Il crepuscolo dell’umanità e l’illusione della salvezza

Il terzo appuntamento del Teatro filosofico al Teatro Nazionale Croato «Ivan de Zajc» di Fiume ospiterà Joshua Oppenheimer, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico texano

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Il crepuscolo dell’umanità e l’illusione della salvezza
Joshua Oppenheimer. Foto di Pascal Bünning

Il 9 marzo, in concomitanza con il terzo appuntamento del Teatro filosofico curato dal filosofo Srećko Horvat, il Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc” di Fiume ospiterà Joshua Oppenheimer, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico texano residente a Copenaghen. Autore del dirompente dittico “The Act of Killing” (L’atto di uccidere, 2012) e “The Look of Silence” (Lo sguardo del silenzio, 2014), il primo candidato all’Oscar e annoverato tra i rari capolavori conclamati del XXI secolo, il secondo vincitore del Gran Premio della Giuria alla 71esima Mostra di Venezia, entrambi prodotti sotto il nume tutelare di due maestri del cinema documentaristico mondiale, Werner Herzog ed Errol Morris.

Nel 2023 il visionario regista ha segnato il suo ritorno dietro la macchina da presa con il suo primo lungometraggio di finzione, “The End”, musical catastrofico presentato a Telluride, Toronto e San Sebastián, che il pubblico fiumano avrà modo di vedere, sempre il 9 marzo, alle ore 17 all’Art cinema, prima dell’incontro con il regista nell’ambito del Teatro filosofico. Girato nella Miniera Italkali di Raffo (Petralia Soprana, Sicilia) e definito un racconto “urgente e indimenticabile”, il film esplora la resilienza di una famiglia sopravvissuta alla fine del mondo. Inquietante allegoria post-apocalittica, l’opera affonda le radici nelle lacerazioni della contemporaneità: il capitalismo predatorio, il collasso climatico e i plutocrati più attenti alla propria sopravvivenza che a quella del pianeta. Eppure, per Oppenheimer, “The End” si configura anche quale un atto di speranza, un monito che, paradossalmente, ci esorta ad aprire gli occhi sulla struggente bellezza della vita e della Terra.
Abbiamo avuto il piacere di parlargli da remoto, in virtù della sua imminente tappa nel capoluogo quarnerino, inaugurando il dialogo con una riflessione sulla relazione tra l’ultima fatica cinematografica e i precedenti lavori. Un confronto che ci ha permesso di rintracciare il filo rosso che percorre la sua poetica e di approfondire la sua concezione del cinema quale strumento di indagine e disvelamento.

Memoria, potere e menzogne
I suoi film esplorano spesso il rapporto tra memoria, trauma e potere. In che modo «The End» amplia o approfondisce questi temi rispetto a «The Act of Killing» e «The Look of Silence»?
“Come nei miei lavori precedenti, ‘The End’ riflette sulla narrazione: su come raccontiamo storie per nascondere la verità a noi stessi, per oscurare il passato, e di conseguenza, per offuscare la nostra stessa identità, perché noi siamo il nostro passato. Tutti e tre i film indagano il meccanismo attraverso cui creiamo e ci aggrappiamo a giustificazioni per alleviare i nostri rimorsi, fino a convincerci della loro veridicità. In ultima analisi, esplorano la singolare capacità umana di mentire a sé stessi e gli effetti devastanti di questa autoillusione”.

Nelle pellicole precedenti ha coinvolto direttamente gli autori e le vittime di violenze storiche. In che modo «The End», pur essendo un’opera di finzione, si relaziona alla realtà?
“Inizialmente volevo realizzare un terzo film in Indonesia, incentrato sui miliardari che hanno accumulato immense ricchezze sfruttando un Paese ridotto al terrore, uomini che ancora oggi detengono il potere. Ma tornare non sarebbe stato sicuro, cosicché iniziai a fare ricerche sugli oligarchi in situazioni analoghe altrove. In tale contesto, incontrai un magnate del petrolio in particolare, politicamente influente e coinvolto in gravi violenze, che stava cercando di acquistare un lussuoso bunker per sé e i suoi cari. Come parte di un viaggio di ricerca con questa famiglia, andammo a visitare il rifugio, dove mi ossessionavano domande quali – ‘Come si affronta il senso di colpa per la catastrofe da cui si fugge? Come si convive con il rimorso di aver abbandonato chi si ama? Come si cresce una nuova generazione in un bunker, ragazzi che non vedranno mai il cielo, trasformandoli in una tela bianca su cui dipingere un ritratto idealizzato di sé stessi, per cancellare il proprio passato?’.
Non li conoscevo abbastanza per porgliele, nonché l’unica pellicola che avrei potuto realizzare con loro sarebbe stato un documentario ambientato nel nascondiglio, 25 anni dopo il trasferimento. Ovviamente, non sarei mai stato invitato a girarla. Durante il volo di ritorno, per schiarirmi le idee, rividi uno dei miei musical preferiti. Ed è lì che ebbi l’illuminazione: raccontare la storia attraverso quel genere espressivo. Una delle ultime famiglie umane, alle prese con i dubbi, il senso di vuoto e la colpa, decenni dopo una catastrofe di cui loro stessi furono complici. Dato che il musical dell’epoca d’oro di Broadway è un genere tipicamente statunitense, la stessa sarebbe stata americana e il titolo dell’opera ‘The End’. Tuttavia, i personaggi sono solo vagamente ispirati al magnate del petrolio che incrociai. Ho cercato di ritrarli con profonda empatia e profondità psicologica, ispirandomi alla mia stessa famiglia, alle persone che amo e conosco. Anche gli attori hanno fatto lo stesso. Il risultato è un film che, al contempo, parla dell’intera famiglia umana e di ogni singola famiglia. I protagonisti non hanno nome perché rappresentano me, i miei cari, voi”.

