Immagini e personaggi tra sogno e realtà

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Immagini e personaggi tra sogno e realtà
Giuseppe Nicodemo nello spettacolo “E la nave va” del Dramma Italiano. Foto: ŽELJKO JERNEIĆ

Fellini è stato un artista in grado di trasformare le proprie esperienze di vita in immagini e personaggi tra sogno e realtà. Per nulla interessato al quotidiano e intento a presentare un popolo come quello italiano forse meglio del neorealismo dal quale proveniva. La sua regione, l’Emilia Romagna, è su un confine mentale tra un’Italia del Nord vicina a una mentalità europea ordinata e calvinista e una parte che guarda al Sud, al Mediterraneo, e che mette al centro la relazione, l’idea di isola e di vagabondaggio. In questa descrizione, ad esempio, il suo affetto per un mondo legato agli artisti poveri e vagabondi come quello del circo, così lontano dal cinema sfarzoso e aspirazionale hollywoodiano. In Romagna, Fellini nasce in una città sul mare: Rimini.
Ogni fan di Fellini ricorderà le scene sulla spiaggia che popolano i suoi film, come ad esempio l’eroe prepotente nel film “La Strada”, un forzuto del circo, interpretato da Anthony Queen, che finisce per crollare in lacrime sulla sabbia. Oppure “La Dolce Vita”, in cui Mastroianni insieme a un gruppo di ragazzi, dopo una serata esausta di bevute, sbucando su una spiaggia desolata, trova un mostro marino, con occhi viscidi e accusatori, trascinato a riva con una rete, ma anche la scena del film “I Vitelloni”, ambientata su un molo di una Rimini di finzione in pieno inverno. In religioso silenzio un gruppo di amici scanzonati osserva un mare burrascoso in ricolmo di tristezza.
Poi c’è una Rimini dell’entroterra, verso la città eterna e materna, che richiama altri personaggi del mondo di Fellini e li raccoglie in film come: “Lo sceicco bianco” (1952), o nel suo primo film come regista solista, “Roma”.

Lo spirito italiano
Rimini e Roma come le sue città, contenitori di un mondo complesso, e azzardo che se la sua vita avesse incrociato anche Fiume, sarebbe stata terreno fertile da cui far partire altri personaggi per popolare le sue storie. In questa sua idea di spirito italiano legato all’errare, i personaggi nei suoi film si esprimono e si mescolano nei dialetti che li caratterizzano, persi, lontani ancora una volta da quel modello risolutorio tipicamente americano, che per molto tempo è stato “il modello” del viaggio dell’eroe.
La celebrazione di Fellini oltre la formalità dei suoi cent’anni compiuti tre anni fa, non può che continuare ancora vivissima, grazie anche all’uscita di documentari dai titoli: “Fellini degli spiriti”, “Fellini Forward”, “Fellinopolis”, “Fellini e l’ombra”. La sua città natale, Rimini, ha ospitato la mostra “Fellini 100 genio immortale”, il BFI-British Film Council ha pubblicato uno splendido trailer per promuovere una serie di film sulle sue opere in tutto il Regno Unito e anche il Teatro nazionale di Fiume ha cavalcato la celebrazione, ammainando le vele del Dramma Italiano con una trasposizione teatrale del film “E la nave va” per la regia di I. Pison e del Dramma Croato con lo spettacolo dal titolo “Amarcord”, ancora in prova del regista argentino L. Del Prato.

