La biblioteca del conte Francesco Grisoni

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La biblioteca del conte Francesco Grisoni

Dopo l’esperienza di Lubiana, con l’allestimento della mostra La biblioteca del conte Francesco Grisoni tra Illuminismo e Risorgimento, ospitata alla Biblioteca Nazionale e Universitaria e dedicata ai libri del conte Grisoni, con una scelta di opere tra le più significative custodite nel reparto di storia patria e dei beni librari della Biblioteca centrale “Srečko Vilhar” di Capodistria, le iniziative capodistriane hanno rappresentato il primo momento d’approfondimento relativo a questo importante fondo librario. Francesco Grisoni (1772-1841), oltre ad essere stato un possidente terriero come i suoi predecessori, si distinse come bibliofilo e per uno spiccato interesse culturale. Si era formato nel Collegio dei Nobili di Siena, proseguì gli studi a Torino, viaggiò molto e aprì gli orizzonti intellettuali. L’unico figlio, Santo Raimondo Pompeo, ufficiale austriaco nel reggimento “Re di Sardegna” di stanza a Lodi, morì in strane circostanze il 15 marzo 1833 durante un duello a sciabola con l’ingegnere milanese Carlo Dembowsky. Nelle sue ultime volontà, il conte Francesco aveva previsto la cessione della biblioteca ai padri benedettini di Praglia (Padova), gli stessi che grazie al lascito testamentario ottennero i vasti beni immobili a Daila, a Sant’Onofrio e nella valle di Sicciole, compresa una buona parte dei bacini di cristallizzazione nelle locali saline, ma per motivi a noi ancora ignoti la raccolta libraria rimase nella città di San Nazario. Essa confluì nel Pio Istituto Grisoni voluto dallo stesso conte ed istituito nel 1859; sino al secondo dopoguerra svolse un ruolo fondamentale nell’educazione dei ragazzi.

Nel 1946 quella raccolta composta da migliaia di volumi fu trasferita a Palazzo Belgramoni Tacco, sede della Biblioteca civica, quindi a Palazzo Brutti, cioè nella nuova Biblioteca cittadina, in seguito Biblioteca degli studi e oggi Biblioteca centrale “Srečko Vilhar”. I libri furono salvaguardati e sono giunti a noi quasi
in toto, ma al contempo vi fu una limitata attenzione, indubbiamente non ci furono iniziative per fare conoscere la biblioteca al pubblico, parimenti nessuno dedicò uno studio specifico; i pochi scritti editi sovente contengono dicerie, inesattezze e supposizioni mai suffragate dalle fonti. Insomma, per una singolare somma di circostanze, la biblioteca fu risparmiata da smembramenti, i suoi volumi non furono mai celati, ma non incontrarono né curiosità né interesse, di conseguenza a Capodistria e non solo tale fondo librario è rimasto pressoché misconosciuto.

Storia culturale di Capodistria e cultura in Adriatico

Il convegno (La Biblioteca Grisoni. Libri e circolazione del sapere a Capodistria e nell’alto Adriatico tra Sette e Ottocento), la mostra riproposta nello spazio espositivo di Palazzo Gravisi, sede della Comunità degli Italiani “Santorio Santorio”, e quella allestita all’Archivio regionale (Il casato Grisoni di Capodistria e i suoi legami di parentela), hanno gettato nuova luce e arricchito le conoscenze con tasselli importanti sul lascito librario, sul casato e in particolare su Francesco Grisoni, l’ideatore della ricca biblioteca. Quest’ultima e il suo artefice sono stati considerati anzitutto entro la cornice giustinopolitana, l’orizzonte, però, è stato allargato anche a taluni altri attori più o meno coevi, sia cittadini sia delle terre contermini, con il fine di cogliere analogie e differenze.
L’interesse si è focalizzato sulla temperie culturale a cavallo tra due secoli, contraddistinti pure da importanti trasformazioni politiche, che coincisero con la caduta della Repubblica di Venezia, le guerre napoleoniche e il susseguirsi delle amministrazioni nelle terre dell’Adriatico nord-orientale. Particolare attenzione è stata riservata alla collezione libraria del conte, che è stata presentata attraverso la sua costituzione e la sua articolazione nelle diverse sezioni. Qual è il contenuto della biblioteca? Riportando i dati proposti da Peter Štoka, che ha esaminato nei dettagli il fondo librario, questa si compone di 748 titoli per complessivi 3.288 tomi, ai quali si aggiungono 675 fascicoli di periodici, tutto sistemato negli armadi originali. Per il 56% si tratta di opere in lingua italiana, il 41% in lingua francese, il 3% è rappresentato da quelle in latino. La biblioteca si articola nelle seguenti sezioni: storia, letteratura, poesia e scienze e arti, quest’ultima include anche l’agricoltura.
Le due giornate di studio, oltre all’esame dei libri e del personaggio, hanno offerto numerosi contributi con dati, considerazioni documentate, riflessioni, ipotesi e al tempo stesso hanno aperto nuove piste d’indagine, com’è normale quando si indaga il passato, le cui conoscenze si allargano sì attraverso le nuove acquisizioni ma anche grazie ai nuovi quesiti che, anziché fermarsi, spingono gli studiosi a superare determinati limiti. Le relazioni presentate erano perlopiù frutto di un attento studio della documentazione conservata in loco, rappresentata sia dalla biblioteca con i suoi volumi sia dalla documentazione del casato – di eccezionale mole – conservata all’Archivio regionale di Capodistria. Siffatti elementi offrono la possibilità d’indagare svariati aspetti, sebbene vi siano dei limiti, dal momento che le carte riconducibili agli anni in cui visse il conte Francesco sono relativamente poche. Anzi, diventano completamente assenti per l’età francese; sovente si riteneva avessero abbandonato la città per un’altra sede, purtroppo è una speranza che deve eclissare di fronte alla verità dei fatti.

