegra? È la speranza di riscatto di un paese in miseria, non il Pontevedro immaginato dagli autori della famosa operetta di Lehár, bensì il reale Montenegro in cui regna Nicola I, detto il Re Pastore. La apparente povertà, che descrissero coloro che visitarono la reggia del piccolo stato balcanico alla fine dell’‘800, però cozzava con l’educazione che ricevevano i discendenti della dinastia. Tra questi la futura regina Elena che, figlia di Nicola I, fu educata ai valori e all’unione della famiglia; conversava in francese disinvoltamente di politica e poesia. Alta 1 metro e 80, slanciata, sensibile, curiosa, caparbia ma anche schiva, studiò nel collegio Smol’nyj di San Pietroburgo, frequentando la casa reale russa, la “gigantessa slava” così era soprannominata dai suoi sudditi, seguì con devozione il marito. Nel 1896 aveva sposato infatti l’erede al trono dei Savoia, Vittorio Emanuele III (alto 1 metro e 53), matrimonio accolto dallo scetticismo e dall’ironia della buona società; ironia che si rispecchia nella derisione dei librettisti de “La Vedova allegra”, Victor Léon e Leo Stein, assecondati dal compositore Franz Lehár.

La prima del 1907
Il nuovo allestimento dell’Associazione Internazionale dell’Operetta di Trieste, che di questa composizione ha già prodotto alcune diverse edizioni, sottolinea questa storia parallela, racconta nei particolari di quella grande contestazione che pervase molti teatri europei, ad opera dei montenegrini offesi, perché avevano compreso la presa in giro della propria patria e dei suoi regnanti. A Trieste, alla prima del 27 febbraio 1907, dal loggione un gruppo numeroso lanciò in platea volantini in cui si descriveva questo profondo sentimento di offesa e si inveiva contro Lehár, reo di non essere per questo un artista. La storia racconta che fatti analoghi accaddero persino nei teatri di Costantinopoli (l’odierna Istanbul), dando il segno di tutto il malessere che avrebbe portato alle guerre dei Balcani e subito dopo alla Grande Guerra.

Duetti immortali
Beninteso, nonostante il retroscena storico, l’operetta resta un capolavoro, la più rappresentata al mondo in assoluto, densa di arie straordinarie, di coup de théâtre, di momenti di grande divertimento. Alcuni duetti d’amore sono rimasti immortali come il duetto tra Valencienne e Camille, “Das wäre herrlich!” (Sarebbe meraviglioso) e soprattutto “Tace il labbro”, dichiarazione d’amore tra la vedova Hanna Glavary e Danilo. Ma anche le arie “Vo da Maxim”, quando Danilo racconta che al lavoro preferisce le donnine allegre del suo locale preferito di Parigi, e quel “Voglio fare il parigin” di un Njegus, consigliere d’ambasciata, stanco di rincorrere tutti per fare il bene del suo paese. E ancora la commovente “Romanza della Vilja” e il gran finale “È scabroso le donne studiar”.

Un amore difficile
Al Castello di San Giusto a Trieste in una ventosa serata, che segue la prima turbolenza meteorologica di questa strana estate, lo spettacolo senza scene, con solo tanti colori, luci che illuminano il grande palco e gli spalti pietrosi del maniero, accende il pubblico entusiasta, pretendendo molti bis prima di lasciare la platea. Due coppie liriche si alternano nell’amore difficile: quello tra Valencienne del soprano Ilaria Zanetti, moglie del Barone Zeta, e Camille de Rossillon del tenore russo Sergey Kanygin e quello tra la Glavary del soprano Selma Pasternak, pronipote del famoso scrittore russo, e il Danilo del tenore Andrea Binetti, che ha pure realizzato l’adattamento e la regia. A cui fanno da contorno nella storia le figure spassose del Njegus di Alessio Colautti, vero beniamino del genere brillante in città, della Praskovja di Marzia Postogna, capace di coniugare con felice professionalità le sue qualità di attrice e di cantante, e di Gualtiero Giorgini, un Barone Zeta che sembra rispolverare i caratteristici personaggi delle maldobrie, conservando molta originalità nell’interpretazione. Due coppie di ballerini, coreografati da Noemi Gaggi, impreziosiscono la scena. La splendida musica di Franz Lehár, re dell’epoca d’argento dell’operetta, è eseguita dal vivo da un complesso musicale che vede al pianoforte Corrado Gulin, pianista tra i migliori nell’esecuzione del genere della piccola lirica, il violinista Antonio Kozina, che dà alla musica la carica passionale danubiana, assieme a Simone Lanzi al contrabbasso e Paolo Muscovi alle percussioni. Il quartetto esegue pezzi d’assieme, medley con arrangiamenti particolari molto apprezzati.
“È la dimostrazione che se la musica è buona e gli interpreti sono bravi, non servono scene per fare un buon spettacolo”, afferma convinta una signora del pubblico uscendo dal castello.

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