Joshua Oppenheimer e la teatralità della fine

Durante il suo incontro con il pubblico fiumano il regista e sceneggiatore texano ha illustrato la connessione tra teatro e cinema che si rivela essenziale: la famiglia rifugiata nel bunker non è solo un’allegoria dei privilegiati, ma anche uno specchio dell’umanità intera, intrappolata in una narrazione autoreferenziale

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Joshua Oppenheimer e la teatralità della fine
Foto Roni Brmalj

Nell’ambito del Teatro filosofico, giunto al suo terzo incontro, che sta riscuotendo un importante apprezzamento tra il pubblico fiumano, il suo ideatore e curatore, Srećko Horvat, ha ospitato il regista, sceneggiatore e produttore cinematografico texano, Joshua Oppenheimer rilevando, che “non necessita di presentazioni, poiché il suo nome risuona ben oltre questi confini, riecheggiando nelle coscienze di chiunque abbia riflettuto sulla potenza del cinema come strumento di rivelazione. Il regista, oggi residente a Copenaghen, è noto per aver ridefinito il linguaggio documentaristico con “The act of killing” e “The look of silence”. Tuttavia, il centro della discussione è la sua opera più recente presentata all’Art cinema, “The end”, un musical apocalittico che segna una radicale trasformazione stilistica. Perché questo genere espressivo per raccontare la fine del mondo?”

Lo specchio della vulnerabilità
Oppenheimer, riflettendo con sguardo penetrante sulla natura del documentario, ha affermato che “si avvicina a una forma di sacralità, poiché ciò che viene catturato non è mera rappresentazione, ma esistenza nuda e fragile.Tuttavia, se utilizzato con rigore e sincerità, il musical diviene un veicolo privilegiato per il disvelamento delle illusioni. In esso i personaggi cantano quando le parole non bastano più, ma in “The end” questa tradizione viene sovvertita. Le canzoni non sono espressioni di verità interiori, bensì tentativi disperati di autoinganno: i personaggi cercano di convincersi di nuove bugie attraverso la musica, ma le stesse si sgretolano sotto il peso della sincerità emotiva e delle note stesse, lasciando spazio a silenzi che gridano verità inascoltate. La tradizionale promessa di ottimismo e speranza si ribalta in una metafora della negazione: se continuiamo a intonare melodie di rassicurazione mentre ci dirigiamo verso l’abisso, allora la nostra speranza non è altro che una maschera della disperazione”.

L’apocalisse come rivelazione
A seguire Horvat ha introdotto un tema fondamentale della contemporaneità, riferendo che “siamo bombardati da notizie su miliardari che costruiscono rifugi sotterranei, pronti a fuggire in enclavi remote o persino su Marte. Da dove nasce questa ossessione per la fine?” Oppenheimer ha risposto con amara verità che “l’apocalisse non è un orizzonte futuro, ma un processo già in atto, inscritto nelle logiche autodistruttive del nostro tempo. L’apocalisse è rivelazione, la nudità di una condizione che preferiamo non riconoscere. In questo senso, la mia pellicola non narra di un futuro distopico, ma è una metafora del presente. Viviamo già nell’apocalisse: la nostra autodistruzione è inscritta nelle logiche disfunzionali del nostro comportamento attuale”. Questa consapevolezza si riflette anche nella scelta delle ambientazioni del film: un bunker sotterraneo costruito in una miniera di sale siciliana. Questo spazio claustrofobico diventa un’allegoria visiva della nostra incapacità collettiva di affrontare la realtà. Eppure, tra le pareti del bunker, emergono squarci di bellezza: quadri romantici che idealizzano una natura ormai perduta e melodie che evocano una nostalgia struggente.

