Il «ritorno» di Paolo Santarcangeli nella sua città natale

Il volume bilingue «In cattività babilonese/U babilonskom sužanjstvu» di uno dei maggiori rappresentanti della fiumanità, pubblicato di recente dalla CI di Fiume in collaborazione con l'AFIM-LCFE, è stato tradotto in lingua croata da Damir Grubiša e curato da Ervin Dubrović. Contattati per l'occasione, i due raccontano il loro punto di vista del progetto che aprirà le porte alla produzione di un intellettuale mitteleuropeo e una persona dalle straordinarie qualità umane

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Il «ritorno» di Paolo Santarcangeli nella sua città natale
Damir Grubiša. Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

Un ritorno nella sua Fiume tanto amata e desiderata. È ciò che ora è riuscito a fare Paolo Santarcangeli, poeta e scrittore di fama europea, l’ultimo grande rappresentante della letteratura italo-ungherese fiumana, con il volume che abbiamo avuto l’onore di leggere e che stiamo per presentare. Santarcangeli è il miglior esempio di una ricca cultura, costituita dalla dimensione croata, italiana ed ebraica e, pertanto, un vero rappresentante della fiumanità.

La sua figura umana e la sua formazione intellettuale sono state illustrate dal suo grande amico e compagno di scuola (ungherese) di Fiume, il Senatore a vita Leo Valiani. Tali elementi vengono riportati nella Prefazione della riedizione in cofanetto del volume bilingue “In cattività babilonese. Avventure e disavventure in tempo di guerra di un giovane giuliano ebreo e fiumano per giunta” (U babilonskom sužanjstvu. Ratne zgode i nezgode mladoga Židova iz Julijske krajine, koji je k tome još i Riječanin), edito dalla CI di Fiume in collaborazione con l’AFIM-LCFE, presentato in seno al Convegno intitolato “Labirinti e porti di Paolo Santarcangeli” tenutosi di recente a Fiume in occasione del Raduno dei Fiumani 2022. Il libro, scritto nel 1987, in cui l’autore di fede ebraica racconta il suo primo esilio da Fiume, dovuto alle leggi razziali, tradotto in lingua croata da Damir Grubiša, già Ambasciatore della Repubblica di Croazia a Roma, e curato dal direttore del Museo civico di Fiume, Ervin Dubrović, ora è disponibile anche al pubblico croato.

Ervin Dubrović.
Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

Testimone del suo periodo
Nato a Fiume nel 1909, Paolo Santarcangeli (all’anagrafe Pàl Schweitzer, che per onorare il comune che gli fornì protezione e rifugio negli anni delle persecuzioni razziali, modificò il proprio cognome in Santarcangeli e con quest’ultimo firmò le sue opere – scrivono Gianna Mazzieri-Sanković e Corinna Gerbaz Giuliano nel volume “Un tetto di radici”, Gammarò edizioni, 2021), fondò la Cattedra di Lingua e Letteratura ungherese all’Università di Torino. Di questa letteratura tradusse numerosi testi, sia lirici sia narrativi, sui quali lavorò intensamente anche come saggista. È autore di molte opere di poesia e di narrativa, soprattutto di carattere autobiografico. Dopo la liberazione dai nazisti Santarcangeli si reca con la madre nella città natale che trova profondamente mutata. La casa in cui abitava venne ceduta dalle autorità comuniste ad altri cittadini, lungo le vie non ci furono più i suoi conoscenti, ma nuovi arrivati la cui lingua, nonostante la sua cultura poliglotta, non conosce. Una parte cospicua della sua attività saggistica e di editore di testi è dedicata alla storia dei simboli e dei miti religiosi. La scrittura di Santarcangeli si propone come testimonianza delle stragi della Seconda guerra mondiale e delle sue tragiche conseguenze quali l’esodo, la dispersione dei fiumani, la morte di una città, di una cultura, a lungo andare la scomparsa di un’identità.

L’esule è «doppiamente solo»
Secondo Santarcangeli, l’esilio è una denuncia delle contraddizioni dell’uomo moderno, segnato dal continuo perpetuarsi della difficile ricerca di sé, di un posto il cui sentirsi a proprio agio, di un’identità in grado di rispondere alla precarietà dell’essere.
Il messaggio di Santarcangeli testimonia ed esorcizza la solitudine dell’individuo, il destino dell’esule di essere “doppiamente solo” e il bisogno morale e civile del “diverso” di essere più saggio, più generoso e migliore degli altri uomini. Lo leggiamo nel “Porto dell’aquila decapitata” (1969).

