
È stato molto bello incontrare il talentuoso ballerino Giorgio Otranto, dal 2023 facente parte del Corpo di ballo del Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc” in qualità di solista, e appurare che incarna l’essenza più pura della danza. Nato a Rossano, in Calabria, con grande passione, dedizione, studio e forza di volontà ha affinato la sua arte portandola sui palcoscenici internazionali coniugando, grazie alla formazione all’Ateneo della Danza di Siena, tecnica e consapevolezza e divenendo un interprete raffinato e sensibile. Oltreché danzatore eccellente è un giovane autentico, solare, con la testa sulle spalle, aperto al mondo e desideroso di imparare, che guarda agli ostacoli quali opportunità di crescita, conscio del valore della disciplina e della costanza. La sua danza è introspezione, un linguaggio universale capace di superare i confini della forma e farsi pura emozione. Lo spirito di apertura e la ricerca costante di nuove prospettive lo rendono un artista destinato a lasciare il segno. Un amore nato nella sua cameretta “dove mi chiudevo nel periodo della scuola elementare con il mio primo computer, mettevo la musica e danzavo. Mia madre bussava, apriva la porta e mi chiedeva – ‘Che fai?’, al che, dato che mi vergognavo, rispondevo – ‘Niente’ –, e lei diceva – ‘Come niente, sei tutto rosso!’ (risata). Poi ballavo anche nel soggiorno, nei supermercati …”, ha esordito.
I primi passi
In seguito ai succitati primi approcci, Giorgio ci ha raccontato che “cominciai a studiare ballo verso gli undici anni, quando entrai nella scuola di danza, dove facevo breakdance, balli di coppia, hip hop, fino ad arrivare alla moderna e alla classica, nonché intorno ai quindici/sedici cominciai a dedicarci più tempo ed energia. Quando iniziai a studiare al liceo classico, non fu semplice: la mattina andavo a scuola e il pomeriggio facevo danza, studiando in due istituzioni diverse. Le opportunità in Calabria non sono tantissime, per cui ero costretto ad assentarmi per partecipare, una settimana qua e una settimana là, a vari workshop e stage, il che comportava non pochi costi. Per fortuna, grazie all’adesione a vari concorsi, ricevevo le borse di studio, che mi permettevano di non dover sostenere esagerati pesi economici relativi alle spese viaggio e quant’altro”.
È stata una scelta quindi molto voluta, perseguita, nonostante la giovanissima età, con passione, determinazione, ambizione …
“Caratterialmente sono una persona molto lucida e non lascio che le cose mi influenzino troppo, anzi, sono sempre molto concentrato su me stesso e cerco di non perdere mai la razionalità. A tale riguardo ho notato che da quando lasciai casa, di anno in anno questo atteggiamento mi appartiene sempre di più. Nonostante mi fosse sempre piaciuto studiare – al punto di riprendere a farlo lo scorso anno iscrivendomi a Lettere classiche presso l’Università Unimarconi di Roma – dedicarmi pienamente alla danza fu una scelta assolutamente voluta. Ci arrivai con serenità anche grazie al supporto e ai suggerimenti dei miei insegnanti dell’Ateneo della Danza di Siena (sotto la direzione artistica di Marco Batti), dove mi trasferii e studiai. Il secondo anno, la mattina, cominciai a fare i tirocini in seno alla compagnia di danza del Balletto di Siena e anche quello fu un periodo bello tosto e di grandi sfide, in quanto il pomeriggio continuavo con la scuola di formazione”.
La famiglia le è stata vicino?
“I miei genitori mi hanno sempre sostenuto in tutto quello che ho fatto, il che è meraviglioso e ogni qualvolta ci penso mi emoziono. Ho una famiglia bellissima, che mi supporta, mi incoraggia, è contenta e fiera di me, per cui mi sento fortunatissimo e sono molto grato”.
Il mondo della danza è competitivo, sia in senso positivo che negativo. Come lo percepisce lei?
“È un ambiente competitivo che si avverte sin da quando si entra in scuola, da piccolissimi, che ho sempre cercato di vivere con serenità. Lo faccio anche oggi nel mondo lavorativo, dove mi piace portare armonia ed energia positiva tra i miei colleghi: lascio la mia vita privata fuori dallo stesso e miro a una comunicazione di qualità, a relazioni professionali efficaci e tranquille, senza ostentazioni. Poi ci sta che per ragioni che posso o non posso intuire qualcuno rimane male per qualcosa, il che non dipende da me, ovvero non faccio nulla di intenzionale per provocarlo. Le mie uniche sfide e competizioni sono con me stesso: altrimenti il lavoro viene viziato di energia negativa, la quale non è mai produttiva, anzi, è controproducente”.
A proposito di luce, bellezza e studio
Parlando di sfide, come vive il suo corpo, la sua immagine, l’oggettiva bellezza?
“Ho un rapporto pacifico con il mio corpo, anche se, dato che noi ballerini lavoriamo costantemente con lo specchio di fronte, a volte pensiamo “se fossi più alto, se avessi le braccia più lunghe, se fossi più forte, se il mio piede fosse più bello e simili”. Siccome, però, è parte della mia professione, lo gestisco in maniera tranquilla e non provo nessun tipo di sofferenza o malessere, anzi, lavoro sui miei punti deboli e cerco le alternative per fare sì che questi pensieri non mi inglobino, non mi limitino, non mi facciano stare male. Poiché mi impongo di dormire un sufficiente numero di ore, di arrivare a lavoro in anticipo, e preparare il mio corpo, di seguire un certo tipo di alimentazione, di essere sempre pronto e preparato, nonché di curare tutte le accortezze tese ad evitare qualsiasi tipo di disturbo, mi infastidisce molto se il corpo non mi ascolta. Per ciò che concerne la bellezza, ad oggi parlarne è un argomento molto delicato. Nel nostro mondo, come in molti altri, può rappresentare il primo biglietto da visita, ma non è sufficiente. Una bellezza naturale deve essere supportata dal talento, dalla tecnica derivata da anni di studio e altre caratteristiche quali una forte personalità, presenza scenica, determinazione, tutte essenziali per questo lavoro. A mio avviso, un buon danzatore deve essere genuino sul palco, credibile, deve sapersi raccontare, rivelare piano, ma anche farsi scoprire”.
