Il grido del silenzio

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Il grido del silenzio

Claudio Ugussi è nato nel 1932 a Pola, che all’epoca era una città italiana. Dopo essersi laureato a Zagabria si è trasferito a Buie, dove tutt’ora vive. È uno di quegli italiani residenti che non abbandonarono la penisola istriana quando questa divenne jugoslava (circa 300.000 italiani su 500.000 lasciarono le proprie case durante gli anni dell’esodo, che conobbe il picco massimo negli anni successivi al 1947 ma che ancora continua, in maniera strisciante). Pittore, poeta, prosatore, è uno dei più importanti intellettuali della Comunità Nazionale Italiana dell’Istria e del Quarnero. Nel suo romanzo “La città divisa” e nei racconti del “Nido di pietra” è riuscito a tratteggiare in maniera eccellente la realtà in cui hanno vissuto gli italiani negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale. Le sue opere sono un esempio di come la letteratura possa aiutare a superare i traumi, siano essi personali o sociali: nelle opere in prosa di Ugussi il doloroso passato dell’Istria e degli italiani istriani diventa finalmente Storia, vale a dire una narrazione limpida e obiettiva dei fatti accaduti, senza scorie revanscistiche e nazionalistiche.

Allievo di Venucci

Claudio Ugussi e l’arte. Ci vuole parlare dei suoi inizi?

“L’inizio riguarda innanzitutto la pittura, e in particolar modo il disegno. Già ai tempi del Liceo, a Fiume, ero allievo del professor Venucci, il più grande pittore fra gli italiani rimasti. Venucci mi aveva preso in simpatia perché vedeva che ero portato per il disegno. Così che facevo i ritratti dei miei compagni di scuola, in collegio disegnavo le partite di calcio, ogni lunedì mettevo fuori i cartelloni con i disegni dei gol. Quando sono andato a Zagabria volevo iscrivermi all’Accademia delle Belle Arti ma era difficilissimo superare gli esami d’ammissione, prendevano pochissime persone all’anno, 5 studenti in tutto. C’erano centinaia di pretendenti. Mi sono iscritto al corso di studi in Romanistica presso la Facoltà di Filosofia. Nel frattempo frequentavo anche le lezioni all’Accademia. Negli anni Sessanta, finiti gli studi, appena tornato in Istria mi hanno trasferito a Buie per un anno a lavorare nella scuola. L’anno si è un po’ prolungato, da allora sono passati 50 anni e io vivo ancora qui. Un po’ perché mi sono sposato e ho messo su casa, un po’ perché ho subito cominciato con la pittura. Ho trovato un piccolo atelier nella città vecchia e avevo anche due allievi che venivano lì per imparare. Lì ho fatto i primi lavori, a olio, e mi sono avventurato anche nel paesaggio. Il paesaggio che ho rappresentato era quello del Buiese, che era così caratteristico e diverso da quello di Pola perché Pola è in pianura, mentre qui è collinare. In più, c’era da tirar fuori quello che le case vuote, lasciate dagli italiani a seguito dell’esodo, sembravano voler comunicare. Quest’aspetto del paesaggio mi ha subito colpito e proprio quello delle case è diventato uno dei motivi fondamentali della mia pittura. Subito ho avuto delle mostre collettive, a Pola innanzitutto, e poi ho ricevuto una borsa di studio per Padova. Lì ho frequentato le accademie, un amico pittore, e ho fatto una mostra a Venezia con questo mio amico, che si chiama Cocchietto. Poi ho partecipato a una collettiva a Roma fra i pittori veneziani, perché la mia pittura è attinente a quella veneziana del Secondo Novecento”.
In più, c’è anche da dire che i circoli intellettuali e politici italiani avevano non poche difficoltà a parlare dell’Istria, anche solo dal punto di vista artistico. L’Istria in quegli anni era ancora un tabù…
“Certo per l’Italia la mia pittura era una novità. In queste case vuote sembra di vedere tutto il dolore degli italiani. Le case sono senza finestre, chiuse, mute. C’è un anedotto su queste case senza finestre. Quando ho fatto la mia prima mostra a Buie in cui erano esposti i miei quadri, uno dei politici che allora andava per la maggiore mi venne vicino e mi chiese il perché dell’assenza delle finestre, e io gli risposi: “Caro compagno, è così perché la gente non può più vedere quello che succede, e non può neanche parlare, naturalmente. Così come la gente… anche le case sono rimaste cieche e mute”. Lui si è messo a ridere, non sapeva cosa rispondere”.

