I venditori ambulanti nella vecchia Fiume

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I venditori ambulanti nella vecchia Fiume

Le antiche stampe della Fiume ottocentesca di solito s’impongono per il loro aspetto urbanistico e architettonico, mettendo in primo piano la lunga strada del Corso e dei suoi palazzi, la “Tore”, squarci della Cittavecchia, la Fiumara con il suo vecchio porto oppure il porto nuovo con la Riva. Il personaggio umano invece, risulta quasi regolarmente in secondo piano, se non addirittura assente. Per cui tali immagini cittadine non riescono a rendere la vivacità, le attività dei suoi abitanti, i suoni, gli odori, i colori che dovevano “popolare” queste contrade fiumane.
Leggendo avidamente il pittoresco libro “Folklore fiumano” di Riccardo Gigante, che descrive i costumi, le abitudini, i riti, le occupazioni della gente, pian piano riusciamo a immaginare, a scoprire, a percepire il “pulsare della vita quotidiana”. Gli sciami di mularia della “Zitavecia” con i loro lazzi, i rumori del calderai, dei “lonzepadele”, le grida dei tantissimi venditori ambulanti e delle “venderigole”, il divertimento del popolo dinanzi agli spettacoli circensi o ai racconti dei cantastorie … e quant’altro. Personaggi immancabili, in tutte le stagioni dell’anno, nella Fiume ottocentesca e del primo Novecento, erano i venditori ambulanti. O meglio una miriade di venditori girovaghi che vendevano di tutto: dai dolci di tutte le specie, alla frutta fresca, alle “loganiche”, al baccalà. E i non pochi artigiani – vecchi mestieri caduti in disuso – che offrivano scaldini, pentole, arnesi da cucina in legno, oppure prestavano la loro opera a domicilio.

Fiume, Piazza Adamich

Venditori ambulanti
Un grande amico dei bimbi e dei ragazzi era il venditore di “zucaro de orzo”, “zucaro de pomi”, “zucaro nero” o “zucaro de carobe” e “zucaro pineto”, di “zucaro mascabà” e di “pilindrech”. Il “zucaro de orzo”, semplice zucchero caramellato, era tagliato a quadretti, detti “fetine”; quello “de pomi” si otteneva con sciroppo di mele; quello “de carobe” era zucchero caramellato e sciroppo di carrube. Veniva presentato in rettangoli stretti e lunghi, o in striscie sottili. “Mascabà” era lo zucchero di canna, farinoso e di color rossastro. “Pilindrech”, dal tedesco “Pillendreck” – che letteralmente significa “sterco in pillole”, che era poi la liquirizia in bastoncini, detti “bordonai”, travi, detta anche “Zucaro de Gorizia”. Andavano forte anche le mentine bianche e rosse, che erano note col nome di “diavoleti”. Il venditore richiamava i bimbi al grido di “Fetine! Zucaro nero! Pilindrech! Diavoleti! Bonbonzini per i bravi putini!”, a tutti “ingordi” a corrergli incontro.
Buzulai, scagnade, castagne

