La Grande Guerra, fucina di nazionalismi

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La Grande Guerra, fucina di nazionalismi

Furono oltre centomila i sudditi dell’Impero asburgico appartenenti alla componente nazionale italiana che durante la Grande guerra combatterono nelle file dell’esercito austroungarico. Parlavano la lingua del “nemico“ e per questo furono considerati spesso inaffidabili e sospetti dalle autorità. Inviati soprattutto sul lontano fronte russo, in migliaia caddero prigionieri. Contesi tra Austria e Italia, da entrambi i Paesi vennero visti a volte con diffidenza e nei campi di prigionia russi subirono pressioni contrastanti e tentativi di rieducazione nazionale. Furono lunghi anni passati tra guerra, prigionia e complicati ritorni. E alla fine, quando sembrava che le traversie del conflitto fossero ormai alle spalle, si dovette assistere al ritorno di fiamma di uno spettro che affondava le sue radici nell’Ottocento, ma che appena nel Novecento doveva esplodere in tutta la sua virulenza e rimescolare la carta etnica e geografica soprattutto dell’Europa centrale orientale. Con enormi contraccolpi, alla lunga, anche per la presenza italiana sulle sponde dell’Adriatico orientale, ridotta alla fine al lumicino o quasi. Alla fine del Primo conflitto mondiale tra gli italiani i sentimenti erano contrastanti: c’era chi festeggiava per la vittoria, chi invece insisteva con il concetto poi mitizzato di “vittoria mutilata”.

E da quest’ultimo punto di vista la Seconda guerra mondiale può davvero essere vista come la continuazione di quella precedente, con tutti i ben noti disastri e tragedie. Ma questo è un altro discorso: torniamo a quell’anno, il 1918, quando tra mille tensioni i nuovi Stati nazionali che stavano per sorgere sulle ceneri dei vecchi Imperi iniziavano a battersi o si accingevano a lottare per i loro “confini etnici”, un traguardo spesso irraggiungibile in terre dove le appartenenze etniche e culturali s’intrecciavano in modo inestricabile.

Dalle tragedie alle farse

A cent’anni esatti dalla fine del primo conflitto mondiale assistiamo nel Vecchio continente, addirittura nell’Unione europea, alla rinascita strisciante di quegli egoismi nazionali e di quelle ideologie esclusiviste che un secolo fa portarono poi a un’altra carneficina, ovvero alla Seconda guerra mondiale. Naturalmente parecchia acqua è passata sotto i ponti, la storia non si ripete mai per filo e per segno.
Quella che una volta era stata una tragedia può “ripetersi“ indossando i panni della farsa. I problemi di oggi, con la crisi migratoria in primo piano, non sono certo quelli di cent’anni fa, ma la risposta che viene loro spesso data, quella delle chiusure nazionali, in particolare nei Paesi nuovi entrati nell’Unione europea, non può non far riflettere.
Dalle nostre parti sappiamo bene che i nazionalismi non sono mai sopiti fino in fondo e covano sotto le ceneri anche laddove tutti si riempiono la bocca di parole quali tolleranza e pluralismo etnico e linguistico. Per non parlare delle aree di crisi che di fatto ancora esistono ai confini orientali della Croazia, a partire dalla Bosnia ed Erzegovina dove ancora ogni campagna elettorale si gioca sul filo del rasoio dell’entrocentrismo e i risultati elettorali assomigliano ancora in modo sinistro a dei censimenti etnici.

Un’ombra sinistra

Come dire, l’ombra sinistra della Prima guerra mondiale aleggia ancora sull’Europa, almeno sulla sua parte sudorientale e orientale. In questo caso non soltanto la Seconda guerra mondiale è stata la logica continuazione della prima, ma anche i conflitti della fine del Novecento e dell’inizio del ventunesimo secolo si presentano come una sorta di sinistro prosieguo dell’immane tragedia della cui conclusione quest’anno si celebra il centenario. Richiedere che i commentatori occidentali ne siano consapevoli è forse pretendere troppo nel marasma di informazioni che il mondo moderno offre.
Però per chi in virtù delle sue peculiarità biografiche, è nato e cresciuto in una terra di frontiera, a cavallo di lingue e culture diverse, è inevitabile la spinta a mettere a fuoco le similitudini e i punti di contatto fra le tragedie che puntualmente tendono a rinnovarsi nelle parti più martoriate del Vecchio continente. L’Austria-Ungheria spazzata via dal primo conflitto mondiale si configura in questo contesto come una speranza svanita, come un’entità antesignana dell’unità europea il cui obiettivo primario doveva essere quello di fare sì che non vi fossero mai più guerre.