La passione dell’insegnamento

Com’è stato per gli italiani vivere nella Jugoslavia di quel periodo?

“Per noi era fondamentale avere un rapporto con la cittadinanza locale. Quando sono arrivato a Buie era frequente l’uso della lingua italiana, forse ancora più di oggi. Parecchie persone erano rimaste e solo successivamente se ne sono andate, dall’Istria e anche da Buie. Io, ripeto, sono arrivato qui negli anni Sessanta, ho fatto amicizia con molti ragazzi, con molte persone. Molti sono andati via dopo, un esodo posteriore a quello di Pola, a quello che data ufficialmente agli anni appena successivi al ’45. Per me era fondamentale la scuola: tutto il nostro ardore si riversava sui ragazzi e sull’insegnamento. Volevamo tirar su una nuova generazione, c’erano pochissimi intellettuali italiani, bisognava formarli. Io ero fra i primi ad aver frequentato l’Università e ad aver raggiunto una laurea. Bisognava formare. E ci siamo riusciti. Ancora oggi, se vado in giro per Buie trovo moltissimi miei ex alunni che hanno raggiunto qualcosa nella vita e che vivono ancora qui. Anche se alcuni sono pendolari per lavoro, la maggior parte cerca di sistemarsi qui. L’esodo è continuato, strisciante, per anni, ma si è avuta un’impennata di partenze durante l’ultima guerra, quella dello sfacelo
dell’ ex-Jugoslavia. Molti giovani, da tutta la Croazia, non solo dall’Istria, partitono per l’estero.
E adesso le cose come vanno, come sono i rapporti con le autorità e la popolazione croata?
“Ormai le autorità cambiano, non è come una volta che c’era il gerarca fisso sul posto. Il ras locale non c’è più, le elezioni garantiscono un continuo cambiamento nei posti dirigenziali. Io ho anche fatto un po’ di politica: dopo la dissoluzione della Jugoslavia e il riconoscimento dell’indipendenza della Croazia sono stato consigliere comunale per due mandati, e questo mi ha permesso di essere “dentro”, di controllare la situazione. Ormai siamo come un qualsiasi Paese dell’Occidente, per quel che riguarda la democrazia. Con tutti i problemi che hanno anche gli altri Stati: è l’economia oggi a creare la maggior parte dei problemi”.

La scrittura

Quando ha cominciato a scrivere? E perché ha scritto prima poesie e solo successivamente opere in prosa?

“Era sicuramente più facile parlare di certi argomenti in poesia. Eravamo legati al retaggio dell’ermetismo italiano. Seguendo i pricipi di quella corrente, potevamo parlare di determinati argomenti senza essere troppo espliciti. Chi aveva un po’ di intelligenza, però, capiva le nostre poesie, sapeva di cosa si parlava, quanto fosse presente la situazione storica in cui gli italiani vivevano. Tutti i nostri scrittori italiani d’Istria erano poeti. Solo negli anni Ottanta, quando cominciò il disgelo, furono scritte e pubblicate le prime opere in prosa, anche la mia.
Ho avuto anche un po’ di fortuna perché sono riuscito a pubblicare le poesie a Roma, grazie a un critico letterario che si chiama Enzo Frattarolo, scomparso pochi anni fa. Poi tramite i concorsi ‘Istria Nobilissima’ sono riuscito a farmi conoscere finché, all’inizio degli anni Ottanta, ho cominciato il mio primo romanzo, “La città divisa”, che ho scritto in poco tempo: il materiale era già pronto, era dentro di me: letteralmente scritto dentro.
Pensavo: “Scriverò, scriverò, questo romanzo”, e nel frattempo me lo scrivevo dentro”.

Si rimaneva anche per altri motivi

Sia il suo romanzo, sia la raccolta di racconti pubblicata successivamente e intitolata “Il nido di pietra” sono un tentativo di dialogo con gli italiani che partirono e lasciarono per sempre l’Istria durante gli anni dell’esodo.

“Sì, io tentavo di dialogare anche perché ero convinto che il libro potesse essere interessante per gli italiani rimasti.
Non è che noi rimasti fossimo d’accordo con il sistema socialista in voga in Jugoslavia, come le associazioni degli esodati ci hanno più volte rinfacciato: si rimaneva anche per altri motivi, non perché si fosse necessariamente politicamente d’accordo con una nuova Jugoslavia socialista. Certi sì, alcuni fra i più vecchi erano comunisti convinti che speravano nel sol dell’avvenir. Noi più giovani eravamo piuttosto critici verso il sistema, infatti ci furono delle manifestazioni di protesta che videro coinvolti anche giovani croati a Zagabria.
I nostri libri sono stati un ponte con coloro che se ne sono andati, che continuano a chiamarci “i rimasti”. Io però preferirei si usasse un altro termine: “residenti”, e ancor meglio “i residenti storici”.