Tre categorie di persone
Santarcangeli non ha mai cessato di ricordare scherzosamente la frase del suo amico ungherese, Paolo Rónai, anche lui di origine italoungherese fiumana: “Al mondo ci sono tre specie di persone: quelle nate a Fiume, gli ungheresi e infine tutti gli altri”. La tenacia morale degli “intellettuali di frontiera” ha caratterizzato anche la sua vita e la sua opera, restando fedele al motto dello stemma della città di Fiume: “Indeficienter!”. Anche di lui parla quindi la vecchia canzone fiumana: “Semo fioi de questa tera/nati all’ombra de San Vito/Rasegneve stuzzicadenti,/italiani morirem!”. Gli stuzzicadenti erano i gendarmi austro-ungarici, alti, ossuti, magri. I fiumani, amanti del “magnar e bever”, e che con la prosperità del porto potevano permetterselo, erano più corpulenti.

Espressione lirica universale
I figli, nipoti e pronipoti dei fiumani di allora vivono nell’Italia odierna. Sono esuli in patria, con la terra materna nel cuore. Altri, di madrelingue ancora italiana, sono rimasti a Fiume. Santarcangeli viene letto da questi e da quelli. La sua poesia e la sua prosa diventano dunque universali. La sua è un’espressione lirica universale. Egli ha conosciuto le persecuzioni, politiche e razziali. Le ha narrate nel volume che stiamo sfogliando, colmo di memorie, testimonianze e delusioni. Con l’ingresso in guerra, un certo numero di ebrei venne arrestato. A Fiume, città al confine con la Jugoslavia, le deportazioni furono più numerose che altrove. Paolo Santarcangeli fu incarcerato. Fu quindi spedito a Tortoreto nel Molise. Fino alla caduta del fascismo rimase a Trieste. Qui alloggiò nelle vicinanze della casa del grande poeta Umberto Saba. Anche se non divennero mai amici, si frequentavano. E come fu il caso con la Mitteleuropa, ciò che univa i due era la sincerità, l’atteggiamento morale che oggi spesso viene a mancare tra le persone. Fra i migliori nel campo dello spirito, l’opera di Santarcangeli conosce distinzioni ma non confini. A testimoniarlo è anche la traduzione in lingua croata del suo volume “In cattività babilonese”, pubblicazione curata da Ervin Dubrović. Il direttore del Museo civico di Fiume ci ha spiegato l’importanza della conoscenza della produzione di Santarcangeli e in particolare del volume che ha avuto l’opportunità di curare.

Continuazione di una collaborazione
Come si è giunti all’idea di avvicinare i lettori della maggioranza al volume?
“In realtà non sono a conoscenza della ragione per la quale si è voluto avvicinare i lettori della maggioranza al volume. Melita Sciucca (presidente della CI di Fiume, nda) mi aveva chiamato proponendomi di fare l’editore della traduzione del libro di Santarcangeli. Mi aveva detto anche che la traduzione del testo è opera di Damir Grubiša – precisa Dubrović -. Lo conosco da molti anni e ci collaboro volentieri, quindi ho accettato sin da subito la proposta, oltre che per il fatto che la lettrice del volume è Gordana Ožbolt. È lei la persona che da decenni ormai controlla e corregge ogni frase che scrivo. Questo team aveva lavorato già alla traduzione del volume ‘Un italiano di Fiume’ di Enrico Morovich, pubblicato l’anno scorso.
Per me è stato del tutto naturale continuare a lavorare insieme anche per quanto riguarda il libro di Santarcangeli, un autore molto più complesso rispetto a Morovich che richiede l’impegno di tutta la squadra. Ma tale si presenta l’editoria vera e professionale. Ci sono grandi scrittori che hanno avuto la fortuna di avere grandi editori, grazie ai quali venivano stimolati, criticati, incoraggiati… Certo, non credo di essere uno di questi grandi editori, ribadisco soltanto che curare e finalizzare un testo è sempre un grande compito aggiuntivo, che viene fatto dopo che uno scrittore e un traduttore hanno terminato il proprio lavoro.
Un libro deve essere portato alla perfezione e deve contenere il minor numero di errori possibile. Una decina di anni fa sono stato editore del volume ‘Il porto dell’aquila decapitata’ di Santarcangeli, pubblicato dal Centro editoriale di Fiume. La prima volta che ho sentito parlare di Santarcangeli era molto prima, da parte di Amleto Ballarini, all’epoca presidente della Società di Studi fiumani, il quale riteneva fondamentale tradurre proprio quel libro, al fine di presentare i fiumani di una volta agli abitanti odierni del capoluogo quarnerino. Questa è stata una grande scoperta per me”.