”Amarcord” (1973).
Foto: The Hollywood Archive/PIXSELL

Sequenze di poesia visiva
Ma è soprattutto rivedendo svariate volte i suoi film che si celebra e s’apprezza l’arte di Fellini. La sequenza d’apertura del film “Otto e mezzo” mi provoca un brivido alla testa: Mastroianni nei panni del regista, Guido, che soffoca dentro un auto intrappolata in un ingorgo romano, poi fluttua sopra una spiaggia legato da una corda che improvvisamente lo trascina a terra. Si tratta di una metafora sulla mancanza di controllo, perché il film è anche una storia su un blocco creativo. Guido sta lottando per realizzare il suo ultimo film, un’epopea di fantascienza, e così si ritira nei suoi ricordi d’infanzia e nelle fantasie per una musa, interpretata da Claudia Cardinale. È l’esaurimento nervoso più attraente che abbia mai visto.
Un altro inizio splendido è quello del film “La Dolce Vita”. Una statua di Cristo salvatore trasportata in elicottero per il cielo di Roma, viene seguita da un paparazzo, interpretato sempre da Mastroianni, su un secondo elicottero. In basso una metropoli del dopoguerra in ricostruzione e in pieno boom economico. L’immagine ancora una volta diventa metafora e segno dei tempi che cambiano. Al passaggio della statua che lascia la sua struggente ombra su una facciata bianca di un palazzo in costruzione, vediamo un saluto da parte di alcuni operai edili e poi la cinepresa si sofferma sul secondo elicottero che interrompe il suo viaggio dietro alla statua, per iniziare un sordo flirt di gesti tra Mastroianni e delle ragazze a bordo piscina. Fellini si ispira e trasfigura un fatto di cronaca realmente accaduto nel maggio del 1956 in cui una statua di Cristo aveva sorvolato la città da Ciampino in direzione di San Pietro.
E poi c’è l’idolo del cinema, Anita Ekberg, che si veste in abito talare per salire sulla cupola di San Pietro e che si scatena nella famosa scena della Fontana di Trevi. Monumento vivente di maestosità pagana, in un gesto ancora più blasfemo, fa gocciolare l’acqua sulla testa del suo devoto, un reporter di nome Marcello (Marcello Mastroianni). Nessun bambino potrebbe essere battezzato in modo più tenero.
E per finire, la sequenza memorabile del “Casanova” con Donald Sutherland nei panni del vecchio seduttore ormai morente; un primo piano dei suoi occhi arrossati ci porta a ripescare una sua memoria: il ballo di un Valzer consolatorio su un canale veneziano ghiacciato. La sua compagna amante non è un’amante consenziente, ma una macchina, una bambola animata dai lineamenti di porcellana.
Anche nel film più autobiografico “Amarcord”, i suoi ricordi sul fascismo stesso sono stilizzati, persino le sue città sono evocazioni di Rimini, Venezia e Roma, ricostruite allo studio 5 di Cinecittà. Ad esempio, la sequenza di un comandante fascista, con la stecca da biliardo alla mano, che si prepara per una partita nel bar locale, mentre uno dei suoi scagnozzi s’aggira in punta di piedi nella stanza, per non disturbare il maestro al lavoro, e all’ improvviso le luci si spengono; in quella scena buia, potremmo essere in un teatro, a guardare uno spettacolo di una commedia nera.

