Il bello e il brutto (non) è soltanto una questione di cervello

Le neuroscienze possono aiutarci a comprendere i meccanismi alla base della percezione di un’opera d’arte

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Il bello e il brutto (non) è soltanto una questione di cervello

Cosa accomuna i miei ricordi fine novecenteschi di un concerto del grande sassofonista Bobby Watson al centro culturale Link di Bologna, dell’”Amleto” del regista lituano Nekrosius, visto a Parma seduto in prima fila, o dell’”Ultima cena” di Leonardo in Santa Maria delle Grazie a Milano, ammirata assieme a un gruppo di giapponesi?
Sono state esperienze di ascolto e visione dell’arte che hanno richiesto un mio personale sacrificio di spostamento, tempo e denaro e che hanno determinato alcune scelte della mia esistenza. A quel tempo studiavo il sax e ricordo che dopo il concerto, per congratularmi, strinsi forte le mani a Watson, forse nella speranza che trasferisse, come per magia la sua agilità nelle mie dita tanto da motivarmi a studiare per raggiungere i 220 BPM di metronomo negli assoli trascritti sull’omnibook di Charlie Parker.
Avere ammirato l’attore lituano che ogni sera durante “l’essere o non essere” rischiava la vita sotto un blocco di ghiaccio basculante e gocciolante, mi convinse che quella sarebbe stata la mia professione, oltre che una possibile fine gloriosa. Durante tutto il monologo l’attore stava sotto un grande candelabro che scioglieva lentamente il ghiaccio sopra la sua testa; goccia dopo goccia arrivava alla fine del monologo liberandosi dalla sua camicia di carta.
Leonardo, invece, tenne viva la mia passione per la potenza delle immagini più di recente riaccesa dall’installazione multimediale del regista Peter Greenway, rielaborata digitalmente sullo stesso affresco del “Cenacolo”; vedere quei dettagli che a occhio nudo non ero riuscito a cogliere sotto diversi cambi di illuminazione virtuale mi ha portato in seguito a studiare le nuove tecnologie applicate al segnale audio/video.
Forti emozioni
Tre esperienze intrise di bellezza e di forti emozioni sull’onda delle quali presi delle decisioni che cambiarono la mia vita. Certo, qualcuno potrebbe anche solo ridurle a dei capricci di un ragazzo piccolo borghese, che tentava di resistere alla sua inadeguatezza e non voleva accettare la dura realtà dell’esistenza, in un mondo sempre più globale e minimale nelle tendenze artistiche. Ma forse le ragioni sono più profonde e forse per comprenderle tornerebbe utile conoscere le neuroscienze, in particolare la neuroestetica. Perché? Perché è la neuroestetica che ci spiega come l’esperienza di bellezza che viviamo nel quotidiano sia riconosciuta, perché già “scritta in noi”, come un qualcosa di presente nel nostro meccanismo neurale e nel nostro sistema motorio. Sarebbe questo il motivo per il quale siamo così sensibili alla bellezza; è come se fossimo predisposti, “cablati” al bello. Ecco perché, anche nel rapportarsi con l’altro, da sempre le persone giudicano, generalmente in maniera inconsapevole, sulla base dell’aspetto prima ancora che del valore con equivalenze come bello/buono e brutto/cattivo.
È quanto accade nella vita, ma troviamo tanti esempi anche nella letteratura e ancora di più nel cinema di genere thriller, horror e giallo. Ma la neuroestetica può svelarci anche qualcosa di più. Ad esempio, può chiarirci quanto sia facile confondere e creare delle uguaglianze o dei nessi di causa/effetto fra alcune categorie come il bello, l’arte e il piacere. In questo senso un esperimento interessante potrebbe riguardare, ad esempio, l’arte concettuale di Duchamp; si potrebbero confrontare le reazioni cerebrali di chi ama l’arte concettuale con quelle di chi non l’apprezza affatto; ma non potremmo aspettarci risposte semplici, perché quelle legate all’arte sono complesse.
