TRIESTE Uscire dalla retorica degli anni del fascismo che cantò la vittoria della Prima guerra mondiale e tramandò per generazioni una storia poco veritiera o perlomeno troppo celebrativa e poco attenta delle reali dinamiche economiche e sociali del tempo: è questo l’obiettivo che Maurizio Soldà si è posto nello scrivere il testo dello spettacolo “I due Ribaltoni: Trieste 1918, Fiume 1919”, prodotto dall’Associazione Internazionale dell’Operetta di Trieste e dal Dramma Italiano di Fiume. Parte dalla volontà di sgomberare prioritariamente il campo da tutti quegli orpelli, che il pensiero del Ventennio introdusse nel sentimento comune e nella cultura imperante, e si addentra, attraverso personaggi che raccontano vicende realmente avvenute, negli accadimenti che colpirono le due città e le tante realtà territorialmente contigue, sconvolgendone drammaticamente la fisionomia. Quello di Soldà è un viaggio sofferto, ma anche ironico e a tratti divertente, nell’identità delle nostre terre, ne delinea le tante problematicità e contraddizioni. I suoi personaggi portano sulle spalle le sconfitte della vita, rese ancora più dure dai drammi della guerra, ad esempio il suicidio del padre del giornalista triestino. L’uomo, ricchissimo commerciante di stoffe, aveva investito tutto in obbligazioni delle banche austriache, la fine della guerra travolse le banche e tutto il suo capitale. Dice il personaggio, interpretato da Soldà: “Mio padre prese la rivoltella e si sparò una palla in testa, con dignità!”. La contadina istriana era nata a Pola, non proprio a Pola, in un villaggio là attorno, d’estate trascorreva le vacanze dai parenti a Fiume, e poi era andata a servizio a Trieste da un ricco banchiere, Pečeck, che col ribalton aveva preferito ritirarsi a Lubiana, temendo ritorsioni per il tracollo bancario. Impersonata da Elvia Nacinovich, esprime tutto il disagio di un’identità difficile, mai precisa, formatasi in un luogo in cui mondi, popoli, lingue, usanze e tradizioni si sono mescolate per secoli. Come parla Elvia, il dialetto di Pola, quello di Fiume, ha influenze triestine? Ve lo dice lei con il carattere e l’ironia che contraddistingue il personaggio che fa vivere in scena, si commuove per la morte in guerra del fidanzato di Caterina Frank, ma come le donne istriane trova sempre la forza di voltare pagina e andare avanti. “Questa è la verità altro che le ‘ciacole’ di quell’altro, ‘el vate’ ch’l iera anche bruttino da vederlo”, così liquida il fastidio che le provoca la retorica altisonante e sciocca delle divagazioni del bersagliere ardito, Gualtiero Giorgini, che racconta dei primi giorni a Fiume dopo l’arrivo di Gabriele D’Annunzio. Sembra pazzo il bersagliere, invasato della sua avventura fiumana, dell’aver incontrato personalmente il Vate, ma poi mostra anche il suo vero volto, le sue disgraziate origini da una terra, dalle paludi del Polesine, che non lascia speranze.
Matti «volontari»
Caterina (il soprano Ilaria Zanetti) è austriaca, era una felice cantante d’operetta, ha conosciuto Puccini, ha amato l’Italia quando c’era l’Austria felix, ora non si ritrova più in tutta la tristezza che il ribalton si è portato dietro, travolgendo la sua città, Trieste, la sua famiglia, portata via dalla disperazione. Il suo amore si chiamava Franz come l’imperatore, quando andò in guerra le confidò di avere paura. “Sono rimasta senza parole, zitta per alcuni minuti e poi sono riuscita a dire solo: chissà se te tornerà”. Canta una disperata canzone d’amore in sloveno di Viktor Parma, nella quale si racchiude tutta la sciagura di una grande prematura perdita. Il musicista sloveno, Aleksander Ipavec, è un omone grande, grande, chiuso in una camicia di forza, perché altrimenti si mangia tutta la dispensa e in tempi di fame non se glielo può permettere. Suona la fisarmonica divinamente e nelle poche parole che dice chiama a raccolta il suo popolo contro l’imperialismo tedesco, “giammai patteggiare con i tedeschi che dovranno scomparire dalla vita politica slovena”, dice. I cinque si trovano in un manicomio, anzi frenocomio come si usava dire a quei tempi, ma non sono veramente matti. Sono disperati, disadattati: “El frenocomio è stato invaso da quelli matti volontari o coatti di Trieste, dell’Istria di Fiume che non ne potevano più. Della fame, della guerra, delle trincee, del fango dei morti… Noi siamo tutti matti ‘volontari’, non ce la facevamo più, qui non si sta male, se magna, se bevi a sbafo”, così recitano.
Non è una commedia “I due Ribaltoni”, bensì l’affresco di un mondo, fatto con larghe pennellate di storie vere, di un momento storico che anche le canzoni originali dell’epoca aiutano a disegnare, popolari di Trieste e Fiume, auliche e altisonanti dei grandi compositori, da Puccini a Parma. Un ulteriore passo avanti per comprendere le nostre profonde complessità, i perché della nostra unicità.
Lo spettacolo è già andato in scena a Duino, Gorizia e Trieste. In autunno sarà in tournée in Istria, a Fiume e in Friuli Venezia Giulia.
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