Molteplici origini e mille rifugi
Perché è importante leggere e studiare la produzione di Santarcangeli e soprattutto l’edizione bilingue appena pubblicata?
“Stiamo parlando di uno scrittore estremamente interessante e di un intellettuale sensibile che ci rivela una visione speciale della Fiume del suo periodo. Santarcangeli è una persona di particolare emotività che arricchisce l’atmosfera del suo tempo con un tocco speciale e personale. Leggendo scrittori quali Santarcangeli, Morovich e Katunarich, è possibile immaginare il periodo tra le due guerre e la Fiume d’epoca situata ai margini delle comunità e delle culture nazionali.
Anche se ancora oggi ci riferiamo spesso al multiculturalismo e al cosmopolitismo fiumano, si tratta di una frase piuttosto detta così che di un multiculturalismo vero e proprio. Santarcangeli è un uomo dalle molteplici origini e dai mille rifugi – ebraici, ungheresi e italiani – e tale posizione, un punto di partenza intellettuale e del modo di vivere di molti fiumani all’epoca, oggi non è facile comprendere del tutto dato che noi fiumani di oggi siamo culturalmente molto più lineari; il nostro punto di partenza è generalmente molto più ristretto”.

Il volume è una sorta di testamento; quanto si differenzia dal “Porto dell’aquila decapitata”?
“In un certo senso, il volume differisce parecchio dal ‘Porto dell’aquila decapitata’, ma in realtà entrambe le opere sono molto simili tra di loro. Innanzitutto i due libri sono caratterizzati dalla stessa sensibilità di una personalità forte e produttiva.
‘Il Porto dell’aquila decapitata’ parla della città dal punto di vista di colui che prova un forte sentimento di nostalgia e non riesce a superare la perdita, con l’amarezza che condivide con decine di migliaia di suoi concittadini. ‘In cattività babilonese’ l’autore prova dentro di sé l’amarezza di un esule che porta un peso particolare non condiviso con la maggioranza di concittadini perché ostracizzato anche dalla propria comunità per la quale nutre un senso di appartenenza.
Il primo libro è in un certo senso generale, il secondo è del tutto personale, ma entrambi parlano di Fiume e della sofferenza della gente di Fiume. Sia uno che l’altro sfociano in un unico Fiume dell’esodo e terminano con l’esilio, l’amarezza e la nostalgia.
Oltre alle sfumature dell’espressività culturale e nazionale fiumana, ambedue i libri mantengono la necessità di puntare il dito contro i persecutori”.

Disagio e compassione
L’esilio visto da Santarcangeli e l’esilio nella società contemporanea?
“Santarcangeli vede l’esilio (esodo) come lo vede il resto degli italiani di Fiume, come una disgrazia vissuta in prima persona che li ha segnati per sempre. L’ultimo esilio per i nuovi fiumani, quelli di oggi, è un disagio vissuto da altri, osservato da lontano e non riguarda loro direttamente. Qui ci sono persone provenienti da Paesi lontani, con un aspetto diverso e una cultura diversa, con il cui destino i fiumani odierni non possono convivere in alcun modo. Vengono visti come degli intrusi e come un possibile pericolo. È naturale per le persone salvaguardare i propri privilegi e diffidare di coloro che potrebbero minacciarli. D’altro canto, a volte sorge un sentimento di disagio e imbarazzo di fronte a chi soffre e viene punito, la cui dignità umana è stata violata. È possibile ritirarsi una volta trovatisi dinanzi a un tale sentimento. È possibile provare anche compassione”.

Qual è il significato della figura di Paolo Santarcangeli per la città di Fiume?
“Santarcangeli è uno dei più grandi intellettuali fiumani del XX secolo. Le sue origini complesse sono ciò che lo mette in grado di collegare la cultura mitteleuropea e quella mediterranea. Scrittore, poeta, traduttore, saggista, autore di libri su Fiume, sui labirinti e l’umorismo, Santarcangeli ha raggiunto una posizione artistica e intellettuale praticamente ineguagliabile. La sua opera è un patrimonio molto stimolante; le traduzioni dei suoi libri in croato gli permettono di penetrare nella cultura croata. Senza ombra di dubbio, la traduzione della ‘Cattività babilonese’ aprirà le porte alla sua vasta produzione”.