I neuroni specchio
Se consideriamo solo il livello emozionale, se ricordo l’”Amleto” di Nekrosius, posso ricordare che provavo la stessa emozione che provava l’attore in scena; questo accade spesso a tutti noi davanti a uno spettacolo che ci coinvolge e ancora di più davanti al grande schermo del cinema. Ancora una volta a spiegarci il meccanismo di fondo sono le neuroscienze, attraverso il concetto di empatia, ovvero la situazione di proiezione nella situazione emotiva dell’altro attribuita ai “neuroni specchio”. Nel mio caso, come l’attore, provavo una paura rafforzata dalla consapevolezza di osservare l’immagine scenica nel suo insieme. Qualcosa poteva andare storto in quella situazione di sospensione tra la vita e la morte, di un tempo scandito dal disfacimento di quella camicia di carta, che come una pelle di serpente portava l’attore a una nuova condizione di consapevolezza. Al di là dell’esperienza personale, potrei citare anche uno dei tanti esperimenti fatti per cercare di comprendere meglio i meccanismi dei “neuroni specchio”; quello incentrato sulle risposte neurologiche delle persone intente ad osservare un dipinto di Michelangelo nella Cappella Sistina a Roma, la cacciata di Adamo dal paradiso ad opera di un angelo che tiene una spada. È stato notato che la visione dell’opera ha aumentato l’attività dei percorsi neurali coinvolti nel controllo del movimento del polso, indicando che i partecipanti hanno sentito il bisogno di piegare i propri polsi in difesa, come se stessero lottando contro l’angelo stesso, come Adamo nel dipinto. Queste cellule cerebrali si attivano sia mentre un individuo compie un’azione, sia osservando qualcun altro che compie la stessa azione, rispecchiandone così nel cervello il comportamento.
Vivere l’opera
Le neuroscienze ci dicono quindi che non sono solo le nostre emozioni a essere influenzate mentre osserviamo l’opera d’arte; l’esperienza coinvolge direttamente anche alcune zone del corpo, corrispondenti alla corteccia motoria nel cervello. Gli studi dell’équipe dello scienziato G. Rizzolatti dimostrano come questo succeda anche nell’osservazione di quadri, in particolar modo in immagini statiche, ma con un contenuto dinamico. L’équipe del Prof. Gallese, sempre dell’Università di Parma, ha dimostrato come la corteccia motoria si attivi anche nell’osservazione dell’arte astratta. Ad esempio, osservando lo squarcio nella tela di Fontana, si attiva, in chi osserva l’opera, il circuito motorio del polso com’è avvenuto per il pittore nel tagliare la tela. A questo punto appare chiaro come l’empatia possa aiutare in certi casi a “vivere l’opera” e a crearne una sorta di legame per apprezzarla; ma è altrettanto chiaro come questo non significhi sempre far dire all’osservatore: “Che meraviglia d’arte e di bellezza!”.
Torniamo per un attimo all’”Amleto” di Nekrosius: tante persone uscirono dalla sala e criticarono l’estetica ridondante del regista, pur vivendo in sala le emozioni dell’attore protagonista. La lettura registica e l’emozione dell’attore, per questa parte del pubblico, tolse spessore e godibilità alla parola shakespeariana, già di per sé ricca di immagini e significati.
Le neuroscienze, neuroestetica inclusa, quindi non possono dare una risposta completa a tutti i quesiti riguardanti la percezione del bello e il rapporto con l’arte. Lo conferma anche il neuroscienziato Semir Zeki, che alla fine dei suoi studi riconosce che lo stimolo artistico, che parte dagli occhi o dalle orecchie e arriva nel cervello, prende delle strade inaspettate e che l’esperienza estetica diventa altro dalle qualità sensoriali pure. Vero è che l’esperienza soggettiva di fronte a un’opera d’arte può essere localizzata e quantificata in relazione all’attività elettrica del cervello, ma ci sono dei filtri che convertono l’immagine e il suono e a un certo punto deviano il segnale verso zone diverse, zone ancora non studiate, per provocare in noi esperienze lontane dalle aspettative degli scienziati. Questo accadrebbe grazie a dei “filtri”, costituiti da altre parti del cervello, che lavorando in modo multiplo e simultaneo deciderebbero in quali zone mandare il segnale per dare l’esperienza positiva di bello o negativa di brutto e su questo ancora la neuroestetica ha molto da indagare.
Piacere e bellezza Non c’è causa/effetto
Ci sono delle correlazioni tra piacere e bellezza che si “accendono” nel cervello sullo scanner degli scienziati quando assaggiamo lo zucchero presente in una cassatina siciliana o quando ascoltiamo la toccata e fuga in re minore di Bach. Ma possiamo essere certi nel riconoscere che l’esperienza sia unica e soggettiva. Non è casuale l’accoppiata bellezza/cibo nell’arte, e questo la comunicazione pubblicitaria lo conosce bene, così come lo sanno gli Chef delle grandi cucine; ma tra il bello e il piacere in mezzo c’è molto di più; ci sono altri livelli di complessità.