Il termine nazionalismo

Ma come abbiamo visto i nazionalismi tendono puntualmente a rinascere. Il termine nazionalismo fu usato per la prima volta dal filosofo tedesco Johann Gottfried Herder (Nationalismus) intorno al 1770, ma divenne di uso comune solo negli ultimi decenni dell’Ottocento. Le prime manifestazioni del nazionalismo si hanno durante la Rivoluzione Francese ed in seguito nei paesi occupati dalle truppe napoleoniche; è accettato da quasi tutti gli storici il nesso tra diffusione del nazionalismo e sviluppo industriale di un paese, come pure quello tra nazionalismo ed alfabetizzazione delle masse popolari; in tal senso l’età napoleonica costituisce un chiaro spartiacque tra una Europa prenazionale, dove l’identità dei vari Stati è costituita dalla continuità dinastica, ed una Europa dove il soggetto primo e ultimo della politica interna ed estera è costituito dallo Stato-Nazione. Affinché questo passaggio si completasse era necessaria la eliminazione dell’Impero, inteso come Stato plurinazionale, come modello politico; in questo senso tutte le principali guerre del XIX secolo per terminare per l’appunto con la Grande Guerra contribuiscono alla creazione di Stati nazionali dalle ceneri di Stati plurinazionali come l’Impero Asburgico, l’Impero Ottomano e l’Impero russo.

Sotto mentite spoglie

Oggi il nazionalismo tende a rinascere a volte sotto mentite spoglie, in particolare facendo leva sullo spettro dell’immigrazione incontrollata. La maggioranza dei britannici ha scelto la Brexit anche per il timore dell’invasione da parte… dell’idraulico polacco. La campagna per quest’ultima ha solleticato pure le nostalgie del bel tempo che fu, quando la Gran Bretagna era il paese più importante. Il messaggio è stato: la Gran Bretagna tornerà ad essere tale se rimuoverà le limitazioni alla sovranità nazionale imposte dalla appartenenza alla UE. Ha funzionato in pieno. La Brexit è solo l’ultimo episodio di una ondata di nazionalismo che sembra dilagare in Europa. Negli ultimi anni i partiti nazionalisti hanno ottenuto affermazioni elettorali sempre più importanti in vari paesi. Lo stesso è successo nei decenni recenti: il sorgere dei nazionalismi identitari data in Europa dagli anni 80 (Le Pen) e 90 (Haider in Austria, Pym Fortuyn in Olanda, la Lega in Italia). La crisi ne ha accelerato ascesa.

Similitudini inquietanti

Gli osservatori hanno spesso notato che in Occidente ci sono similitudini inquietanti tra la situazione attuale e gli anni 30 del secolo scorso. Si sente ripetere spesso che l’affermazione dei nazionalismi in Europa negli anni 30 fu dovuta alla crisi del 29 e che la storia si sta replicando, dato che dopo la crisi del 2008 le forze nazionaliste hanno molto aumentato il loro peso politico in tanti paesi. Si rileva inoltre una similitudine culturale: i nazionalismi degli anni 30 e quelli odierni sono entrambi basati su un richiamo identitario, spesso condito con venature di autoritarismo e di razzismo. Più precisamente i nazionalismi di entrambi i periodi hanno diffuso “le norme di una religione politica che nega l’idea della fratellanza umana nelle sue varie forme” (Polanyi). Queste somiglianze fanno correre più di un brivido sulle schiene di milioni di europei dotati di memoria storica, cioè capaci di ricordare cosa venne dopo gli anni 30: la Seconda guerra mondiale.
Queste analogie sono vere e purtroppo ce ne sono anche altre. Sia nel caso attuale che negli anni 30 l’esplosione dei nazionalismi identitari è stata preceduta da una loro lenta progressione nei decenni precedenti. Infatti, era stata l’ondata di nazionalismi che aveva sconvolto l’Europa a metà 800 ad assumere toni sempre più aggressivi e a sfociare infine nella Prima guerra mondiale.
Dunque l’idea che la proliferazione nazionalista attuale sia colpa della crisi in qualche modo è consolatoria perché suggerisce che quando la crisi sarà passata l’acqua in cui nuotano i pesci nazionalisti si asciugherà. Invece l’acqua c’era già prima della crisi. Che quest’ultima ne abbia alzato sostanzialmente il livello o semplicemente sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso non ha grande importanza. Il punto è che l’acqua non si asciugherà quando (e se) la crisi passerà.