La creatività nella formula magica del bambino
Dove risieda la creatività umana per il regista, cosa la blocchi e come si possa liberare, non si può di certo esprimere attraverso le parole, a meno che quelle parole non siano: ASA NISI MASA. Ancora una sequenza, o meglio due, di cui una nel reale e l’altra nell’onirico del film “Otto e Mezzo” aiutano a capire cosa sia un blocco creativo e dove vada cercata una possibile soluzione per l’alter ego di Fellini/Guido. Dopo avere seminato il caos nella sua vita sentimentale, la sua indecisione creativa sta producendo livelli d’angoscia tra gli attori, gli agenti e la troupe. Ma tutto questo è solo un tumulto superficiale. Guido è perseguitato da qualcosa di più profondo. Qualcosa che ha a che fare con i suoi genitori, la sua infanzia, la chiesa cattolica? Sentimenti di vergogna e beatitudine? Una serie di “episodi gratuiti”, come dice il critico-amico di Guido dopo aver letto la sua sceneggiatura. Su tutto aleggiano domande a cui tutti vorremmo rispondere: Perché gli artisti sono così egoisti? Perché il resto di noi deve soffrire mentre loro possono assecondare le loro fantasie e giocarci come i bambini giocano con le biglie? Un indizio arriva durante una classica scena di festa felliniana, a circa mezz’ora di distanza seguita direttamente da un’altra scena che ne completa il significato. Un chiaroveggente va di ospite in ospite, offrendosi di leggere i loro pensieri. Ormai, però, la festa è alla sua conclusione. Chiede Guido: “Qual è il trucco? Come fai a trasmettere?”. La risposta del lettore del pensiero è una definizione sintetica dell’arte: “È in parte un trucco, in parte reale. Non so come, ma succede”. “Puoi trasmettere qualsiasi cosa?”, chiede Guido preoccupato perché gli è così difficile “trasmettere”, attraverso la pellicola, le immagini più preziose della sua mente. E poi accade qualcosa di straordinario. Con la mano sopra la testa di Guido, il telepata sembra far scrivere su una lavagna a una donna che si trova di fronte. Le parole che lei evoca sono quelle che Guido sta trasmettendo: “ASA NISI MASA”.
Se “Otto e Mezzo” è il più grande film di Fellini, la sua più grande sequenza a mio avviso è quella del sogno che segue e che completa nel significato quella del gioco di telepatia: Guido si ritrova improvvisamente bambino in una vecchia villa italiana. Lui e gli altri bambini vengono immersi in una grande botte per la pigiatura dell’uva, il momento del bagno, quindi, come una sorta di rito dionisiaco? Dopo aver saltato nel vino, Guido viene avvolto in un morbido asciugamano bianco e portato a letto, dove si unisce ad altri bambini che aspettano eccitati che si spenga la luce. L’affezionata nonna, borbottando amaramente, controlla che si siano sistemati per dormire e infine se ne va, chiudendo la porta. A quel punto la ragazza più grande si alza in piedi, indica un ritratto alla parete e dice: “Guido, questa è la notte in cui gli occhi del quadro si muoveranno. Quando questo accadrà – dice –, apparirà un tesoro in un angolo e saremo ricchi”. Guido deve solo pronunciare l’incantesimo, “Asa Nisi Masa”, e compiere il gesto che lo accompagna: braccia incrociate davanti al petto e mani che si agitano. La fotografia del sogno infantile di Guido è ovattata e bianca, in contrasto alla sequenza precedente, girata nell’oscurità della festa con il telepata. La colonna sonora di Nino Rota, una melodia in tonalità minore sovrapposta a una voce femminile, è essa stessa una sorta d’incantesimo.
A questo punto mi piacerebbe sapere il significato della frase e del gesto segreto che ricorrono più volte nel film; ma ci è dato solo di capire che si tratta di una parola in codice o di una chiave segreta, che sblocca… cosa?
Si può trovare su Wikipedia, ma per non rompere l’incantesimo lo sconsiglio. Ma cosa vogliono gli artisti allora, è la domanda aperta nella sequenza iniziale? Vogliono essere compresi e poter liberare la loro mente creatrice? La risposta di Fellini è tutta nella sequenza del sogno che probabilmente riguarda la sua consapevolezza che l’impulso, l’istinto nel tramutarsi in arte è legato a un momento della nostra vita in cui siamo stati sollevati e portati in giro, calati nelle vasche da bagno, rimboccati nel letto e ci siamo sentiti unici.

”Otto e Mezzo” (1963).
Foto: THE HOLLYWOOD ARCHIVE/PIXSELL

L’arte come superamento di sé stessi
”Il genio”, scriveva Charles Baudelaire, “non è altro che la capacità di recuperare l’infanzia a piacimento”. Ma l’arte è solo questo? Una sorta di solipsismo? Un’incapacità di superare l’egoismo dell’infanzia? Un patetico desiderio di restare nella beatitudine dell’infanzia? Certo che no. C’è molto di più nell’arte, che al suo meglio, si propone sempre di trascendere il solipsismo. Ma l’egocentrismo dei grandi artisti è legato al desiderio di ritrovare il tesoro nell’angolo della camera da letto, quando gli occhi del ritratto si muovono e i bambini pronuciano: “Asa Nisi Masa.”.
Allo stesso modo, la sua ossessione sul tema della creazione nell’arte continua in uno dei suoi ultimi film; “E la nave va” (1983) film in apertura cupo, in bianco e nero, che inizia come un documentario, si sposta, a colori, sui luoghi ricostruiti di una nave che non lascerà mai lo studio di Cinecittà, per sviluppare una storia non lineare. Un grande gioco di prestigio, una celebrazione dello spettacolo solo per sé stesso? Così il film non è un addio, nè a un’epoca, nè a una diva, ma appunto un ulteriore tentativo di una discussione sulla creatività. Come far resistere l’impulso della creazione? Come scatenarlo e farlo sopravvivere? Forse portandolo fuori dalle viscere della nave nell’immagine del rinoceronte – l’inconscio dell’uomo – confessa Fellini in un’intervista, liberarlo dal puzzo nauseabondo issandolo sul ponte per essere lavato. L’impulso creativo è poi equiparato alla capacità di sopravvivenza di un popolo, come quello serbo, che cerca scampo dalla guerra in mare e sulla nave e che porterà in un mondo artistico ripiegato su sé stesso, un’energia vitale nuova.