La neuroestetica ha tra i vari obiettivi quello di andare a fondo della questione sulla bellezza artistica.
Distinguere tra bellezza e arte diventerebbe importante per fare una ricerca seria sulla questione, così come importante sarebbe identificare i campi adiacenti alle neuroscienze, come la sensazione, la percezione, l’attenzione, la ricompensa, l’apprendimento, la memoria, le emozioni e il processo decisionale. Ogni campo è oggetto di studio e le scoperte sono quindi di arricchimento per capire cosa accade quando vediamo o sentiamo un’opera artistica. Tuttavia verrebbe subito da domandarsi se il brodo in cucina si fa meglio quando lo prepara un solo cuoco o una squadra di cuochi in cui ognuno dice la sua. Suggerire che il cervello umano risponda in modo particolare all’arte, dunque, rischia di creare dei criteri di giusto o sbagliato sia nell’arte stessa che nelle reazioni individuali legate a essa.
Gli strumenti d’indagine dei neuroscienziati
Le neuroscienze diventano neuroestetica quando si occupano dei temi legati alla percezione dell’esperienza artistica. Per fare questo si osserva il cervello dal “vivo” con esperimenti che vanno a monitorare l’attività elettrica neurale e di conseguenza le attivazioni emodinamiche e metaboliche di alcune zone; rispettivamente con le tecnologie dell’EEG, (elettro encefalogramma) e della tecnica della risonanza magnetica funzionale, fMRI, che consentono di mostrare a livello cellulare cosa accade sollecitati da stimoli visivi e uditivi.
Gli esperimenti di Semir Zeki Arte è vedere e sentire
Semir Zeki, uno dei padri fondatori della neuroestetica, cita spesso come punto di partenza e trova la sua definizione nel filosofo britannico Edumnd Burke (1757); “La bellezza è, per la maggior parte dei corpi, una qualità che agisce meccanicamente sulla mente umana attraverso i sensi”.
Gli esperimenti di Zeki consistono nel mostrare immagini o ascoltare parti di brani musicali attraverso lo scanner della risonanza magnetica, monitorando l’attività del cervello e ricevendo delle risposte in una scala di bellezza su quanto mostrato o ascoltato; con soggetti molto diversi per etnia, cultura, livello sociale ed età. Lo scanner determina il livello di sangue in certe zone del cervello, il cambiamento metabolico delle cellule del cervello e la risposta di fuoco della trasmissione in alcune aree. Per studiare lo stimolo visivo si sono mostrati due dipinti di donne nude di pari valore artistico riconosciuto; una magra e giovane “La grande odalisca” di Ingres e una signora obesa dal titolo “Benefits Supervisor Resting” di Lucian Freud, chiedendo se erano belle o brutte in una scala di valore da 1 a 10. Per la stragrande maggioranza dei soggetti la divisione dichiarava bella la prima e brutta la seconda. Poi è stata la volta di un’esperienza di ascolto, proponendo un brano del compositore contemporaneo Ligeti e uno della Quinta sinfonia di Mahler. Anche in questo caso la definizione di bellezza è andata per Mahler.
Cosa si è osservato nel cervello? Che sebbene ci siano delle differenze di aree sugli stimoli visivi e uditivi, si può trovare una zona comune, di congiunzione attiva nel definire bella l’esperienza, che corrisponde alla corteccia pre-frontale e un’altra zona del cervello che ha a che fare con il concetto di “premio”. L’area di congiunzione comune all’esperienza di bellezza è quella della corteccia pre-frontale, che si misura con una aumento del flusso sanguigno corrispondente a un’attivazione elettrica nella zona osservata. In altre parole, dal punto di vista scientifico, la percezione di bellezza non dipende da uno stimolo specifico che sia visivo o uditivo e nemmeno è importante affermare cosa si osserva o si ascolta nello specifico, ma cosa si “accende” nel cervello. Anche per il brutto si assiste a un’attivazione nel cervello che si può misurare e localizzare, con la differenza che cambia la zona interessata; quella in corrispondenza dell’amigdala, la quale regola l’emozione della paura, insieme a una zona della corteccia motoria; forse come a volersi difendere dalla bruttezza associata al pericolo. Ciò che sembrava uno stato soggettivo dell’esperienza può essere non solo localizzato nel cervello, ma quantificato in relazione alla quantità di attività elettrica del cervello.

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