Ampiezza di fonti, nuova luce su alcuni aspetti

Proprio chi scrive, consultando alcune carte del secondo dopoguerra, ha riscontrato delle note indicanti la vendita, nel periodo 1945-1947, come carta da macero di una parte dell’archivio della nobile famiglia, allora conservato nel Pio Istituto Grisoni, inclusa la documentazione della stagione napoleonica. Un’altra riferisce dell’avvenuta vendita delle carte ad una pescheria (1946). Quella sciagurata iniziativa, che depauperò l’archivio familiare, non rappresentava nulla di eccezionale. La mancanza della necessaria sensibilità verso quei depositi della memoria, che molti consideravano “inutile suppellettile”, per usare le parole di Carlo De Franceschi che un secolo prima aveva denunciato il pessimo stato in cui si trovavano parecchi archivi istriani, ha determinato la cancellazione di non poche pagine di storia, impossibili da studiare, presentare e tramandare.
Nel caso specifico, determinati momenti, aspetti e lo stesso percorso terreno del conte si possono ricostruire esclusivamente mediante altre fonti. Questa manchevolezza rappresenta, indubbiamente, un limite. Ad ogni modo, la documentazione complessiva relativa ai Grisoni è ampia – un esempio analogo è rappresentato dal fondo Gravisi, anch’esso accessibile a Capodistria – e rappresenta senz’altro una singolarità, giacché l’esistenza di ricchi archivi non è una caratteristica che possiamo estendere a tutte le famiglie patrizie della città di San Nazario.
La presenza delle fonti in loco, inoltre, non è un aspetto scontato, giacché l’antico archivio municipale da oltre un settantennio è precluso ai ricercatori in quanto chiuso nelle stesse casse in cui nel 1944 fu trasferito da Capodistria a Venezia per evitare il peggio nella fase finale del secondo conflitto mondiale, cioè per salvaguardarlo da un eventuale danneggiamento bellico. Ma per quanto riguarda questo archivio, possiamo dire che il secondo dopoguerra sia terminato, lo ha dimostrato chiaramente Antonio Trampus che per il suo intervento si è avvalso delle carte Carli conservate all’Archivio dei Frari, provenienti da Capodistria, acquisite dal Comune nell’ultimo quarto del XIX secolo grazie all’intermediazione di Tomaso Luciani.
Quella documentazione rimasta “ostaggio” della politica finalmente ritorna ad essere oggetto di studio. Per la ricostruzione del passato dell’‘Atene dell’Istria’ si apre – o si potrà schiudere, dipenderà molto dalla sensibilità degli storici e delle istituzioni – una nuova fase di ricerca, di riflessione, insomma si potranno scrivere o rivedere molte pagine dei tempi andati della capitale dell’Istria veneziana. In futuro il lavoro non mancherà, i filoni di ricerca si arricchiranno; anche grazie agli studi storici e agli incontri tra gli studiosi si ricompatterà un’area geografica – quella altoadriatica – contraddistinta da forti legami, da vincoli culturali limpidi, che devono continuare, o meglio che già esistono ma vanno irrobustiti.
Dal convegno cosa è emerso? Anzitutto è stata ribadita la ricchezza del retaggio storico-culturale di Capodistria; un aspetto sicuramente non inedito, ma accanto al noto gli approfondimenti hanno dato forma organica a informazioni, dati e aspetti sparsi e sono state indagate pagine di storia cittadina rimaste in penombra o addirittura mai trattate, il caso della biblioteca è emblematico. Inoltre, e non poteva essere diversamente, sono stati evidenziati i legami culturali con Venezia, Padova, Rovigo e più in generale con l’Italia settentrionale. Ma in particolare è stata gettata (nuova) luce sui fondi librari capodistriani – conosciuti o meno –, è stata evidenziata la sensibilità per il libro, una caratteristica più che naturale in una città che annovera un pregevole retaggio del passato e nel corso dei secoli fu sede privilegiata per l’espressione culturale in senso lato.
La trattazione problematica concernente la presenza dei libri e delle biblioteche pone svariate questioni; le risposte e parte delle lacune arriveranno solo attraverso ricerche mirate e circoscritte. Rimangono aperti quesiti che non possiamo definire secondari: dove sono finiti determinati fondi librari? Qual è stata la sorte di determinate biblioteche? Un altro punto centrale riguarda la dispersione avvenuta nel corso del tempo, specie nel secondo dopoguerra (attualmente disponiamo delle indagini pionieristiche di Ivan Marković, che per primo ha prestato attenzione a questa dimensione). I risultati di lavori che per forza di cose devono essere certosini e diluiti nel tempo offriranno un quadro notevolmente più dettagliato per cogliere appieno ed entro contorni meno sfocati la ricchezza libraria esistente nella città di Capodistria. Parecchie cose sono note ma al tempo stesso siamo consapevoli vi sia ancora molto su cui lavorare.
Il convegno e la mostra sono stati un’occasione per interrogarsi se Francesco Grisoni sia stato colpito dalla damnatio memoriae. Se da un lato, dal 1945 in poi, anche questo figlio di Capodistria fu relegato nell’oblio e divenne vittima di quella storia dimenticata e non detta, perché rappresentava un’altra ‘incongruenza’ nella narrazione del passato che si propose e si impose, in cui non vi era spazio per il patriziato e quando affiorava serviva perlopiù per descriverlo a tinte fosche. In realtà un’attenzione particolare non si riscontra neanche nel secolo intercorso tra la morte del conte (1841) e il secondo dopoguerra. Una conseguenza di questa disattenzione è stato anche il completo disinteresse per l’importante biblioteca, che non solo mai è stata studiata ma non compare nemmeno menzionata nei lavori di storia capodistriana, nella pubblicistica e nelle guide.
Eppure la città ha annoverato studiosi particolarmente attenti alla sua storia e al suo patrimonio culturale (Domenico Venturini, di Pola ma colà attivo, Gedeone Pusterla alias Andrea Tommasich, Angelo Marsich, Giannandrea Gravisi, Francesco Semi). Stupisce che neanche lo studioso triestino Baccio Ziliotto, autore di fondamentali lavori sull’età dei lumi, indagatore attento dell’attività culturale di Gian Rinaldo Carli e di Girolamo Gravisi e delle accademie, non abbia dedicato alcuna attenzione a Francesco Grisoni, che, stranamente, non fu un uomo di lettere – non ha lasciato opere a stampa e nemmeno lavori manoscritti – però aveva costituito una biblioteca ricca ed eterogenea con acquisti di opere in lingua italiana e francese.

