
“Se si potesse trascorrere quel che resta della vita in qualche modo, in modo nuovo. Svegliarsi in una limpida, tranquilla mattina e sentire che hai ripreso a vivere da capo, che tutto il passato è dimenticato, è svanito come fumo. Cominciare una vita nuova…”. Sono le parole riportate da Anton Pavlovič Čehov nello “Zio Vanja”, uno dei suoi capolavori, e riprese dalla drammaturga Petra Pleše per farle pronunciare dalla protagonista dello spettacolo firmato da Ivan Plazibat “Kad se zaljubljujemo” (Quando c’innamoriamo), nuovo coinvolgente titolo proposto dal Dramma Croato, la cui première è andata in scena l’altra sera nella sala orchestrale del Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc” di Fiume. Infatti, la pièce, che ha coinvolto la grande Olivera Baljak (la madre Lara), come pure gli attori Jelena Lopatić (Zrinka), Aleksandra Stojaković Olenjuk (Lea), Deni Sanković (Toni), Romina Tonković (Andrea) e Ana Marija Brđanović (Karolina), si rifà a questo e a molti altri momenti ed elementi cehoviani per esprimere le emozioni, le storie e i percorsi dei personaggi, nonché esporre svariati contenuti.
Tematiche e riflessioni
Le persone più grandi d’età hanno diritto a un nuovo amore, alla passione e a un nuovo inizio? L’amore si può tradurre in egoismo e possessività? Abbiamo il diritto di stigmatizzare e giudicare le storie nate via Internet? Quanto sono cambiate le norme sociali odierne rispetto al passato? Cosa significa scegliere di trasferirsi in un paese a maggioranza musulmana, nonostante il compagno cristiano? Abbiamo il diritto di considerare i paesi musulmani quali estranei e aventi una cultura completamente diversa dalla nostra? È possibile superare le barriere generazionali e tutto ciò che le stesse comportano? È giusto che siamo noi a scegliere il nostro destino? Sono soltanto alcune delle tante questioni sollevate nell’intensa rappresentazione, il cui scenario è stato realizzato coralmente da tutto il cast di attori, di concerto con il regista e la drammaturga.
Un colpo di fulmine virtuale
Tematiche importanti, che toccano corde emotive, paure, dolori, pregiudizi, legami ancestrali profondi e sopiti, le quali prendono piede ed esplodono nel corso di una consueta e apparentemente tranquilla riunione familiare di tre figli a casa della madre, quando vengono a sapere del suo innamoramento e della decisione di partire e cambiare vita. Non si tratta, però, di una relazione con un collega di lavoro, un amico storico, un vicino di casa o con qualcuno conosciuto in qualche occasione particolare, bensì di un amore sbocciato via Internet, un colpo di fulmine virtuale nei confronti di un uomo egiziano, più giovane di lei, che vive nel Cairo. La drastica decisione di Lara, elegante e stilosa primadonna del Teatro Nazionale, divorziata da anni dal marito, provoca una forte opposizione e resistenza nei figli, aprendo un vero e proprio vaso di Pandora, dal quale fuoriescono, in un crescendo di urla, porte sbattute e reazioni, pensieri e parole figlie dell’ira e dell’incredulità, che, sempre a modo di Čehov, rasentano l’assurdo e il grottesco. Le stesse, come non di rado avviene in pièce del genere, nelle quali le emozioni e i vissuti reali e fittizi spesso si intrecciano, portano talvolta gli artisti ad allontanarsi dal testo scritto e dai ruoli prefissati, per cui è fondamentale la loro massima attenzione e concentrazione, come pure l’ascolto degli altri, il che rende l’azione autentica e vitale. Ne è risultata, infatti, un’interpretazione corale efficace, dal ritmo azzeccato, mai fuori tono, cavalcante, coinvolgente e capace di centrare i momenti chiave della storia con precisione e chiarezza. Il senso di smarrimento, rabbia, scetticismo e sofferenza che solo il dialogo, l’amore e, paradossalmente, il cibo, nello specifico una discutissima zuppa di baccalà (che ripropone anche le questioni relative alle scelte alimentari dei protagonisti), riescono a colmare, vengono espressi egregiamente dagli attori, creando un’atmosfera malinconica che coinvolge il pubblico e lo invita a ripensare al senso della propria esistenza. In tale contesto, Ivan Plazibat ha rilevato che “il diritto dell’individuo alla ricerca della felicità è un valore universale e la letteratura è piena di racconti in cui gli individui superano i confini della stessa. Abbiamo cercato di conferire alla nostra protagonista un altro limite da superare – quello dell’età”.