L’uso della cinepresa come un tratto di matita
Questo non significa che lo sguardo del regista sia anestetizzato di fronte ad alcuni problemi sociali e si occupi solo di raccontarci il mondo dell’arte. C’è molto altro, ma si potrebbe comunque affermare che in “Amarcord” non ci siano vittime. Che la sofferenza dell’epoca fascista sembrerebbe avere poco peso, e dunque che siamo lontani dalle atmosfere sinuose e cupe di Bertolucci nel “Conformista”. Fellini scopre nel fascismo qualcosa di adolescenziale, attraverso il gusto per le pose orgogliose e il tentativo, fallimentare, di manipolare le esperienze delle persone su un unico punto di vista. La cinepresa si muove sempre, non tanto per un tic di stile quanto forse per un rifiuto a rimanere bloccati. In questo suo “tratto” di movimento, la cinepresa di Fellini realizza con carrelli e dolly quello che il regista ha sempre tratteggiato con la matita e che è stato il lavoro all’inzio della sua carriera: il vignettista.
Il disegno è rimasto un elemento importante della sua espressione artistica per tutta la sua carriera di regista cinematografico. Quando Fellini andò a Roma, nel 1939, sua madre voleva che studiasse legge, ma lui non lo fece mai. Disegnò e scrisse pezzi umoristici per i giornali. Aveva una rubrica fissa, “Vuoi ascoltare quello che ho da dire?”. Dopo la liberazione della città da parte degli alleati, aprì un negozio chiamato “Funny Face Shop”, dove le caricature potevano essere prodotte in dieci minuti. Tra i clienti c’erano anche soldati americani che avevano bisogno di qualcosa da spedire a casa.
Fellini regista: “Perche disegno i personaggi dei miei film? (…) Per iniziare a guardare il film in faccia, per vedere il tipo che è nel tentativo di fissar qualcosa, anche se minuscolo, al limite del nulla, ma che sembra avere qualcosa a che fare con il film, e velatamente mi parli”.Credeva nello sviluppo di un personaggio disegnandolo, una parte fondamentale del suo processo creativo. Il disegno era il primo passo, poi occorreva trovare l’ attore che si adattasse al disegno ed era difficile: “Cerco finché non trovo qualcuno che mi faccia dire: ecco tu sei il mio disegno!”.Quando, nei suoi film, una festa si trasforma in una galleria di figure grottesche, si percepisce la sua insistenza primaria del cinema come registrazione del volto umano.

Il disegno per i film
Ecco che nel film “E la nave va” gli attori sono scelti soprattutto per il loro aspetto, poichè poteva contare nei dialoghi, com’era sua abitudine, sulla post-sincronizzazione in un italiano, che spesso non si adattava ai movimenti delle labbra. Risulta difficile, quindi, in questo come in altri film, commentare l’interpretazione, in quanto gli attori erano con tanta pazienza spostati e fotografati esattamente secondo le indicazioni del maestro.
Un altro esempio di come il film nascesse prima nel disegno di Fellini, è quello del personaggio di Casanova. Fellini utilizzò lo schizzo per esplorare le sue idee sull’aspetto fisico del personaggio di “Casanova” (1976), “deve avere la faccia come un piede” diceva il maestro e così naso e mento finti e una stempiatura a metà cranio simile a una creatura mia nata. In un altro schizzo intitolato “Sogno”, Fellini illustra la morte del clown, che rappresenta la morte del circo. Questo schizzo è stato il punto di partenza per il suo film del 1970, “Il clown”.
Attratto dall’erotismo della figura femminile fin dall’infanzia, Fellini amava disegnare immagini erotiche stilizzate: “A volte, durante il casting, la pre-produzione o la scrittura, la mia mano sembra disegnare senza di me. In quei momenti, è più probabile che io faccia enormi seni femminili. Il mio secondo scarabocchio più frequente sono i sederi femminili eccessivamente grandi. Tette e culi”. La maggior parte dei suoi disegni erotici è stata realizzata negli ultimi anni di vita. Spesso riprendono i personaggi preferiti dei suoi film, come la robusta donna “amazzone” che adesca l’eroe maschile. Fellini ha onorato questo sex symbol in molti dei suoi disegni erotici, con i suoi tratti distintivi notevolmente esagerati.
Sebbene rimanga uno dei registi più apprezzati e influenti del nostro tempo, molti lo hanno accusato di rappresentare le persone come caricature ambulanti, rendendole troppo grottesche, strane e bizzarre. Il regista Terry Gilliam ha difeso Fellini, spiegando che: “Fellini era un fumettista, io ero un fumettista. Entrambi proveniamo dallo stesso background. Significa che si guarda al mondo distorcendolo, lo si allunga e lo si tira”. Questo vale per tutti i disegni di Fellini, che piacciano o meno. A volte possono essere crudi ed estremi, ma sono Fellini in tutto e per tutto, nati dalla sua vita di fumettista e cresciuti con lui e attraverso di lui, mentre si sviluppava come regista cinematografico. Per Fellini il cinema era figlio della pittura, nato da immagini che si muovono.

