Il grande ritorno ai valori tradizionali della Generazione Z

Il musical «La nostra famiglia», una coproduzione del Dramma Italiano presentata all'«Ivan de Zajc» di Fiume per la regia di Marjan Nečak, tocca tematiche molto attuali

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Il grande ritorno ai valori tradizionali della Generazione Z
I giovani con il tutore Marko. Foto: Roni Brmalj

Un applauso lungo e caloroso ha salutato la prova (in italiano, croato e sloveno) degli attori impegnati nella rappresentazione del musical “La nostra famiglia/Naša familija” di Saša Eržen, per la regia del compositore e regista macedone Marjan Nečak, messo in scena al TNC “Ivan de Zajc” di Fiume dal Dramma Italiano in coproduzione con il Teatro stabile sloveno di Trieste e il Gledališče Koper – Teatro Capodistria. Noto al pubblico fiumano per “La signora delle camelie”, “Il fascino discreto della borghesia”, “I signori Glembay”, “La canzone delle canzoni” e altre opere di successo, per quest’ultima fatica (alla quale ha lavorato per due anni) l’artista ha preso spunto dalla poesia “Little Orphant Annie” (L’orfanella Annie) di James Whitcomb Riley, incentrata su vari aspetti relativi al declino morale della società.

Due realtà a confronto
Rifacendosi ai motivi della succitata lirica, la trama racconta di due realtà e generazioni parallele apparentemente molto distanti: quella di sette adolescenti orfani che, insieme al tutore/educatore Marko, che cerca di salvarli dalla beffa di non avere, oltre ai genitori, neanche un futuro, vivono in un vecchio villino e, dall’altra parte della città, all’interno di un palazzo elegante, la storia dei coniugi Luka Di Caprio e di sua moglie Laura, situati, benestanti, arrivati, ma senza figli ed essenzialmente non felici. Caso vuole che nella sala d’attesa di una clinica ginecologica quest’ultima incontri Tamala, una delle ragazze, e tra le due nasca una bella sintonia e simpatia. Al loro rientro nelle rispettive case entrambe si sentono diverse e consapevoli dei loro vuoti. Nel mentre, tra la complessa quotidianità dei giovani, intessuta, oltreché con tutto ciò che la vita da orfani comporta, anche con i primi timidi (e sconosciuti) sentimenti amorosi e la tristezza (rafforzata dagli squilibri ormonali di Laura) della coppia, l’incertezza del domani si materializza in un’email che, data l’insostenibilità finanziaria, avvisa dell’intenzione di vendere la casa famiglia, di trasferire i ragazzi in un altro istituto e di collocare Marko (che si scopre avere il morbo di Parkinson) a riposo. Il finale, che potrebbe riportare a quelli classici hollywoodiani, quindi apparire scontato o semplicistico, si presenta invece, in quanto aperto, un momento privilegiato, in cui il significato della pièce stessa e le emozioni che trasmette si concentrano nella mente e nel cuore degli spettatori.

Braccio di ferro tra due adolescenti.
Foto: Roni Brmalj

La complessità del mondo esterno
Vissero, quindi, sì felici e contenti ma, come nelle fiabe che si rispettino, il percorso per raggiungere una parvenza di serenità non è per nulla costellato di leggerezza, anzi. Nel caso degli adolescenti Tamala (Pia Skvarča), Secchiona (Elena Brumini), Principessa (Urša Kavčič), Forza (Serena Ferraiuolo), Mišica (Mak Tepšić), Boben (Blaž Popovski) e Picasso (Andrea Tich), membri della cosiddetta Generazione Z, fondamentalmente fragili ed esposti alla paura del futuro, dell’ignoto e di non essere attrezzati per la complessità del mondo esterno, purtroppo lungo lo stesso hanno già incontrato orchi e mostri, non di rado mascherati nelle sembianze di comuni genitori/parenti, oppure in quelle della miseria, dell’abbandono, dell’ignoranza, del buio dell’anima, della solitudine. Una generazione figlia delle libertà autoespressive e al contempo vittima di uno scenario sociale che la rende insicura ed esclusa. In questo i ragazzi non sono diversi da Laura e Luka, la generazione adulta, con la quale oggi troppo spesso condividono la difficoltà di dare una direzione e un senso coerente al proprio vivere.

Il confronto tra Principessa e Tamala.
Foto: Roni Brmalj

Uno sguardo nuovo
In tale contesto, Marjan Nečak, che consequenzialmente tocca anche le tematiche relative all’influsso del capitalismo sulle summenzionate sensazioni, la diminuzione dell’empatia sociale, la crisi di un mondo dominato dall’iperproduzione, dalla tecnologia, dalla connettività, dalla virtualità, dal materialismo e dal guadagno veloce, dalle soddisfazioni istantanee e fugaci, accende un allarme e fa riflettere su questioni importanti, scaltramente infiltrate nelle maglie della drammaturgia. Il regista invita, inoltre, a cambiare lo sguardo che si è soliti posare sui giovani della suddetta generazione e magari cominciare a osservarli con curiosità, empatia, accoglienza e ascoltare la loro voce, i loro sogni e desideri i, quali, come quelli delle generazioni precedenti, sono ancorati al loro tempo, aiutandoli ad uscire dalla liquidità baumaniana. Sì, perché nella loro ricerca di un’identità autentica, i valori tradizionali, le radici solide e dei riferimenti stabili possono rappresentare una sorta di ancora di salvezza in un mondo frenetico e in costante cambiamento. Un’importante manifestazione del ritorno agli stessi è la ricerca e l’interesse per la famiglia, enfatizzata dal regista quale base della società, indipendentemente dalla sua forma, in quanto, a sua detta, tutte le generazioni ne abbisognano. A fare da fil rouge è la musica (firmata da Nečak), che andando a tratti a pari passo con quella contemporanea relativa ai ragazzi e cambiando abilmente generi, accompagna morbidamente le storie e l’espressione teatrale. Infine, oltre al compatto e bravo gruppo attoriale, va fatto un dovuto plauso anche alle scenografie curate da Valentin Svetozarev, ai costumi di Mia Popovska, alle coreografie di Klemen Janežić e alle proiezioni video di Marin Lukanović.

Ciascuno in compagnia del proprio telefonino.
Foto: Roni Brmalj

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