La musica gioca un ruolo cruciale. Cosa l’ha spinta a scegliere il musical quale strumento narrativo? E in che modo influisce sull’impatto emotivo e tematico del film?
“Il fatto che ‘The End’ sia un musical lo trasforma in una riflessione sulla narrazione stessa, sulle illusioni che costruiamo e sulle verità che scegliamo di negare. Lo stesso è il genere della falsa speranza, dell’illusione che possiamo perpetuare dinamiche distruttive anche quando siamo in caduta libera, perché tanto tutto andrà bene. È la logica del coyote nei cartoni animati, che continua a correre oltre il ciglio del burrone, inseguendo la preda, rifiutandosi di accettare di essere già nel vuoto. ‘Domani sorgerà il sole’ o come cantano nel film – ‘Il nostro futuro è luminoso’ – è una menzogna; è il lupo della disperazione travestito da pecora della speranza. Nei musical americani i personaggi cantano quando la loro verità è troppo grande per essere trattenuta da parole ordinarie. Qui accade il contrario: lo fanno quando le illusioni a cui si sono aggrappati per fare fronte allo loro situazione, per trovare la forza per alzarsi la mattina, si sgretolano mentre la verità perfora la loro bolla, cantando, quindi, nei momenti di profonda inquietudine, in crisi di dubbio. Incapaci di affrontare la verità, si rifugiano disperatamente in nuove melodie, nuove bugie, tese a confortarli. Lottano per convincersi di nuove scuse attraverso la canzone. In tale senso, i brani sono splendide menzogne luminose, ma la verità urla nei silenzi tra le note. Josh Schmidt ha composto armonie ricche e cupe, le quali trascinano inesorabilmente i personaggi verso la verità, finché le loro bugie non crollano e si scontrano con un muro di silenzio (la verità)”.

Un campanello d’allarme
Ha dedicato gran parte della sua carriera a indagare la responsabilità collettiva e la complicità nelle atrocità. Considera «The End» una continuazione di questa esplorazione o rappresenta una nuova direzione nella sua narrazione?
“Non sono capace di rimarcare abbastanza quanto ‘The End’ sia, a mio avviso, un’opera universale, intima e profondamente personale. La Fine è la mortalità. A livello collettivo, è la possibile estinzione della nostra specie. Individualmente, la consapevolezza che siamo nati per morire. Nel film la Ragazza canta: ‘I secondi scorrono via così velocemente, prima che ci si accorga che se ne sono andati, per sempre. Ma ricordo il tempo in cui gli attimi non scomparivano, quando chiudevi gli occhi, un singolo respiro poteva durare all’infinito. Quindi, non aveva alcuna importanza quanti pochi respiri ci restassero’”.

Molti dei suoi film sfidano il pubblico a confrontarsi con verità scomode. Che tipo di risposta emotiva o intellettuale spera di suscitare con quest’opera?
“Innanzitutto, ‘The End’ è un monito, un campanello d’allarme, il quale, però, ha senso solo se si crede che ci sia ancora tempo per ascoltarlo! Forse è troppo tardi per l’ultima famiglia umana chiusa nel bunker, ma non lo è per il pubblico. Quando si esce dal cinema, il cielo è ancora lì, l’aria è pur sempre respirabile. C’è ancora tempo per salvare il nostro bellissimo pianeta. Il film parla d’amore: di come la capacità di amare si svuoti quando ci mentiamo e quando imponiamo queste bugie alle persone che amiamo.
Narra di come le nostre relazioni più importanti diventano dei campi minati di zone vietate, cose di cui non possiamo parlare per imbarazzo o timore. In tali circostanze, quando non affrontiamo la realtà e inganniamo noi stessi, non possiamo proteggere ciò che amiamo, sia che si tratti della nostra famiglia più intima o dell’intera famiglia umana. Se siamo troppo sulla difensiva o ci vergogniamo di ammettere i nostri errori, oppure siamo eccessivamente cinici o rassegnati per credere che abbia senso provarci, non possiamo fare altro che proseguire sulla strada dell’autodistruzione, dritti verso il baratro. Se dovessimo morire prima, le nostre vite sarebbero state vuote, terribili, meno ricche e sostenibili di quanto avrebbero potuto essere. Non lo dico per rimproverare, bensì in quanto ognuno di noi ha una sola possibilità di vivere una vita autentica su questa Terra ancora bella. Quando troveremo il coraggio di rifletterci nello specchio del film, di chiederci sinceramente cosa dobbiamo fare per condurre una vita più onesta, cosa richiede, politicamente ed ecologicamente, questo momento di emergenza, avremo l’opportunità di crescere, cambiare e forse persino risolvere i nostri problemi più urgenti. Quindi, invito lo spettatore, attraverso performance meravigliose, ad aprire il suo cuore e a ritrovare sé stesso in questi esseri umani vulnerabili. Come accogliere l’invito? È semplice: aprendo gli occhi sui volti dei personaggi, le orecchie ai dialoghi, alla musica e al silenzio, il cuore alle emozioni. Brevemente: prima sentire, poi pensare”.

