FIUME | In un duplice appuntamento a Fiume e Abbazia, Emanuela Ceva, professore associato di Filosofia politica presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Pavia e titolare della cattedra di Teoria politica presso l’Università di Ginevra, è stata di recente uno dei relatori principali alla summer school “Equality and Citizenship” promossa dall’Università di Fiume e dal Centro sugli studi del Sudest europeo. La studiosa italiana ha inoltre partecipato a una discussione nell’ambito del programma Opatija Coffeehouse Debates.
L’abbiamo incontrata ad Abbazia, prima della discussione incentrata sul suo ultimo libro “Is Whistleblowing a Duty?”, in cui cerca di dare una risposta su come approcciarsi ai fenomeni dei segnalatori di irregolarità presso enti pubblici o aziende private e come responsabilizzare le parti coinvolte.
Per quale motivo uno sarebbe tenuto a denunciare un illecito anche se consapevole delle possibili ritorsioni? Soprattutto se consideriamo la mancata tutela dei whistleblowers in alcuni dei casi più importanti degli ultimi anni, come Snowden o Chelsea Manning.
“È una domanda fondamentale: perché qualcuno dovrebbe farlo? Quando pensiamo al whistleblowing facciamo effettivamente riferimento a casi come Snowden e Manning o a quelli di individui isolati che mettono in pratica dei comportamenti eroici, diventando di conseguenza vittime di mobbing, licenziamenti, minacce alla vita, rischiando perfino – come nei casi Snowden e Manning – l’imprigionamento o l’esilio. Se il whistleblowing comporta un costo così alto non può fare parte della moralità ordinaria perché è un atto straordinario. La domanda che io e il coautore del libro, Michele Bocchiola, ci siamo posti è se sia possibile pensare al whistleblowing in un modo diverso. Noi vogliamo proporre il whistleblowing come pratica organizzativa e dovere delle istituzioni.
Una buona istituzione, ma anche un’organizzazione privata ben funzionante dovrebbero avere al proprio interno dei meccanismi di autocorrezione che permettano a chi lavora all’interno di rendere noti gli inceppi, le ingiustizie o i malfunzionamenti dell’istituzione e di chiamare a rispondere chi si macchia di questi comportamenti rimettendo così in carreggiata l’istituzione stessa. Per questo motivo riteniamo che il whistleblowing sia un dovere delle istituzioni. Gli individui hanno il dovere di segnalare illeciti se, e soltanto se, esistono dei meccanismi di segnalazione certi e sicuri capaci di proteggere chi denuncia.
Il problema con il caso Snowden o Manning è che l’alto costo che hanno pagato segnala un fallimento istituzionale. Il costo personale è troppo alto e qui il livello di moralità sarebbe adeguato al profilo di un santo. Ma noi non possiamo pretendere che le persone agiscano come dei santi.”
Esistono dei meccanismi a livello internazionale di tutela dei whistleblowers?
“Non ci sono procedure standard, però esistono molte regolamentazioni nazionali. In Italia, per esempio, c’è una legge, approvata due anni fa, che dà sostegno legale attraverso l’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione) che è pure un punto di raccolta delle segnalazioni. È stato chiesto alle varie organizzazioni, anche alle banche, ad esempio, di dotarsi di meccanismi interni di raccolta delle informazioni. Tutte le pubbliche amministrazioni ora devono prescrivere una mailbox alla quale le persone possono inviare segnalazioni in modo confidenziale, ma non anonimo. L’anonimato non è quasi mai incluso. Noi giustifichiamo il whistleblowing come il dovere di rendere conto, ma per rendere conto non si può essere anonimi.”
Fino a che punto è lecito chiedere la completa trasparenza dello Stato e dove invece la tutela dei suoi interessi diventa più importante della tutela degli interessi dei singoli cittadini?
“Io non credo che sia possibile pensare che la trasparenza sia un valore intrinseco. Non necessariamente la trasparenza è un valore di per sé. Si tratta di un valore condizionato. Noi dobbiamo avere istituzioni trasparenti laddove la trasparenza è necessaria per rendere possibile la rendicontazione delle istituzioni. Il valore ultimo è l’accountability, mentre la trasparenza è uno strumento. Ci sono casi in cui accountability non vuol dire necessariamente trasparenza, ma vuol dire chiamare chi deve prendere le decisioni a rispondere in modo appropriato alle autorità preposte, che a loro volta possono non essere l’opinione pubblica, ma anche solo dei magistrati. Ci sono casi in cui la segretezza può essere interamente giustificata. Però, quando la segretezza viene messa in discussione, allora chi ha preso le decisioni deve poter rispondere pubblicamente di ciò che ha fatto. È una questione di prendersi le responsabilità e di trovarsi nella posizione di renderne conto. Strumentalmente e per brevi periodi la segretezza piò essere giustificata.”
Che cosa rende un Paese suscettibile alla corruzione?
“Nell’ambito delle mie ricerche ho notato che, in generale, la corruzione è un fenomeno culturalmente molto variabile perché la corruzione è una patologia del sistema istituzionale e questi sistemi sono molto diversi tra loro. C’è una linea di base che è transculturale e credo abbia a che vedere con l’idea della capacità di rendere conto. Ma gli standard tramite i quali si rende conto cambiano molto. Quello che mi ha molto colpito è una certa regolarità di come viene percepita l’anticorruzione. Tipicamente nei Paesi del nord l’anticorruzione viene vista come una questione di etica pubblica, mentre nei Paesi del sud l’anticorruzione viene vista come una faccenda di intervento legale. Ciò che rende il problema molto complicato, dal momento che i Paesi del nord tendono ad avere tassi minori di corruzione, è che molto spesso i Paesi meridionali tendono a riprodurre le stesse regole dei Paesi settentrionali nel loro contesto e queste, ovviamente, non funzionano. Il trucco non sono le regole, ma l’etica pubblica.”
Torniamo al whistleblowing. Lo scandalo “Cambridge Analytica” è stato un caso eclatante di denuncia nel settore privato in cui abbiamo visto come sia semplice mettere a repentaglio la democrazia tramite innovazioni tecnologiche. Esiste un modo per fermare questi colossi informatici che sono diventati, di fatto, delle istituzioni sovranazionali?
“Credo che sia stato un grande errore rispondere a questo fenomeno per mezzo della sovraregolamentazione. Di fronte alla difficoltà di arginare questo problema si aumentano le regole e si riduce il margine di discrezionalità. Il problema è che se questa regolamentazione non viene accompagnata da una regola d’ufficio che sia ispirata ai principi di rendicontazione non c’è regolamentazione che tenga. L’unica cosa che mi sento di dire, da un punto di vista di studiosa di etica pubblica, è che se vogliamo arginare un rischio di questo tipo è necessario chiamare questi soggetti a rispondere pubblicamente del loro comportamento, coinvolgendoli nel processo decisionale. Finché la regolamentazione viene vista come un vincolo esterno imposto dall’alto… fatta la legge trovato l’inganno. La saggezza popolare spesso ci dice verità filosofiche molto profonde. Se la regolamentazione è una questione di imposizione di un autorità terza, non c’è modo che questa possa funzionare. La strada dell’etica pubblica è la via maestra.”
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