Una riflessione d’obbligo

Riflettere sul crollo dell’Austria-Ungheria, nel centenario della fine della Grande guerra, significa non tanto fare il punto sugli equilibri politici e strategici dell’epoca, sulle aspirazioni delle grandi potenze e sui destini dei piccoli popoli, quanto sulle conseguenze funeste dei nazionalismi e delle mire espansionistiche dei vari etnocentrismi che fecero seguito al crollo della Monarchia asburgica. Vale la pena di ricordarsi dei retroscena del conflitto e delle sue conseguenze, i cui strascichi, come testimoniato dalla successive tragedie, li sentiamo ancor oggi.
Il crollo del grande “contenitore austro-ungarico“ ha imposto a studiosi e intellettuali impegnati l’obbligo di riesaminare e risolvere in chiave strettamente nazionale le contraddizioni di queste terre. Parlando dell’Italia, Bettiza appare convinto che la Prima guerra mondiale non fosse particolarmente sentita dal popolo e che l’intervento nel conflitto fosse a sua volta dovuto a miti costruiti ad arte dai circoli di potere. Significativo qui il dialogo tra due grandi firme de La Stampa. Da una parte per l’appunto lo scrittore e giornalista spalatino di lingua italiana Enzo Bettiza, scomparso lo scorso anno, dall’altra Gian Enrico Rusconi, storico e politologo, professore emerito all’Università di Scienze politiche a Torino, che alla Prima guerra mondiale ha dedicato il suo nuovo libro, 1914: attacco a Occidente, edito dal Mulino.

Tra frustrazione e orgoglio

Rusconi è convinto che in questo centenario stiamo dando della Prima guerra mondiale un’immagine che non è quella che ne avevano i contemporanei, e neppure quella che ne ebbero le generazioni successive: “Oggi prevale l’immagine dell’orrore delle trincee. Ma allora, finita la guerra, in noi italiani prevalse l’immagine della vittoria. Sì, la vittoria ci riempì di orgoglio. Non è che non si vedessero i lutti e gli orrori: ma erano lutti e orrori che avevano un senso. Può essere difficile da accettare con la mentalità dei giorni nostri: ma la prima trasformazione che la Grande guerra comportò nel popolo italiano fu quella di farlo sentire un popolo che conta. L’Italia finalmente non era più l’Italietta, si era imposta nel gioco delle grandi potenze. Ma questo punto di vista non convince Bettiza, secondo il quale l’Italia non è uscita con un grande entusiasmo dalla guerra. Per la verità non ci era neanche entrata, con entusiasmo. Soltanto Francia e Germania vi erano entrate con grande impeto. La Gran Bretagna, come sempre, partecipò con grande distacco. L’Italia, poi, non era preparata a una guerra. Ci furono libri e articoli su La Voce di Papini e Prezzolini, che era divisa tra interventisti e neutralisti; e ci furono intellettuali che parteciparono volentieri all’intervento, come Ungaretti. Ma il popolo ne avrebbe certamente fatto a meno. Oltretutto non ne capiva le ragioni: la maggioranza degli italiani era analfabeta, e non sapeva neanche dove fossero Trento e Trieste”. Rusconi ammette che la maggioranza degli italiani fece quella guerra senza sapere niente o quasi: “Ma la classe dirigente, la borghesia, sapeva benissimo quali fossero i nostri interessi. E a guerra finita questi sentimenti diventarono patrimonio anche del popolo. La guerra fu un grande sforzo nazionale che riuscì, che confermò l’idea di Italia. Anche di un’Italia imperiale. Non entrammo in guerra per avere Trento e Trieste: entrammo perché volevamo diventare una grande potenza europea”. Per Bettiza, invece, “anche la borghesia fu tirata dentro con i denti, in quella guerra! Un po’ con il bastone delle minacce e un po’ con la carota dei guadagni territoriali. Quanto al popolo avrebbe fatto volentieri a meno di andare al fronte. E a guerra finita, il sentimento prevalente fu più di frustrazione che di orgoglio. Non ci sentivamo un popolo vittorioso. Anzi ci sentivamo un popolo insoddisfatto, tanto è vero che ci buttammo subito nelle braccia del peggior Mussolini”.