Superati occultamenti e mistificazioni

La figura del conte è stata relegata negli anfratti della memoria, sebbene l’attività filantropica, sua e della consorte Marianna Pola, fosse rilevante, infatti misero a disposizione le loro risorse per aiutare chi ne aveva bisogno (questo poteva essere un aspetto interessante nella Jugoslavia comunista). Ci troviamo di fronte ad un altro esempio di quella storia occultata e accantonata, perché non è slovena? – com’è stato rimarcato –, cioè per una motivazione squisitamente nazionale o meglio nazionalista? È giunto veramente il momento di voltare pagina e oggi si nota una nuova sensibilità, emersa palesemente durante le due giornate di studio. È stato ribadito che la specificità deve essere rispettata e non fagocitata nella storia dei corpi nazionali, rispettivamente sloveno e croato.
Questo aspetto, messo in rilievo da Gregor Pobežin, assume una valenza che non possiamo sorpassare, poiché indica un approccio decisamente diverso da parte degli studiosi sloveni, specie della nuova generazione, che, abbandonando la lettura stereotipata del passato adriatico, guardano a quest’ultimo con occhi diversi, contribuendo a fare conoscere, senza contraffazioni, un patrimonio storico, culturale e spirituale ricchissimo di matrice non slovena oggi incluso entro i confini dello stato sloveno.
La mistificazione dei tempi andati, la sua alterazione e le operazioni di dubbio gusto, che possiamo definire nient’altro che una sorta di furto e di appropriazione indebita, dovrebbero appartenere al passato. Ormai anche in queste contrade soffia una brezza diversa, la storia viene studiata, fatta conoscere, diffusa, senza censure e non più con intenti “diversi”. Non c’è più l’esigenza ossessiva di “nascondere” o enfatizzare. Si lavora collegialmente, ci si confronta, le informazioni vengono scambiate e condivise. La strada è tracciata, dobbiamo evitare qualsiasi “sbandamento” e proseguire consapevoli, magari facendo tesoro degli insegnamenti dei predecessori, che si muovevano in Europa con ostentata indifferenza sotto le insegne della cultura.

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