I super-ricchi e l’etica dell’estinzione
Un altro tema centrale in “The end” è il ruolo dei super-ricchi nella distruzione del pianeta. La famiglia protagonista rappresenta una classe privilegiata che ha causato l’apocalisse ma cerca di sopravvivere isolandosi in una casa-miniera di lusso. Tuttavia, come sottolineato dal padrone di casa, il film non è solo una critica ai miliardari; è anche uno specchio per tutti noi, osservando che “quando ignoriamo un mendicante per strada o scegliamo di non aiutare qualcuno in difficoltà, dove tracciamo il nostro confine etico?” In questo senso, ha spiegato Oppenheimer, l’opera ci costringe a confrontarci con le nostre responsabilità individuali e collettive, rilevando che “l’orrore non risiede solo nei rifugi blindati dell’élite, ma nella nostra sistematica accettazione della disumanizzazione”. Sulla falsariga di queste riflessioni, il regista ha condiviso aneddoti sorprendenti sulle reazioni dei miliardari che hanno visto privatamente il film. Riportando che alcuni si sono sentiti toccati al punto da chiedersi quali scelte stessero facendo nella loro vita, ha riferito che “hanno discusso per ore, tra smarrimento e inquietudine. Qualcuno ha perfino offerto di finanziare il mio prossimo progetto”.
Un paradosso che conferma la persistenza dell’autoinganno, anche dinanzi al proprio riflesso più crudo, riallacciandosi al quale Horvat si è chiesto se “non stiamo forse assistendo a un ritorno del mecenatismo oligarchico? Dai Medici alla Russia post-sovietica, fino alla Silicon Valley, il finanziamento dell’arte si concentra sempre più nelle mani di pochi”. Dichiarandosi concorde, l’autore ha lanciato un monito rimarcando che “stiamo assistendo a una deriva autocratica, mentre figure come Trump e Musk riscrivono le regole del potere con una logica performativa. La politica diventa teatro, una costruzione di immagini ed estetiche che sostituiscono la sostanza. L’esempio più grottesco di questa dinamica è il video generato dall’intelligenza artificiale in cui Trump e Netanyahu brindano su una Gaza devastata. Non è solo una distorsione della realtà, ma un tentativo di riscrivere la Storia in tempo reale, creando una narrazione che travalica il vero per consolidare il potere attraverso l’immagine”.

L’influenza di Dušan Makavejev
Nel cuore della riflessione di Oppenheimer è emersa altresì l’importanza delle location, un insegnamento trasmessogli dal cineasta jugoslavo Dušan Makavejev. Alla domanda di Horvat su che cosa abbia appreso da lui, l’autore ha risposto che in primis è “la libertà radicale dell’immaginazione, e soprattutto che le stesse non sono mai semplici scenari: esse parlano, rivelano, svelano illusioni”. La scelta di girare “The end” in una miniera di sale in Sicilia non è quindi casuale: il luogo stesso diventa una metafora della reclusione volontaria, della fragilità delle costruzioni umane dinanzi alla vastità del tempo. In questa scelta risuona l’eco della storia, come accadde con i nazisti che nascosero capolavori d’arte nelle miniere di sale austriache, nel vano tentativo di eternare il proprio dominio culturale. La miniera, spazio al contempo protetto e claustrofobico, diventa una prigione dorata, un non-luogo dove il passato sembra sussurrare ammonimenti ignorati.

Il teatro della vita
La conversazione si è poi soffermata sulla teatralità intrinseca all’opera, in merito alla quale Srećko Horvat ha riportato che la formazione teatrale di Oppenheimer emerge chiaramente nel suo approccio al cinema. Prima di diventare regista, ha spiegato, ha trascorso sei mesi a fare teatro di strada a Calcutta, venendo a contatto con bambine di 11/12 anni in su costrette dalla famiglia a prostituirsi per restituire i debiti. Questa esperienza lo ha segnato profondamente e lo ha spinto a esplorare la performatività dell’identità umana. “Il teatro mi ha insegnato che l’identità è un atto performativo. Noi siamo le storie che ripetiamo su noi stessi, e più le reiteriamo, più diventano la nostra realtà”. Il legame tra teatro e cinema si rivela essenziale: la famiglia rifugiata nel bunker non è solo un’allegoria dei privilegiati, ma anche uno specchio dell’umanità intera, intrappolata in una narrazione autoreferenziale.

Un messaggio universale
La chiusura della serata, che ha visto anche la partecipazione dei convenuti tradotta in una serie di domande all’autore, è stata segnata dalla riflessione sullo stare su un palco o davanti alla macchina da presa. Alla domanda di Horvat se stesse recitando, Oppenheimer, sorridendo e indugiando un istante ha ribadito che “quando ero bambino, cercavo sempre di compiacere gli altri per paura di perdere ciò che avevo. Se esiste un’arte nella performance, essa risiede nell’autenticità del momento. E forse, in questa conversazione, ci siamo avvicinati a essa”.

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