Rimanendo sul tema, nel balletto «Čajkovskij» proposto a metà gennaio al Teatro fiumano a firma del coreografo spagnolo Cayetano Soto, sotto la direzione artistica di Paolo Mangiola, è stato molto apprezzato dal pubblico che ha percepito, oltreché l’indubbia bravura dal punto di vista tecnico, anche la sua forte energia, la personalità, quella luce che fa (e in quell’occasione è stato chiaramente così) la differenza …
“Per quanto non fosse un lavoro nuovo per la compagnia, questo ‘Čajkovskij’ è stato un po’ un debutto per me, dove ho sostituito ballerini più maturi e con maggiore esperienza della mia. Quindi, nonostante mi sia trovato a fare i conti con grandi responsabilità, al contempo ho vissuto la gioia di poterlo fare. La stessa, però, è arrivata piano piano, spettacolo dopo spettacolo, con l’acquisizione di una sempre maggiore confidenza con i vari ruoli”.
Le piace rivedersi?
“Non mi piace farlo, ma nel mio lavoro ritorna essenziale perché quando lo si fa ci si accorge di tante cose, di svariati dettagli che mancano o possono essere fatte meglio. Dato che, come detto in precedenza, noi lavoriamo con la nostra immagine, con il nostro corpo, è importante avere una chiarezza, una pulizia nel movimento, nella qualità, nella dinamica. È un lavoro di perfezionismo e, in tale senso, dipende dalla ragione che mi porta a rivedermi: se l’occhio deve cadere su di me, mi focalizzo lì. Trovo altresì una grande fonte di ispirazione guardare e imparare da chi mi sta vicino, dai miei colleghi. Ognuno ha le sue caratteristiche e le sue peculiarità, per cui tutto è utile per migliorare, cambiare, crescere. In tale senso, noi ballerini lavoriamo con i nostri corpi, con una precisione quasi chirurgica su dettagli che a volte il pubblico nemmeno nota”.
La fiducia
Che rapporto ha con il pubblico?
“Vi è quello critico del settore e un pubblico semplicemente appassionato di teatro, di balletto, di cultura. Quindi, indipendentemente da tutto, lo spettacolo in generale è sempre un evento, un punto di ritrovo, di incontro. Da un lato per me è molto importante ascoltare i giudizi professionali del team che ci segue. Dall’altro, siccome sono curioso di capire come arriva e viene vissuta dagli altri, mi piace avere fra gli spettatori anche persone che fanno tutt’altro nella vita, che vengono per amicizia, per passione, per qualsiasi motivo”.
Ha capito in che modo arriva lei?
“Ho appena iniziato la seconda stagione allo ‘Zajc’ e, in effetti, sto assumendo ora le mie prime responsabilità, nonché, dato che siamo in una compagnia nazionale, è tutto un processo, nell’ambito del quale, per migliorarsi, per sfidarsi, c’è bisogno di tanto lavoro su sé stessi. A seguire, se lo si fa, piano piano inizia a essere riconosciuto, per cui le stesse aumentano. In tale contesto, in questi ultimi mesi sto ricevendo tanta fiducia da parte del team che segue la compagnia: mi vengono assegnati dei ruoli e il mio compito è quello di entrarci, di divertirmi e fare del mio meglio, ma anche di non deludere le loro aspettative. Dato che tutto ciò mi spinge a fare sempre di più e a tenere degli standard molto alti. Per quanto riguarda il modo in cui arrivo, sto ricevendo tanti feedback positivi, mi sento accolto, benvoluto, apprezzato. Il momento degli inchini a fine spettacolo per me è un ritrovo a cuore aperto con il pubblico, e un momento di gioia, di riconoscenza, di gratitudine”.
La scelta di Fiume
L’amore per la danza l’ha portata dalla Calabria dapprima a Siena e poi a Fiume. Ci racconta questo passaggio?
“Dato l’eccellente repertorio, seguivo l’ensamble fiumano da un po’, e considerata la particolarità della città e la sua vicinanza con l’Italia, mandai la mia candidatura. In quel momento mi risposero che non vi erano disponibilità, ma qualche tempo dopo, a seguito di un posto liberatosi dopo la partenza di un ballerino per la Germania, feci un’audizione a Rieti, in Italia, con l’ex direttrice artistica dello stesso, Maša Kolar. Successivamente mi offrì un contratto, che accettai con grande entusiasmo”.
Le piace il capoluogo quarnerino? Come ci si sente?
“Mi piace molto, sia come città che come ambiente lavorativo e le persone che mi circondano. A dire il vero, in un primo momento, appena arrivato, non conoscendo la lingua, non avendo amici né punti di riferimento, ebbi una crisi di solitudine e forte nostalgia di casa. Poi è passata, ma il cruccio, dopo quasi cinque anni lontano da casa, di non avere più spesso la possibilità di vedere la mia famiglia, che spero mi verrà presto a trovare, rimane. I miei genitori e mia sorella, i miei zii, però, sono contenti per me e mi supportano, il che mi dà sempre forza. Quelli che probabilmente soffrono di più sono i nonni, che sento telefonicamente, soprattutto la nonna, tutti i giorni verso le sedici e trenta e che se chiamo un’ora più tardi, va in panico”.
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