Il romanzo “La città divisa” è anche un tentativo – riuscito – di dialogo con gli slavi del sud, con cui gli italiani d’Istria si sono più volte scontrati durante il secolo scorso. Il romanzo pubblicato prima dall’editore ‘Campanotto’ di Udine nel 1991 è stato tradotto nel 2002 e pubblicato dalla Durieux. Poi lo ha pubblicato pure l’Edit nel 2011 per la collana “Altre lettere italiane”. Come è stato accolto il libro in Croazia?

“Meglio che in Italia. In Italia escono moltissimi libri ed è difficile che un editore piccolo come il mio possa avere una grande distribuzione. L’Italia ha un grandissimo mercato, mentre qui, appena il libro è stato tradotto, si sono presentati da me 4 o 5 giornalisti di Zagabria.
Il settimanale ‘Globus’ mi dedicò subito un’intervista. I giornalisti volevano sapere cosa, come e quando fosse successo ciò che io racconto nel libro. Era una novità. Parlò del romanzo anche il quotidiano ‘Slobodna Dalmacija’. Questi giovani giornalisti erano molto favorevoli e meravigliati. Asserivano di non sapere assolutamente nulla delle vicende degli italiani d’Istria: ‘Ci hanno tenuto tutto nascosto’, dicevano”.

Nel Secondo dopoguerra si parlava poco della minoranza italiana…

“Per niente, non si voleva che se ne parlasse. È stato però anche per loro uno shock, così che il libro ha avuto una forte diffusione. Anche il secondo libro è stato tradotto e ha avuto successo, ma non come il primo, che parlava direttamente dell’esodo e della storia degli italiani d’Istria”.

Come si sono sentiti gli italiani durante la transizione dalla Jugoslavia alle nuove realtà nazionali e la guerra dei primi anni Novanta? Lei ne parla in un racconto intitolato il “Nido di pietra”, che dà poi il nome all’intera raccolta.

“Molto molto pesantemente. I nostri giovani non volevano saperne di fare una guerra che non sentivano come propria. Qualcuno, ma parliamo davvero di pochissime persone, partì volontario. Gli altri trovarono il modo di studiare in Italia: chi studiava in una facoltà straniera era esonerato dal servizio militare.
Molti altri trovarono lavoro in Italia. Era così cominciato il secondo esodo.

Noi seguivamo i fatti, ma eravamo un po’ sospettosi di tutto questo movimento di truppe.
Però siamo convinti adesso che quello che è successo doveva succedere. Io già prima avevo più volte asserito che quel sistema non poteva durare. Si parlava di autogestione ma questo era un concetto astratto: non esisteva un’autogestione vera, perché tutto veniva deciso dallo Stato, cioè dal Partito comunista.
Ci furono innanzitutto motivi economici che provocarono questo disastro, trascinati da motivi politici e da antichi rancori che covavano nel passato e che dovevano essere liberati.
Il bubbone doveva scoppiare”.

Quali sono le prospettive per la comunità italiana in Istria oggi?

“Tutto dipende dal numero. Anche nell’ultimo censimento è stato registrato un calo tra coloro che si dichiarano italiani. Il numero degli italiani è cresciuto negli ultimi vent’anni perché molti croati si sono dichiarati italiani. Nei momenti di crisi, quando trovare lavoro in Italia era una prospettiva per il futuro, molti croati d’Istria (magari figli di un solo genitore italiano o con lontane origini italiane), pur essendo titubanti, si iscrissero alle Comunità degli Italiani per ricevere l’attestato d’iscrizione, dimostrare di essere italiani e trovare un lavoro oltre confine. Questo è accaduto durante la guerra degli anni Novanta e subito dopo, nei momenti più difficili per la Croazia. Adesso anche in Italia c’è la crisi, per cui questa prospettiva non è allettante come prima. Speriamo quindi che i nostri italiani non emigrino più dall’Istria. Abbiamo bisogno che il loro numero aumenti. La Comunità di Buie è molto attiva. Anche la scuola va abbastanza bene, possiamo solo augurarci che il numero degli italiani residenti non cali ulteriormente”.

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