Testo e contesto
Damir Grubiša si è soffermato invece sull’aspetto linguistico del testo, sui prestiti linguistici usati da Santarcangeli e sugli ostacoli superati durante la realizzazione del suo “compito”.

Quali sono le sfide che ha dovuto affrontare nella traduzione del volume?
“Ogni autore rappresenta per un traduttore una sfida particolare. Innanzitutto, si tratta del genere del prototesto, cioè del testo fonte. Nel caso di Santarcangeli, bisogna capire che si tratta di un prototesto composito, di stili sovrapposti: quello di narratore, come vorrebbe suggerire il sottotitolo ‘Avventure e disavventure in tempo di guerra di un giovane giuliano ebreo e fiumano per giunta’ e quello del saggista, del filosofo, dello storico e anche del mistico – perché Santarcangeli, avvocato appartenente alla borghesia fiumana, si forma intellettualmente proprio nel periodo del confino e della clandestinità, durante la quale riesce a sopravvivere la Shoah degli ebrei italiani. E poi bisognava tenere conto del contesto culturale dell’autore. Egli stesso è un mediatore culturale, riunisce le componenti ungherese ed ebraica a quella italiana, e perciò il suo pensiero espresso nella forma comunicativa letteraria spazza dalla matrice mitteleuropea a quella ebraica per finire e prendere corpo nella lingua e nel codice comunicativo italiano. Tutto questo egli riesce a sintetizzare nel concetto, mai espresso letteralmente, di ‘fiumanità’, un’appartenenza a un cosmo specifico che riesce a digerire queste contraddizioni culturali e storiche, dalle quali egli proviene”.

Le frasi sono spesso lunghe, la sintassi è complessa. Possiamo parlare di veri e propri labirinti linguistici.
“Esatto. Non a caso egli ha scritto ‘Il libro dei labirinti’, tanto lodato anche da Umberto Eco che ne ha tratto l’ispirazione per il suo romanzo ‘Il nome della rosa’. Il pensiero di Santarcangeli è complesso, si potrebbe dire contorto, la sua riflessione non è mai univoca. Bisogna decifrare questo suo discorso intellettuale che vuole nello stesso tempo essere una narrazione, un’autoriflessione e psicoanalisi del proprio ego, una profonda riflessione storica, etica e cosmologica e lascia il lettore spesso sospeso nel dubbio di avere capito o meno ciò che l’autore voleva dire”.

Cultura emittente e cultura ricevente
Oltre a nutrire un grande interesse per l’aldilà Santarcangeli usa numerosi forestierismi. La sua scrittura è legata alla cultura mitteleuropea. Utilizza termini latini, inglesi, francesi e tedeschi. Alcuni mantengono la versione originale, altri sono stati tradotti in lingua croata. Come è stata fatta la scelta?
“Nel metatesto ho tentato di tenere conto dell’invariante semantica del prototesto e cioè di tutti gli elementi comuni alla cultura (meglio dire culture, al plurale) emittente e alla cultura ricevente. Dunque, ho fatto un po’ come ha fatto un mio collega e amico, il traduttore (e autore) Silvio Ferrari, che ha dovuto barcamenarsi con la traduzione di vari testi dello scrittore croato Miroslav Krleža in italiano. Anch’egli si è trovato nella situazione di dover mediare tra un autore che riunisce in sé diverse tradizioni culturali, quella mitteleuropea, tedesca, ungherese e croata, e ha dovuto tener conto dei molti forestierismi. Cosi ho fatto anch’io – siccome Santarcangeli è poliglotta, egli si serve di termini ed espressioni che provengono da diverse lingue e contesti culturali europei. Ma io sono stato solo il traduttore. È Ervin Dubrović colui che ha fatto l’editor del libro. A lui è stato affidato l’arduo compito di completare il trasferimento del testo adattandolo alla cultura ricevente. Purtroppo, per via della fretta con la quale bisognava pubblicare il libro che doveva uscire proprio per il Raduno dei fiumani, non sono riuscito a controllare tutte le modifiche fatte dall’editor. Io li avrei lasciati tutti i forestierismi, anche se questo avrebbe significato per il lettore che ciò poteva richiedere un punto di partenza, diciamo, più sofisticato rispetto a un testo prettamente letterario…
Ma Santarcangeli non è Morovich ovvero un narratore, poeta e sognatore e si porta il carico di una tragedia universale vissuta in prima persona. Eppure tutti e due riflettono, ognuno dal proprio punto di vista, la complessità di quello che è la fiumanità culturale”.

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