El castagner

Venivano da Volosca le venditrici di ciambelle biscottate, dette a Fiume “bìscoti” o “buzulai”. Le voloscane gridavano “Buzulai de Volosca! Li magna anca i veci! I se squaja in boca!.” Le “chersine” – contadine dell’isola di Cherso – vendevano invece le “scagnade”, ovvero,”mezi buzulai” impastati con molto olio. “Scagnade de Cherso!” era il loro richiamo. A volte giungevano nelle piazze anche le venditrici di “omini de pasta”, biscotti di pasta leggera e spugnosa tagliati a forma di figura umana, uomini e donne,con un buco o un fiore o un cuore di carta in centro.
Addossato all’angolo d’una casa, piantava il suo fornello il venditore di castagne arroste, “el castagnèr”. “Castagne calde per scaldarse el stomigo e le man! Maroni grossi de Lovrana”! gridava con voce cadenzata il venditore. Le castagne bollite invece venivano vendute da donne, “le castagnère”, che accovacciate a terra o sedute su sgabelli, tenevano davanti a sé un mastello colmo dei saporiti frutti invernali, gridando con voce stentorea: “Castagne lesse! castagne lesse!”.
Zaleti, cazzeti, saltimpansa
“Zaleti” erano delle minuscole focaccine di “farina giala”, o “fermenton” con “zibibe”, o “ùa suta”, cosparsi di zucchero. Si vendevano caldi. I venditori di questa leccornia autunnale e invernale erano friulani, che raccoglievano intorno a sé i clienti al grido di: “Zaleti caldi! Zali come l’oro, i zaleti!”.
Tre o quattro “ofelieri” d’origine cadorina offrivano dolci casalinghi, croccanti, mandorle tostate e frutti caramellati. Indossavano una giubba bianca e talvolta avevano anche il grembiule bianco. Le loro specialità erano: i “amareti”, dolci fatti con chiara d’uovo, mandorle e zucchero che si vendevano appiccicati sulla carta sulla quale venivano messi a cuocere; i “pandoleti”, biscotti con mandorle intere; i “cazzeti” simili ai “pandoleti” ma di colore bruno per l’aggiunta di cioccolata; i “peverìni”, fatti di farina, miele e pepe. Erano tagliati a rettangolo e vi erano confitte due mandorle; i “saltainpanza”, focaccia oblunga cosparsa d’uva passa, che si prendevano col caffelatte; i “mandolèti” pezzetti di croccante, pittorescamente chiamati “stronzoli de can”; i “brustolini” o “mandorle brustulade” con sopra lo zucchero; i “caramei”, fichi, prugne secche, datteri, spicchi d’arance, acini d’uva, gherigli di noce caramellati e “impiradi” in uno stecco. L’“ofelier” teneva la sua merce su un grande vassoio d’ottone sbalzato o decorato, oppure in una cassetta appesa al collo. Il suo richiamo era: “Paste, dolzi, mandole! Peverini e brustolini! A due soldini, a due soldini!”
«Bele fritole a un soldin»
Altro dolce ghiottissimo erano le mitiche “fritole”. Attenzione però, “aromatizzate con succo d’arancio, anice e uva passa”! Però, ci proveremo. Le fritole erano poste in vendita da vecchie donne che si accosciavano ai lati del “Volto” o sui gradini della chiesa di San Vito. Qualcuna le friggeva sul posto in un gran tegame in bilico su un fornelletto portatile. “Fritole! Bele fritole a un soldin” strillavano le venditrici.
Verso Natale e fino ai “Tre Re” (Epifania) gli “ofelieri” vendevano dei torroncini e dei pezzetti di mandorlato di loro confezione, gridando: “Mandolato! Mandolato!”. Ed i “muli” in coro: “Che caga el gato!”.
Non vanno dimenticati “le cartoline” ed “i s’ciocheti”, primitivi fondants di zucchero e succo di limone, lampone e menta, ravvolti in carta dorata e argentata, i primi; zuccherini allungati gli altri, incartati anche questi, e provvisti d’una minuscola capsula che a tirare le estremità dell’involucro esplodevano facendo “un s’cioco”.
“Petorai”, “ Petorali” – un venditore friulano li chiamava addirittura “pitureli” – erano le mele e le pere cotte e inzuccherate, disposte sopra lamiere che si ponevano ogni tanto sul fornello perché si mantenessero caldi. Il venditore gridava: “Petorali caldi! Petorali caldi!”

Un gelataio di una volta

Bibite e gelati
Nelle giornate estive giravano per le vie “de Zitavecia” e lungo le rive i venditori di limonata e tamarindo, reggendo due “masteloti col manigo” entro i quali c’erano i “fiasconi” o “bozoni” con le bibite. Gridavano: “Limonada fresca! Fresca la limonada! El tamarindo che cava la sede! A due soldi el bicier, a due soldi!”.
I gelatieri o “sorbetieri” erano tutti friulani. Avevano il loro carretto verniciato di bianco adorno di fiori dipinti. I “sorbeti” erano di tre qualità: “pana, fragola e limoli”. Spingendo il carretto gridava: “El sorbéto!”.
“El naranzèr” invece era il venditore ambulante di arance e limoni. Li vendeva su carretti gridando “Naranze de Jaffa! Vera Jaffa! Naranze e limoni per i puteli boni!”. Girovaghi ottocenteschi ben presto furono sostituiti, già fin dai primi anni del ’900 dai fruttivendoli.
Loganighe de Viena
II venditore di “loganighe” era di solito trentino o friulano. Vendeva salsicce affumicate, salamini e carne affumicata, disposti su un vassoio di legno appeso al collo. Offriva la merce al grido di: “El loganigher! Loganighe! Salame co l’ajo! Salamucci duri duri!”. Nei primi anni del secolo comparvero, d’inverno, lungo le rive i venditori di “loganighe de Viena”. Avevano una caldaia a forma di locomotiva, con le sue ruote e il fumaiuolo, entro la quale cuocevano le salsiccie di Vienna (i “Wurstel”). Le servivano su un pezzo di “cartastraza” insieme con un pizzico di “cren”.
I venditori di frutti di mare drizzavano i loro banchi nei pressi della pescheria o delle osterie “de zitavecia “. Nei mesi primaverili vendevano “peoci, caparozole, cape sante” e “ capete”; in quelli invernali i “mussoli” che riscaldavano su un fornello simile a quello dei “castagneri”. “Mussali caldi! Boni come le ostriglie!”, era il loro grido di richiamo. Il cliente se li mangiava sul posto in una ciotola di legno o se li portava nella vicina osteria per “beverghe sora un bicier de teràn” (Terrano d’Istria) o “de domace”.

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