Abbracciare la solidarietà
Ripensando al suo percorso da regista, dalla denuncia della violenza relativa a momenti storici alla visione di futuri distopici, com’è cambiata la sua prospettiva sulla narrazione e sul ruolo del cinema?
“In questo momento sto pensando molto alla solidarietà. Negli anni ‘30 mia nonna fuggì dall’Europa per scampare alla persecuzione nazista. Oggi il Paese che accolse la mia famiglia, gli Stati Uniti, sta scivolando verso la dittatura. Come accadde allora, anche ora il potere usa la xenofobia e il razzismo per dividerci, la paura per isolarci. Quando Donald Trump salì al governo, adottando la politica del ‘Drill, baby drill’, abbandonò l’impegno di ridurre le emissioni del 50 p.c. nei successivi cinque anni, un passo essenziale per prevenire gli effetti più catastrofici del cambiamento climatico. Penso alla paura che mia nonna dovette aver provato lasciando la sua casa. Di recente, sono stato invitato a parlare alla marcia per il clima di Berlino. Credevo sarei stato terrorizzato davanti a una folla così vasta. Dopo essere salito sul palco, però, guardando negli occhi migliaia di persone, che sarebbero poture essere mie vicine di casa, unite dalla volontà di lasciare ai propri figli un pianeta vivibile, la mia paura è svanita. Ho sentito il coraggio di resistere. Ho sentito speranza.
In ‘The End’ la famiglia si vergogna troppo per ammettere la realtà e si rifugia nel canto, cercando di convincersi, anche quando è sull’orlo del baratro, che il futuro sarà radioso. Ma la storia ci insegna una lezione semplice e potente: l’umanità non risolve mai i problemi da sola e in un isolamento dettato dalla paura. Sono curioso di capire come cresciamo come esseri umani attraverso la collettività, la solidarietà, prendendo la decisione di tendere la mano gli uni agli altri e come ‘appassiamo’ quando siamo soli, nell’isolamento. Dinanzi alla marea di gente a Berlino ho sentito speranza, non paura, perché mi sono reso conto che la soluzione alla crisi climatica stava di fronte a me: persone che si ispirano vicendevolmente, che si uniscono per chiedere un cambiamento urgente. Mentre le nubi dell’autoritarismo si addensano, mentre il genocidio a Gaza viene normalizzato, e lo menziono perché quell’atrocità è perpetrata anche in mio nome in quanto ebreo, il coraggio che sappiamo darci l’un l’altro non è solo un conforto. È la nostra umanità. È ciò che significa essere umani. Il nostro futuro dipende da questo e il mio cinema aspira a essere un invito a ripudiare ogni forma di isolamento, abbracciando invece la solidarietà più autentica con l’intera famiglia umana”.

Vi sono questioni storiche o contemporanee specifiche che sente il dovere di esplorare in progetti futuri, oppure tematiche che non ha ancora affrontato nel suo lavoro?
“Per me il mondo è una fonte di meraviglia e stupore, troppo sfaccettato affinché possa racchiuderlo in poche parole, ma mi preme esplorare il mistero di cui siamo tutti parte: l’energia che diventa coscienza, con la nostra separatezza e l’illusione dell’individualità. Nondimeno, sono certo che continuerò a indagare su cosa significhi essere vivi (che è inscindibile dall’essere mortali), sul mistero della coscienza e su cosa sia necessario per vivere una vita pregna di significati. Mio marito Shu è giapponese. Mi ricorda spesso un quesito Zen (le Cinque Rimembranze buddiste, ndr) con cui è cresciuto: ‘È nella tua natura invecchiare. È nella tua natura ammalarti. È nella tua natura perdere le persone che ami. È nella tua natura morire. Come vivrai allora?”

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