Lara e Zrinka
I personaggi, scandagliati nei minimi dettagli, i cui caratteri si delineano sin dalla prima scena attraverso le solite conversazioni familiari, sono vissuti e indossati dai loro interpreti con gusto e leggerezza, con la giusta ironia e verità, passando dal dramma ai momenti comici in modo godibile e convincente. Ed è proprio il loro abitarli con naturale scioltezza, abilità e plasticità la cifra della messa in scena, sulla quale si accavallano e si esprimono, a tratti con silenzi vissuti ed eloquenti, accompagnati a volte dalle dolci e tristi note di accennate melodie, tutta una gamma di sentimenti, altro stampo di fabbrica dell’autore russo, da loro perfettamente raccolta e trasmessa. In particolare Lara e Zrinka, madre e figlia, legate dal vivere in comune e da un rapporto di dipendenza affettivo/materiale, presentano le temperature emotive più elevate.
Olivera Baljak, nel ruolo dell’elegante attrice un po’ agé che nel corso della sua carriera presso il Teatro ha interpretato tutti i personaggi dello “Zio Vanja”, e della madre “all’antica”, tesa alla cura e al mantenimento dei valori tradizionali, dei rapporti familiari stabili e armoniosi, del cucinare le ricette di una volta (la sua relativa alla zuppa di baccalà, ripresa dalla figlia, è la migliore!) è stata magistrale. Prigioniera delle proprie convinzioni, dei dettami sociali, della forma, dell’apparenza, della solitudine, dei doveri nei confronti dei figli, del ruolo professionale, si lascia ammaliare dal potere di Internet e vive un amore virtuale con un professore egiziano, tale da farla decidere di raggiungerlo. Il suo cuore, come rileva lei stessa, è nuovamente vivo e batte di più che per il teatro, per cui seguirlo, aiutata da Karolina, collega e amica della figlia Lea, diventa quasi inevitabile, come lo sono i patemi d’animo, i sensi di colpa, le domande che la donna si pone a riguardo. Zrinka invece, appesantita dall’età che avanza e dalle delusioni riservatele dalla vita, nel rendersi conto di averla sprecata per dedicarsi alla madre, che alla fine se ne va e la lascia da sola, senza sognare nulla per sé, in balia della solitudine, dei 150 metri quadri della loro casa, delle ricette perfezionate per farle piacere, dei capricci e caratteri delle due sorelle e del fratello, i cui destini si addossa quasi in automatico, appare un personaggio dolorosamente tragico, che incute tenerezza. Con un guizzo, tradotto in un toccante monologo rivolto alla madre, dà agli spettatori una botta finale, commuovendoli apertamente nel consegnargli la sintesi emotiva e interiore di tutta la vicenda.
I figli, Karolina e Andrea
Nel ruolo del figlio Toni, Deni Sanković esprime in maniera decisamente degna di nota l’affetto, intessuto di durezza mascolina e dipendenza emotiva, tradotto nelle visite e negli imperdibili pranzi domenicali, dalla mamma, nonché il suo vivace legame con le sorelle. Dall’altro canto si distingue Lea, sempre al cellulare, immersa nel lavoro e nell’inseguimento dei modelli imposti dalla società contemporanea, la cui inquietudine del vivere odierno s’incarna in ogni centimetro del suo corpo e dei suoi gesti. Non sono da meno Karolina e Andrea (la fidanzata di Toni) le quali, ognuna a suo modo, portano a galla svariate problematiche inerenti al lavoro, al significato dell’agire morale, alle preoccupazioni dei giovani, ai loro diversi modi di vivere ed essere.
Il coinvolgimento del pubblico
Ritratto tragicomico di grandi illusioni, sogni, apparenti sicurezze e speranze ingannevoli, la storia di “Quando c’innamoriamo”, a modo delle scelte cehoviane, è calata in una scena spoglia ed essenziale (curata da Paola Lugarić Benzia), eccellentemente riempita dagli artisti, definita solo da un grande tavolo imbandito, due poltrone e un tavolino, un tappeto persiano, un pianoforte e alcuni lampadari pendenti, atti a fare luce (sapientemente firmata da Predrag Potočnjak) e accompagnare, a braccetto con la musica di Sandi Bratonja e agli azzeccatissimi costumi creati da Manuela Paladin Šabanović, i momenti più salienti e peculiari dello spettacolo. In conclusione della pièce, le accennate questioni sollevate dagli attori e da Plazibat rimangono lì e risuonano nella testa dello spettatore, chiamato, nell’allestimento e nell’atmosfera “da camera” e intima della sala orchestrale, quasi a respirare il malessere dei personaggi, ma, in primis, a riflettere sulla possibilità e il coraggio di accettare, di mettersi in gioco, di osare, di andare oltre, di scegliere di vivere la propria vita.

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