Poco frequentato, ma molto citato
Ho scoperto che la maggior parte delle persone giovani non hanno mai finito di vedere un suo film o proprio non lo conoscono se non per il nome. Forse perché citato da alcuni dei più grandi registi del nostro tempo come Hitchcock, Coppola, Scorsese, Spielberg, Tarantino, Sorrentino e Woody Allen. Fuori dall’Italia si usa l’espressione “La Dolce Vita”, resa popolare proprio dall’omonimo film, archetipo della cultura italiana. L’immaginario dei film e della musica di Fellini è così radicato nella pubblicità, nel marketing e nella moda di tutti i giorni, che è entrato nel nostro subconscio in modi di cui non siamo nemmeno consapevoli.

La Dolce Vita (1960).
Foto: The Hollywood Archive/PIXSELL

Paparazzi: pappataci + ragazzo
Cominciamo col dire che la parola “paparazzi” è stata creata da Fellini nel suo film del 1960, ironicamente intitolato “La Dolce Vita”. Il film segue il giornalista Marcello Rubin (Marcello Mastroianni) attraverso sette vignette che si svolgono nel corso di una settimana a Roma. Marcello è seguito per tutto il film da un gruppo di fotografi che non hanno alcuna etica quando si tratta di catturare foto di celebrità e persone reali in situazioni tragiche. Al giorno d’oggi li chiameremmo paparazzi, ma questa parola non esisteva prima di quel film. L’etimologia della parola paparazzi come la conosciamo oggi deriva dal fatto che Fellini ha dato il nome di uno dei fotografi, Paparazzo, interpretato da Walter Santesso. Nasce dall’unione di “pappataci” e “ragazzo”. Dopo l’uscita del film, il nome è entrato rapidamente nel mainstream per rappresentare lo sciame di fotografi che seguono le celebrità. Per chi ama i Beatles possiamo ringraziare Fellini perché hanno usato questa parola nel testo della loro canzone nonsense “Here Comes the Sun King” di Abbey Road: “Mundo paparazzi mi amore chicka ferdy parasole”. Anche Lady Gaga ha avuto un grande successo con una canzone intitolata “Paparazzi”. John Lennon rilascerà in un’intervista: “I tour dei Beatles erano come il Satyricon di Fellini, voglio dire, avevamo quell’immagine, ma i nostri tour erano qualcosa di diverso. Se riuscivi a partecipare ai nostri tour eri dentro a Satyricon di Fellini con quattro musicisti che lo attraversano”.

Il Fellinesco o Felliniano
A proposito di origini delle parole, non ci sono molte persone nell’arte il cui lavoro è così ben definito da ricevere l’onore di avere il suffisso “esco” o “iano”, aggiunto al loro nome. Ecco un’ottima definizione di “felliniano” tratta da una sintesi: “Il termine “felliniano” è arrivato a significare una certa raffinatezza italiana, ma allo stesso tempo terrena, un fascino per il bizzarro, ma un amore per la semplicità, il tutto avvolto in un approccio mediterraneo e sgargiante alla vita e all’arte. Questi film contengono anche momenti magici, che trascendono il realismo e hanno fatto conoscere al mondo un certo lirismo sgargiante, che oggi etichettiamo come felliniano”.