La forza della mitologia

Rusconi non si arrende e ribadisce che “Mussolini lavorò su un sentimento popolare autentico. Che lui sfruttò, certo: ma non inventò. Senza quel diffuso sentimento nazionalistico, il fascismo non si sarebbe imposto; il solo anticomunismo non gli sarebbe bastato. Una delle colpe della sinistra fu quella di non aver capito che il popolo aveva creduto in quella guerra. Addirittura i socialisti permisero che venissero insultati i reduci, gli ufficiali: fu un grande errore psicologico”. La guerra del ’15-’18, prosegue Rusconi, “è stato il primo momento in cui il popolo ha combattuto per l’idea di Italia. Da lì nasce tutta una mitologia che non è solo di D’Annunzio. Attraversa i decenni e tutte le appartenenze politiche: Peppone che si commuove quanto sente la Canzone del Piave appartiene alla narrativa di Guareschi ma anche alla realtà. Una certa idea di Patria nata da quella guerra è stata tramandata, pure nelle scuole, fino agli anni Sessanta. Poi si è smesso. Ma qualcosa è rimasto perfino ai giorni nostri. Penso alla Lega: ne ha dette di tutti i colori sull’Italia e sul tricolore, ma quelle cose lì, il Piave e il Grappa e il Carso, non le ha mai toccate”.
Tutto vero, ammette Bettiza, ma ribatte subito dopo: “Ma la mitologia è, appunto, mitologia. In genere non rappresenta i sentimenti profondi dei popoli. È spesso creata, costruita dalle élite. Si dipinge un popolo impaziente di andare a combattere che, in realtà, non esiste. La grandezza dell’Italia fu un mito creato dagli interventisti i quali erano mossi dai loro interessi e dai loro calcoli. Per giunta la guerra ha poi purtroppo corroso le tradizioni liberali in gran parte d’Europa. Ha favorito i nazionalismi e i fascismi, i quali si sono avvalsi in Germania del duro conto della sconfitta presentato a Versailles, e in Italia della delusione per la “vittoria mutilata”. E qui ritorno a quello che dicevo a proposito del sentimento dominante da noi alla fine della guerra: non era di orgoglio per la vittoria, ma di delusione per non aver ottenuto, nonostante i sacrifici, quello che avevamo sperato”.

Il cambio di rotta

Fino alla Prima guerra mondiale l’Italia era parte integrante della Triplice Alleanza, assieme a Germania e Austria-Ungheria, poi il repentino cambio di rotta. A questo proposito Bettiza sottolinea che il pensiero dominante fra i tedeschi e gli austriaci è questo: “Pensano che ci sia stato un tradimento. Eravamo alleati con loro, e li lasciammo perché Francia e Gran Bretagna ci avevano promesso Trento, Trieste e una parte dell’Istria. Io non parlerei di un tradimento: della mancanza di un impegno preso, però, sì… Certo è vero che da allora ci siamo fatti l’immagine, se non dei traditori, degli alleati poco affidabili.
Una cosa appare purtroppo certa. La storia non insegna nulla o quasi. Il passato tende a ritornare. In questo contesto polemizza amichevolmente con la letteratura del centenario, che legge il passato solo con la sensibilità del presente. Per noi, oggi, una madre che perde un figlio in guerra è intollerabile; ma ‘Salvate il soldato Ryan’ è un film del nostro tempo. Il sentimento generale provocato dal primo conflitto mondiale non fu un ‘basta guerre!’. Fu un ‘abbiamo vinto!’. E, purtroppo, la voglia di altre guerre”. E qui Bettiza è pienamente d’accordo in linea con la chiave di lettura che vede la Seconda guerra mondiale come una continuazione della prima: “È vero, l’Europa non uscì dalla Grande Guerra con una voglia di pace. Uscì con una grossa frustrazione delle masse popolari, con una pericolosa tentazione di revanscismo da parte degli sconfitti e perfino da parte dei “mezzi vincitori” come l’Italia. Il sentimento che prevalse favorì un’altra guerra. Per questo è corretto dire che la prima e la Seconda guerra mondiale furono in realtà un’unica grande guerra interrotta da una breve tregua. Più passa il tempo e più si riconosce questa unitarietà”.

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