Incursioni nella musica
Il video musicale di “Everybody Hurts” dei REM è direttamente influenzato dalla sequenza di apertura di “Otto e Mezzo”. Il cortometraggio di Wes Anderson “Castello Cavalcanti” è pieno di omaggi al lavoro di Fellini. La sequenza di ballo di “Pulp Fiction” tra John Travolta e Uma Thurman ha un grande debito con lo stesso ballo nella sequenza di “Otto e Mezzo” tra Mario Pisu e Barbara Steele. Il video musicale di Lady Gaga per “Judas” è fortemente influenzato dalla scena della passerella in “Roma” di Fellini.

Gli Oscar e le influenze sul cinema
I film di Fellini sono stati candidati a sedici premi Oscar. Ha vinto quattro volte nella categoria miglior film straniero: “La strada” (1956), “Le notti di Cabiria” (1957), “Otto e Mezzo” (1963) e “Amarcord” (1974). È il maggior numero di premi per qualsiasi regista nella storia dell’Academy. Nel 1993 ha ricevuto anche il suo quinto Oscar alla carriera. Ma la cosa più impressionante è che molti dei suoi film premiati con l’Oscar hanno avuto un’influenza diretta su altri film, molti dei quali hanno vinto a loro volta l’Oscar. “All That Jazz” di Bob Fosse, che è sostanzialmente la sua versione di “Otto e Mezzo”, ha vinto quattro Oscar. Quando gli è stato chiesto delle somiglianze tra i due film in un’intervista a Rolling Stone, Fosse ha detto: “Quando rubo, rubo ai migliori”.
Woody Allen, che ha spesso citato il suo debito con Fellini, ha ricevuto due nomination agli Oscar per “Radio Days”, il suo omaggio ad “Amarcord”. “Stardust Memories” di Allen, uno dei suoi film più discussi è una personale sua interpretazione di “Otto e Mezzo”.
Anche “Birdman” di Alejandro González Iñárritu, che ha vinto quattro Oscar, è stato fortemente influenzato da “Otto e Mezzo. Da una discussione su Reddit dell’epoca: “Entrambi i film parlano di un artista che invecchia e cerca di riconquistare i suoi giorni di gloria. Entrambi presentano immagini di flash di paparazzi che tormentano il protagonista, sequenze di volo, immagini di una banda musicale, immagini di spiaggia con onde che si infrangono sugli scogli”.

”La Strada” (1954).
Foto: The Hollywood Archive/PIXSELL

”Diner” di Barry Levinson è un film su una cerchia di amici maschi, poco più che ventenni, che si trovano in una fase cruciale della loro vita in una piccola città. Si dà il caso che questa sia anche la trama de “I Vitelloni” di Fellini, verso cui ha un grande debito. Levinson ha ricevuto una nomination all’Oscar per la sceneggiatura di “Diner”.
Martin Scorsese ha dichiarato più volte che “Mean Streets” (1973) è stato influenzato da “I Vitelloni”. L’iconica sequenza di apertura di “Quei bravi ragazzi” rende omaggio alle presentazioni dei personaggi principali all’inizio de “I Vitelloni”.
Anche un film del 2019 di Pedro Almodóvar, “Dolore e gloria”, parla di un regista in declino che ha una serie di riunioni. Alcune di queste riunioni si svolgono in tempo reale, altre vengono ricordate attraverso dei flashback. E proprio come Fellini utilizzava Marcello Mastroianni come alter ego in molti dei suoi film, Almodóvar fa lo stesso con Antonio Banderas.
Vincitore dell’Oscar 2013 come miglior film straniero, l’italiano “La Grande Bellezza” di P. Sorrentino, è essenzialmente un aggiornamento moderno de “La Dolce Vita”.
Il musical “Nine”, basato su “Otto e Mezzo”, ha vinto cinque Tony Awards nel 1982. Ne ha vinti altri due quando è stato riproposto nel 2003.
”Sweet Charity” di Bob Fosse era basato su “Le notti di Cabiria” di Fellini e vinse un totale di sei Tony Awards (uno nel 1966 e cinque nel revival del 1986).
L’influenza di Fellini sul cinema, sulla musica, sulla moda e sulla cultura pop non può essere sottovalutata. Se più persone conoscessero i modi in cui i suoi film hanno influenzato in modo significativo le cose che già conoscono e amano, apprezzerebbero davvero quanto sia importante conoscerlo e celebrarlo.

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